E quando miro in cielo arder le stelle; Dico fra me pensando: A che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo Infinito seren? che vuol dir questa Solitudine immensa? ed io che sono?
Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia è stato composto da Giacomo Leopardi quasi due secoli fa (tra il 1829 ed il 1830). Ancora oggi è attuale, bruciante. Davvero brucianti ed immortali sono le domande che si affacciano alla mente del pastore. E di noi tutti, pastori erranti nel cosmo.
A che tante facelle? A che servono tutte queste stelle? Aggiungerei, da astrofisico, a che serve che noi le studiamo? Le due domande, come capirete, vanno insieme, anche nella possibilità di una risposta.
Dopo duecento anni siamo ancora qui, nel punto focale che ha individuato Leopardi. Perché è un punto gravitazionale stabile: eterno, per la razza umana. Il genio poetico indica proprio questi punti di stabilità, parla di cose che rimangono. Ricordo che proprio Leopardi scrisse anche, da giovane (aveva appena quindici anni) una poderosa Storia dell’astronomia dalla sua origine fino all’anno MDCCCXIII.
Come avrete probabilmente notato riguardo le illustrazioni di questa rubrica, alla consolidata collaborazione con l’artista ed amico Davide Calandrini, si è quietamente avviata negli articoli più recenti una sperimentazione di immagini generate con i motori di intelligenza artificiale, i cosiddetti text-to-image.
Il reale muta molto velocemente, siamo in accelerazione anche noi – proprio come il cosmo – ed è più che opportuno sperimentare con le nuove soluzioni tecnologiche, comprenderne potenzialità e limiti: tutto questo, con l’intento di non farsi condurre da esse in modo passivo, ma educarsi anche qui ad un proficuo rapporto, che tuteli quella creatività che è la forma specifica ed irriducibile che distingue l’umano dalla macchina.
L’intelligenza artificiale – lo sappiamo – non è realmente creativa (provate a chiederle di generare una poesia e vi metterete le mani nei capelli), è un insieme di algoritmi, pur estremamente sofisticati. La creatività è però il centro gravitazionale specifico di questa rubrica, così possiamo avvertire questa indagine come una parte organica di questo nostro attivo dimorare nel punto di intersezione, sempre vivo, tra letteratura e scienza.
Tecnicamente, i motori text to image (da testo ad immagine) generano una illustrazione a partire da un input testuale, anche molto strutturato: si può domandare, per esempio, non soltanto di avere una immagine di un gatto in una vecchia casa ma aggiungere dettagli stilistici o pittorici, tipo un gatto su un tavolo stile Vermeer (non so se lui abbia mai dipinto qualcosa del genere, ma è inessenziale in questa sede). Vi sono diversi motori di questo tipo, disponibili online: cito solo alcuni tra i più noti, come Image Creator di Microsoft, NightCafé o Firefly di Adobe, ma la lista esaustiva sarebbe assai lunga. Tuttavia non è tanto il lato tecnico che ci interessa qui, quanto le ricadute in ambito creativo. E vogliamo capire come se la cavano, specialmente, con la parola poetica. Sopratutto, che immagini ne riescono a trarre.
In una Roma torbidamente soffocata nel caldo estivo, con la ridotta lucidità consentita dalle temperature in fuga ascendente, ho provato dunque a compiere un minimo esperimento, dando in pasto ai tre motori citati, un verso di Annalisa Manstretta, un verso che abbiamo già commentato qualche mese fa (quella volta era accompagnato da una immagine elaborata da Davide):
Il sole dal lato sinistro, la luna da quello destro, due cerchi perfetti. In questa campagna astrale ci son finita io, quella fuori scala, dalla taglia modesta di una donna.
Non ho impartito raccomandazioni stilistiche e mi sono limitato alle impostazioni di default, per la generazione di immagine: ogni sito peraltro permette di giocare con una serie di regole in modo da ottenere, dallo stesso prompt testuale, una grande varietà di immagini. Ancora, spesso le immagini generate sono molteplici: qui ne riporto appena una per ogni caso, scelta a mio gusto personale.
Ecco dunque cosa mi propone Image Creator.
Una composizione astratta decisamente cosmica dove correttamente un astro simile al Sole appare sulla sinistra, un corpo simile alla Luna sulla destra. La figura femminile si pone evocativamente come tratto d’unione tra i due. Forse il modesta è stato appena tralasciato… [Continua a leggere sul portale EduINAF]
Sono tempi interessanti per il nostro viaggio nel cosmo. Mentre si riprendono i contatti con sonde ormai giunte agli estremi confini del Sistema Solare – come abbiamo visto il mese scorso – dei nuovi strumenti come la sonda Euclid ci aprono delle finestre su un universo che si dimostra sempre nuovo (vedi bit.ly/sonda-euclid), che aspetta proprio che noi lo si guardi più attentamente per rivelarci nuove meraviglie.
In questo senso è una avventura sempre in corso, come la poesia. Come questa, niente è già stabilito, nessuna certezza è data prima della partenza. Poesia e cosmo esigono un atto di fiducia, pena il rientrare nei nostri territori senza alcun cambiamento di stato (che invece è il vero fine dell’avventura) nella nostra coscienza. Dobbiamo fare nostro il grande salto di cui parla Etty Hillesum nel suo Diario.
La sonda Voyager 1 è attualmente l’oggetto creato dall’uomo più lontano da noi, in senso assoluto. Partita nel 1977, si trova adesso a più di 24 miliardi di chilometri da casa. Voyager 1 (come la sorella gemella, Voyager 2), dopo 47 anni di onorato servizio e dalle distanze cosmiche dove è arrivata, non solo mantiene i contatti con la Terra, ma ancora invia informazioni scientifiche. C’è stata parecchia apprensione negli ultimi mesi, perché i dati in arrivo dalla sonda erano improvvisamente diventati incomprensibili, indecifrabili. Un guasto ai computer di bordo: c’era la paura di perdere il contatto. Oppure, di non riuscire più a parlarci, a capirci.
