In che senso possiamo sostenere che l’universo è elegante? Ed ancora, come possiamo accorgerci di questa eleganza, e che conseguenze può avere? Che conseguenze concrete – intendo – per la nostra esistenza su questo pianetino che ruota intorno ad una piccola stella situata nelle periferie di una enorme galassia a spirale?
Ottima conversazione nella serata, lo scorso lunedì, per la serie Io divulgo forte di Radio Incredibile con Andrea Cittadini Bellini e Valeria Tassotti. Siamo partiti dal rapporto tra scienza e fede ma presto il dialogo si è allargato ad altri temi e altre provocazioni. Alla fine, saremmo andati avanti per ore: l’affiatamento era perfetto e il dialogo scorreva senza intoppi.
Non la conoscevo, Adriana. Non l’ho mai incontrata, nemmeno da lontano. Eppure era da tempo qualcosa di mio. Intendo, la sua musica era diventata mia, nel tempo. E nel cammino. Nel cammino che lei ha fatto e io, tra cadute e riprese, allontanamenti e ritorni, provo a fare. Sono ancora qui che provo, e le sue melodie mi risuonano dentro come argini sicuri dove incanalare le emozioni, il desiderio del bello, del vero, il desiderio di essere a casa, di essere amati e protetti ed accuditi. Il desiderio di un perché, soprattutto.
Nelle assemblee cantavamo Povera Voce e mi è sempre apparso un canto semplice e bello, limpido e chiaro. Non c’è una parola di troppo, non c’è un pretesto per non camminare, per non camminare in queste parole e dunque iniziare – o riprendere – il cammino personale.
Scrivo ora su Adriana Mascagni, a poche ore dall’inizio della celebrazione dei suoi funerali. Scrivo di una persona che si è fatta strada nel mio cuore con la sua arte, è entrata con la persuasività della sua musica, delle sue parole.
Banale dirlo, forse. O ridirlo. Ma il potere dell’arte è questo, di colpo una persona che non hai mai visto ti entra dentro in modo prepotente e perentorio, attraverso il canale dell’arte, perché tu e lei, tu e lui, siete entrati in risonanza per un tema musicale, per delle parole, per un dipinto. Improvvisamente ecco che ti importa. Quello che fa questa persona, ciò che produce, diventa importante per la tua vita. Se (per dire) sei un astronomo, ti occupi della Luna e delle stelle, ecco che Luna e stelle sono nel suo canto, sono il suo canto. L’arte vera è gentile e viene a parlarti nel linguaggio che tu conosci: lo fa lei tutto il lavoro per collegarsi con te. Tu devi solo aprire gli occhi, le orecchie.
Chi non è toccato da un concerto di archi, come si può essere insensibili dinanzi ai colori di una sonata per pianoforte? Sembra il massimo. Eppure, quando sento la voce umana… Non so se capita anche a voi: ma è ancora di più, e di più non si può. Davvero, non esiste un servizio alla comunità paragonabile al canto.
L’artista entra nella tua vita con il suo materiale e poi che farne di tutto questo, decidi tu. Non mette alcun freno alla tua libertà. Il servizio alla comunità è reale, penso, se si gioca ultimamente in una possibilità offerta specificamente ad ogni persona: la proposta arriva così al singolo. Come dire, ti propongo questo, tu cosa ci fai? Come la tua creatività incontra la mia, cosa vi costruisce intorno?
L’argomento è tra i più seri. Forse il più serio, mano mano che uno va avanti con le stagioni, prosegue avanti il suo tragitto, nel trascorrere (comunque) ricco degli anni. E’ così serio (come la religione, il sesso) che si preferisce spesso non parlarne, si riconosce il composto equilibrio di non parlarne proprio.
Come si fa, insomma, per le cose di cui nessuno ritiene davvero che esista una soluzione, o comunque un modo produttivo per poterle affrontare. Come si fa per le cose che ci piovono addosso e ci lasciano confusi, perplessi, interdetti. Indifesi, anche. Per le quali ognuno mette in campo, personalmente, privatamente, le difese che può, che trova, che gli sembra di trovare al momento. Provvisorie e parziali e discutibili che possano essere, ma intanto (parzialmente) tamponano. Cantava infatti Roberto Vecchioni molti molti anni fa (e lo capisco certamente più adesso che al tempo),
“salvarla con le figurine /salvarla con le patatine / con il rimorso di arrivare / soltanto quando la nave è partita / però salvarsela la vita.”
Insomma, ci sono cose che non riusciamo proprio ad affrontare di petto, dove ci arrabattiamo come si riesce. E del resto, come possiamo biasimarci? Insomma, già è demanding il fatto stesso di vivere, di intessere relazioni, di lavorare (chi può). Figuriamoci a chiedersi una cosa come questa. Figuriamoci.
Chiedersi cosa regge l’urto del tempo è cosa leggera solo per chi sia ancora molto giovane (e non è neanche detto, se la persona in questione è sensibile). Altrimenti è qualcosa, appunto, su cui non si può scherzare. Come detto, non conviene. Se ci penso, quindi, capisco meglio che il titolo di questi che chiamerò brevemente Esercizi (qui tutte le informazioni per capire cosa sono e come entrarvi in contatto), Che cosa regge l’urto del tempo, è veramente una sfida. E’ proprio qualcosa su cui non sopportiamo risposte retoriche o inconcludenti, su cui non tolleriamo perdite di tempo, giri di belle parole.
La posizione predominante (psichicamente dentro di noi, e statisticamente tra noi) è quella espressa in modo geniale e disincantato da Francesco Guccini nella canzone Farewell, non a caso richiamata esplicitamente da Juliàm Carron durante gli Esercizi. Non si può scavallare rapidamente questa posizione, dobbiamo farci i conti ogni mattina invece. Di più, io diffiderei profondamente di chi la scavalla troppo facilmente, magari con quel meccanismo di spiritual bypassing che purtroppo non porta mai ad una vera crescita dell’individuo.
Possiamo dirlo, possiamo ammetterlo. E’ tremendamente persuasiva la frase di Guccini
Ma ogni storia ha la stessa illusione, sua conclusione, e il peccato fu creder speciale una storia normale…
Qui non c’è più da barare. E’ vero, si esce da questa percezione, se ne può uscire, lo sappiamo tutti. Abbiamo tutti sperimentato momenti in cui questa percezione era vista come falsa. Momenti, dico. Perché certo, viviamo abitualmente così, con una specie di asserzione interiore che gira in background, che avverte “niente può reggere l’urto del tempo”. Cantava anni fa, il Boss, che everybody dies baby it’s a fact. Sembrerebbe una parola tristemente definitiva. Eppure abbiamo tutti sperimentato momenti illuminati in cui sentivamo che questa non è l’ultima parola. Non è il framework conclusivo, quello che comprende tutto.
Ma qui si innesta il cambio, secondo me. Per andare oltre va effettuato un cambio di paradigma. Non basta più elencare concetti, srotolare asserzioni. Non vale più il fatto, capisco una cosa, la faccio mia, procedo oltre. Non è qualcosa che va capito. E’ piuttosto roba che va domandata, che richiede un cambio di atteggiamento. Una nuova attitudine. Qualcosa che ci viene addosso, ci cambia polarizzazione, ma non possiamo afferrarla. Non è questione di circoscriverla in un nostro ambito. E’ una cosa che non possediamo, ma in un certo senso ci possiede. Insomma, non è a forza di ragionamenti sull’universo, che arriviamo a poter assentire con quella bella, antica canzone di Angelo Branduardi, sentendo anche noi che niente mai perduto va, al centro tornerà. Soprattutto perché si insinui l’idea, l’ipotesi pazzesca (e tremendamente interessante, per chiunque), che quel che c’è di buono in me non andrà perduto. Ecco, questa sarebbe davvero la rivoluzione perpetua, del nostro modo di pensare.
Mi fermo sulla soglia. Ma capisco che è cosa per cui può essere giustificato perfino un lavoro spirituale, nella misura in cui può favorire questa diversa percezione dell’ordine delle cose, dell’ordine del tempo. Qualcosa che ci porti a sussurrare, come trionfo della categoria della possibilità, quel mai dire mai che è anche il titolo di una bella canzone di Ligabue (nota, vi erano tempi in cui non avrei mai pensato di dire la frase intera “una bella canzone di Ligabue”, ma tant’è), che lascia intravedere un modo di vedere le cose, diverso.