Ora che scrivo, la NASA è appena riuscita a riprendere il dialogo con la sonda, riprogrammando i computer in modo da aggirare l’avaria. Impresa quasi incredibile, considerando che – a motivo dell’enorme distanza – ogni comando che si impartisce da Terra viene ricevuto dalla sonda quasi con un giorno di ritardo e la risposta arriva a Terra ancora un giorno dopo.
Il giorno 15 del mese di maggio ho tenuto, presso il Fondo Ferroni di Frascati, un intervento dal titolo Il Cosmo e la Poesia. Di fronte ad un nuovo universo?
In questa occasione ho voluto riprendere il discorso a tappe che sto conducendo nella rubrica Il cosmo e la poesia sul magazine dell’associazione Frascati Poesia, volto proprio ad esplorare quella fittissima trama di relazioni che sussiste tra la ricerca astronomica e cosmologica e l’espressione poetica, di ogni tempo. Un discorso che finalmente, dalla parola scritta si è riversato nella conversazione orale, con tanti stimoli, domande cui poter rispondere, persone con le quali poter interagire.
Un’occasione anche, per fare il punto sullo stato attuale della nostra comprensione del cosmo, come pure su tutte le occasioni di meraviglia che ci regala la ricerca attuale, dalle immagini spettacolari della superficie di Marte, all’epopea delle Voyager, fino a chiederci di cosa è fatto l’universo e ad arrenderci, docilmente, alla nostra immensa e feconda ignoranza.
Grazie di cuore a Rita Seccareccia di Frascati Poesia per avermi invitato, ma grazie di cuore anche ad Angelo Chiolle per aver realizzato con attenzione e passione il montaggio delle immagini in sincrono, con l’audio registrato durante il mio intervento.
Ecco, il viaggio tra cosmo e poesia continua, perché in fondo (almeno per me, ormai l’ho capito) è il viaggio della vita.
Alle volte sono le poesie, che ci aiutano. Ci aiutano a capire, a capire in che mondo siamo, in che universo stiamo vivendo. Ci aiutano a comprendere in che universo scegliamo di vivere, momento per momento. Sono intrinsecamente cosmologiche, le poesie.
Del resto, la scelta è affidata – sempre e di nuovo – alla nostra libertà. Possiamo sempre e comunque transire di universo, passando da spazi privi di senso e senza speranza ad ambienti cosmici finalmente intrisi di significato, orientati ad un fine. Ambienti dove tutto — perfino il nostro dolore — acquista un suo peso specifico, una sua dignità di valore, adeguandosi, aderendo al campo di onde generato da quella data finalità, da quel principio d’ordine. Possiamo addirittura lasciarci sprofondare dentro un buco nero sapendo che non è la fine, ne usciremo attraverso un buco bianco, in questo o un altro universo (di pensieri, sensazioni). Sarà certo doloroso, perché è sempre doloroso lasciar indietro quel che non serve più. Doloroso ma necessario, per rinascere.
Nel numero scorso, abbiamo sospeso la nostra riflessione su cosmo e poesia alludendo a quel mistero, che la poesia custodisce e difende. Credo valga la pena ripartire proprio da qui, perché è uno dei luoghi privilegiati dove poesia e studio del cosmo si possono davvero incontrare.
La parte di non essere è usualmente più libera, meno ingombrata, meno carica di pregiudizi e posizioni prese. Il vuoto del resto – la fisica moderna ce lo insegna – è tutt’altro che una zona morta, ma a guardarci bene è un pullulare di vita incredibile, un continuo zampillare di particelle che poi si annichilano rapidamente solo per riformarne altre, continuamente diverse, con mirabile abbondanza e ricchezza d’invenzione. Insomma, il vuoto quantistico è tutt’altro che vuoto, anzi è proprio il modo di intendere il vuoto una delle cose che più distingue la fisica moderna da quella classica. Da come guardi una mancanza, si capisce come guardi tutto, potremmo dire.
Come abbiamo iniziato a comprendere la volta scorsa, la poesia ha costantemente guardato al cielo con quel senso di meraviglia che a volte l’impresa scientifica (possiamo pur dirlo) ha perso di vista, incalzata dall’inesorabile progredire della tecnica e dalle nuove possibilità che si aprono continuamente – in particolare – per l’esplorazione dello spazio. La poesia è allora ciò che aiuta l’astronomo a rientrare in sé, a recuperare la sua umanità e quindi lo aiuta e a tornare amico delle parole e perciò stesso, a raccontare e raccontarsi. Se l’intero è più della somma delle sue parti, il cosmo è ben più della mera collezione delle informazioni riguardanti gli oggetti che lo compongono. Il poeta non si cura di studiare la struttura degli interni stellari, compito senz’altro dell’astrofisico: egli intende piuttosto di riportarci a quella comprensione globale del cosmo che pur ci appare necessaria. Può esserci ancora spazio, in questo mutuo soccorrersi, per interrogativi oziosi su quale delle due attività sia da considerare privilegiata?
In fondo, la poesia è la divulgazione del mistero del cosmo e dell’uomo, in modalità fascinosamente sintetica e secondo la difformità di visioni che garantisce, per cui la scienza che torna amica della poesia è una scienza che si fa divulgare con maggior facilità e con più deciso riscontro. La poesia insomma fa bene alla scienza (ma vale anche il viceversa).