Proprio perché l’argomento è oggetto di un lavoro, sempre da rinnovare, non è che me la posso cavare convincendovi (e convincendomi) in maniera dialogica. Sarebbe un inganno. Mi basta di portarci (e portarmi) a dire (quasi vergognandosi, ma dirlo) beh sì, può esserci questa possibilità, sembra pazzesco il più delle volte, ma può esserci. E’ anche un lavoro di cesello. Rinunciare alle interpretazioni all’ingrosso dell’universo, la vita, il cosmo, il Mistero, la fede… e abbassarsi a cercare quella struttura fine, quella trama di luce sottile, che a volte abbiamo intravisto tra le cose, negli spazi tra le cose. Come, sottratto al vuoto che fa paura, e consegnata ad un ordine pacifico, benevolo, bello e rassicurante.
Ed anche, come suggeriscono gli Esercizi, in modo cordiale ma preciso, ritrovare dentro sé stessi quel nucleo di valore, quel momento di incontro con qualcosa di luminoso ed armonioso, di qualcosa che vale e che ha incrociato la nostra vita, in un momento, un segmento di tempo. O che può passare o ripassare, in qualunque condizione ci troviamo.
Per questo, non dobbiamo fare nulla. A far da noi su questo, infatti, non siamo buoni. Possiamo aspettare di intravedere, forse, una soluzione.
Dire che è impossibile, è certo lecito. Ma non sembra ragionevole.
Sono tempi strani, e questi tempi elettorali, forse esaltano e fanno brillare quel senso di disagio, che è caratteristica anche della politica di questi ultimi tempi.
Fateci caso, quasi nessuno dei nostri politici si cura di spiegare che specifica formazione europea sostengano, e tanto meno di dettagliare le ragioni di una scelta, delinearne i motivi, il quadro ideale di riferimento.
Non si ascoltano (quasi) da nessuna parte, dettagliate analisi sulla composizione del Parlamento Europeo, sul perché afferire ad una formazione oppure all’altra. Niente affatto, si sceglie sovente di far leva sui soliti temi di politica italiana, purtroppo ridotti a slogan e dunque svuotati drammaticamente di quella profondità di pensiero che sarebbe necessaria per affrontarli davvero.
Quando poi non arrivino, e parliamo di ministri, ad entrare a gamba tesa nel terreno del sacro (da percorrere, come si capisce, con grande cautela in queste circostanze, essendo il terreno del vero senso, della profondità inaudita e irriducibile delle cose) nel tentativo un po’ maldestro di rafforzare la presa emotiva (a questo punto) di una certa posizione – che invece andrebbe argomentata su basi laiche e razionali, non ricorrendo al sacro se non per quello che ha a che vedere con il cuore, con la poesia e il dramma della vita e della morte. E e non certo con i calcoli elettorali.
La prima sensazione, davanti a questo, è di tristezza. Stanno facendo a gara per spingermi a decisioni d’impulso, elaborate su base emozionale, pulsionale, su simpatie e antipatie politiche di cortile. Decidere per le bellezza dell’Europa giocando su un’area piccola piccola, quella di una misera controfigura della politica italiana. Quando la posta in gioco è ben più alta, quando si tratta di alzare lo sguardo. E respirare. Stanno facendo della mancanza di poesia (ovvero di una visione profonda e liberante dell’uomo e del cosmo) un espediente per manipolarmi. Ridurre la speranza e quindi manipolarmi più facilmente.
La rivincita è prima di tutto del pensiero. Ripensare con fiducia all’Europa, è un atto poetico e politico. Europa, che è la bellezza scintillante ed intima di Parigi, la fuga di stradine intorno a San Pietro a Roma, i meravigliosi Kew Gardens di Londra (questo forse per poco ancora, ma chissà), la maestosità tranquilla ed assolata di Marientplatz a Monaco di Baviera, il tesoro a cielo aperto che è Siviglia… e tanto, tantissimo ancora. Sono tanti mondi incastonati l’uno all’altro, tanti universi appassionatamente connessi, innervati e vivificati dai sogni di chi ha voluto guardare avanti, spingersi oltre. Dove si è formato un essere europeo che è ricchissimo di tante di queste suggestioni, di una culla di cultura ed elaborazione politica, di un modo di vedere il mondo che è ultimamente stellato (come la bandiera europea, proprio).
Alzare lo sguardo alle stelle. Sognare e muoversi per lavorare il sogno.
La prima cosa che costruisce un sogno, che lo innerva di linfa, è la fede. Dobbiamo innanzitutto crederci, di nuovo. Questa intima decisione riallinea qualcosa nell’universo, rende le cose di nuovo possibili. Le cose sono possibili secondo quanto io mi permetto di crederle tali, in fondo sappiamo che è così.
Crederci vuol dire anche fare un gran respiro, soffiar via gli umori tristi delle baruffe tra verdi e gialli e sul senso di falsa sicurezza e vera chiusura che alcuni propugnano (con o senza rosario in mano). Vuol dire fare una mossa imprevista, scantonare dall’angolino dove ci vorrebbero confinati, e aprirsi al sogno, alla possibilità sognante dunque poetica, dunque concretissima, di operare.
Di esserci, di relazionarci, di baciarci.
L’Europa, dove è ? L’Europa esiste, è nel mio cuore, non me la possono rubare.
La vera rivoluzione, è riportare la poesia in politica, ovvero tornare a parlare del cuore dell’uomo, e farlo anche in un volantino che ci si attende debba essere asciutto e concreto. Perché il punto è questo. Tutto l’amaro veleno del nostro errore, è ritenere che ciò che parla del cuore non sia concreto. Siate realisti, chiedete l’impossibile, diceva uno slogan del sessantotto.
E invece, all’inizio sembrerà la cosa più astratta. Magari penserete anche voi che dice “cose giuste ma non facilmente usabili”. Lo si può pensare, viene da pensarlo, alla nostra mente quando è presa dai bilanciamenti dei rapporti di forza, dalla mancanza del bacio della poesia (cioè del Destino buono). Poi quando ci entrate dentro, capite che ad essere astratto, in questa campagna elettorale, è semplicemente tutto il resto.
A volte è difficile rimanere su Facebook, girare per Internet, senza avvertire quasi un senso di nausea. In queste occasioni, soprattutto. Perché un fatto doloroso, penoso come l’incendio di Notre Dame viene interpretato e tirato in mille direzioni diverse, in diecimila percorsi, più o meno opinabili.
Che uno avrebbe giusto voglia di dire basta! Stiamo ai fatti, per carità.
E’ difficile stare alla realtà: appunto, stare ai fatti. Ma è un esercizio necessario. Io credo che i semplici fatti sono questi, che niente su questa terra è eterno. Noi lo sappiamo, certamente lo sappiamo a livello teorico. Ma a volte, nella vita pratica, facciamo finta che non sia vero.
Così si mostrava, quando la guardavo a dicembre dell’anno scorso
Siamo cioè noi stessi che ci muoviamo come fossimo eterni, che avessimo sempre molto, molto tempo da spendere. Da investire in cose inessenziali, cose transitorie, cose di passaggio. Tempo quasi infinito, per intrattenerci in cose che noi stessi, noi per primi, non reputiamo fondanti, non reputiamo essenziali per la nostra vita. Distrazioni, appunto.
Io avverto invece questo sentimento, quando accadono queste cose. E’ come se suonasse una sveglia, si alzasse un richiamo. Un richiamo potente a tornare all’unica cosa degna, a vivere la tua vita. Non si parla di essere (più o meno) buoni, di essere (più o meno) cattivi. Non è questo, non è il vero punto. Il richiamo è a vivere la tua vita fino in fondo, a viverla cercando il significato. Di questo, si tratta, non di meno.
La cattedrale è un simbolo religioso, certamente. Per questo vorrei ricordare la frase di Luigi Giussani, per me una delle più belle in assoluto:
L’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere sempre intensamente il reale.
Se proprio vogliamo leggerci un messaggio, il messaggio secondo me è questo, il tuo tempo non è eterno. Tutto si muove, vedi, tutto si modifica. In questo tempo non eterno, stai facendo quello per cui sei nato? Stai provando a cercare e realizzare la tua vocazione?
Che contiene quest’altra domanda, quest’altra fondamentale domanda: ci credi che sei qui per un compito, un compito che nella sua precisa e compiuta definizione, puoi svolgere esattamente te, soltanto te?
Questo è vivere intensamente, appena questo. Rispondere a questa domanda, dentro di sé, in un senso o nell’altro, attiva delle forze misteriose nell’universo, allinea o disallinea con i campi di forza di quasar lontanissimi. E’ qualcosa che ha a che fare con l’armonia dell’universo, il suo significato operativo, il suo tesoro di bellezza pratica ed esistenziale.
Bellezza di cui ogni bellezza, inclusa la cattedrale di Notre Dame, è grato riverbero.
Il resto sono piccoli passatempi, cose inessenziali. Cose buone per chi, semmai, potrebbe pensare di vivere un tempo indefinito.
Se proprio vogliamo vedere un segno, in questo incendio, in questo crollo, allora vediamolo come una spinta a vivere la nostra vita, a diventare noi stessi. A rischiarci in quell’opera unica che è la nostra vita.
Che è un altro modo di dire, imparare ad amare. Noi stessi, e quindi gli altri.
Il resto, sono chiacchiere che alla fine stancano.
Ce ne han dette tante, o Regina degli apostoli, Abbiamo perso il gusto per i discorsi Non abbiamo più altari se non i vostri Non sappiamo nient’altro che una preghiera semplice.
Preghiamo dunque che ci venga donato, ogni giorno, il coraggio di vivere, di amare.
Di vivere davvero. Di amare, davvero. Di cosa altro dovremmo mai occuparci?
Ma tu te li ricordi i nostri sogni / al tempo dei pensieri illuminaticosì canta Fossati e questo mi ritorna in testa adesso, che riprendo questo post, abbozzato tanto tempo fa e rimasto – chissà – in cerca di una soluzione, di una conclusione.
Sarà che uno tenta di ritornare a quello, al tempo dei pensieri illuminati, e tutte le gratificazioni al mondo che arrivano e continuano magari ad arrivare, non riempiono il cuore come faceva uno sguardo, un solo sguardo, in quegli anni… che tanti pensieri e tanta saggezza non serve a niente non scalda nemmeno come un cerino, finché rimangono solo parole non servono a nulla anzi… mai più saggezza mai più…
Sarà che uno vorrebbe a volte prendere tutto e via, scappare lontano diecimila miglia e tornare a vedere… vedere le spiagge i panorami i tramonti sentire l’odore di cibi esotici vedere le ragazze che ridono farsi sommergere dalle promesse dei loro sguardi dolci, ingenui e maliziosi e correre correre correre e non sapere cosa si potrà fare domani, non saperne proprio nulla, sapere appena che domani sarà una cosa nuova, una giornata diversa e nuova (molto diversa e molto nuova) e avremo ancora sorrisi e avremo ancora abbracci e corse e risate e gente che si stupisce con me, per me… gente che – per dire – può avere voglia di sorridere e amare, vestirsi e spogliarsi, senza stare a dosare e a sgocciolare assensi con parsimonia e inossidabile buon senso…
ma tu te li ricordi i nostri anni.. I tempi delle stelle in fondo agli occhi
E’ indubitabile. Ci sono momenti, periodi, che più facilmente si avvertono come magici. Periodi che sono un invito, un invito a venire a vedere, a coinvolgersi.
Perché poi alle volte si rischia di scambiare questo con il tutto.
Non le bollette, le cose da pagare e le incombenze che ci sono e chissà se oggi magari piove e non i problemi scolastici dei ragazzi e non più le parole oggi sono stanca voglio dormire… e a volte (perché poi, non lo sai nemmeno) non trovi nessuno che ti sorrida più con le stelle in fondo agli occhi, non lo trovi o ti pare di no (forse appena non lo vedi, non lo vuoi vedere), hanno tutti molto altro da fare (ti sembra), molto altro da fare che occuparsi di te e della tua ricerca di stelline negli occhi (ti pare), e una lei che ti guarda normalmente magari ti ricorda di portare la roba in cantina ma lei è anche e soprattutto una bravissima persona e dunque forse è tutto normale, è la normalità, forse sei tu che stai scansando il reale con la tua ansia delle stelline e in qualche modo sei tu, non sono gli altri, in qualche modo sei sempre tu, eppure…
Cosa rimane, cosa rimane? Abbiamo il coraggio di chiedercelo? Cosa rimane adesso delle stelle nel fondo degli occhi? Dei tuoi occhi meravigliosamente intarsiati, amica mia, che ammiravo standoti vicina in metropolitana, dei tuoi maglioni larghi, delle tue esitazioni e della nostra scoperta del vivere nella carne e dei modi tutti nuovi e inesplorati per stare in comunione, in luminosa comunicazione? Cosa rimane se la sabbiolina dorata sembra scivolata tutta tra le mani e se le apri non la trovi più, la cerchi sugli altri e non la trovi più… cosa rimane ancora?
Cosa rimane, se a questo punto non allargo lo sguardo, cerco un senso più ampio che – cadendo dentro tutto questo, smascherando anche la parzialità fallace delle mie percezioni – lo invera e allo stesso tempo lo ricompatta in una orbita di senso, in una orbita che abbia senso pieno anche adesso? Cosa rimane se rinuncio a pormi io stesso, prima di tutto, in un orbita di guarigione, se non imparo sempre e di nuovo a guarire?
E’ una decisione fondamentale, è uno spartiacque sempre drammatico. Perché se questo non avviene, se non lo lascio avvenire, ebbene ha ragione (ancora una volta) Fossati, in quella meravigliosa canzone, in quel profondissimo quadretto che è D’amore non parliamo più,
Con la bellezza non discuto / la bellezza se ne va
Ed è una frase che ti rimane dentro e chiama un senso profondo, una riscoperta di senso globale, perché altrimenti rimane appena il dolore, quel dolore purissimo per la scomparsa apparente della cose. Lo dice un altro grande, lo dice il Boss, nella sua Atlantic City
… everything dies, baby, that’s a fact …
Perché allora uno si deve appena rassegnare alla progressiva scomparsa delle cose, all’indebolirsi del senso totale. Ma la rassegnazione è amara, è devastante. E forse, tutto sommato, non è inevitabile. Forse no. It’s a fact dice il Boss e non sembra lasciare margine alle interpretazioni. Del resto lo vediamo anche noi, è sotto gli occhi di tutti: La bellezza se ne va. Così Natale dovrebbe avere qualcosa da dire su tutto questo, qualcosa da dire in tutto questo, dentro tutto questo. O naturalmente dentro drammi peggiori, drammi veri. Perché il rischio è che se Natale non ha niente da dire e non incide su questo rimane confinato in una melassa retorica buonista (oggi si direbbe così) che fa soltanto molto male allo stomaco.
E’ anche chiaro cosa non vogliamo. Non qualcosa di strategico, non l’ennesima nostra strategia. Nessun manuale di self help potrà veramente servirci. Ci vuole qualcosa di esterno che ci venga a trovare, ci venga a visitare, per rinegoziare il rapporto con il mondo e ritornare ad una freschezza originaria, alla freschezza di un inizio, di un nuovo inizio. Qualcosa che è fuori di noi e che si propone al fondo di noi; ma è fuori di noi, dice Luigi Giussani, uno che comunque dell’uomo e del suo desiderio profondo, se ne intendeva parecchio.
Basterebbe un semino luminoso, che alla fine possa contrastare credibilmente questo everything dies di Bruce, innestato così profondamente nei nostri cuori. Un semino ancora più profondo, che dice che tutto muore, apparentemente, ma la morte non è l’ultima parola. Cioè, a noi sembra che tutto muore, solo perché non abbiamo sotto gli occhi il quadro completo.
Ripartire allora. Ripartire sempre e di nuovo, dalle profondità abissali di questa notte, di questa vigilia. Accogliendola, accogliendomi e accogliendoti, amica. In fondo, come avverte Marco Guzzi, non dobbiamo avere paura, in fondo è nella notte che nasce il nuovo.
E’ anche una scommessa, ma non solo: è la premessa di una vita veramente vissuta. Non è vissuta davvero fino in fondo quella vita trascorsa ai margini della disperazione del tutto muore. Affatto. Se tutto viene conservato, se non muore davvero, ecco che allora io sono libero di vivere profondamente, di fare tutti gli sbagli che voglio fare e che debbo fare (come diceva in maniera innegabilmente evocativa Luca Carboni, potremmo essere felici fare un mucchio di peccati), ed intanto – come valore aggiunto di grande spessore – essere sicuro, tranquillamente sicuro che il bordo, quel bordo degli occhi, quel tuo bellissimo bordo degli occhi, non lotta più con la disperazione, ma accoglie la quieta consapevolezza di un viaggio che ha una sua Destinazione Buona – così sconvenientemente buona da infastidire tutti i benpensanti, costantemente impegnati a limare e limitare il loro desiderio d’infinito.
Quel bordo ridente dei tuoi occhi, amica mia: che così diventano ancora più lieti, ancora più belli.
Natale, alla fine, non sono tanti discorsi; è una questione di sguardo, una purissima e decisiva questione di sguardo. Di un volto, di un sorriso, del bordo degli occhi, del bordo ridente dei tuoi occhi, amica: di nuovo, ridente. E’ una questione di danza il Natale, alla fine. Di quella danza segreta e primitiva che ti impregna il cuore e i muscoli, amica mia, ti fa scorrere linfa nuova nel tuo sangue selvaggio, ti incatena, finalmente ti incatena al tempo che vivi e ti riscatta, ti riscalda continuamente. Auguri.
Ecco, mi è venuto in mente di scrivere, di scrivere qualcosa per ogni libro (più o meno) che finisco. Mi è venuto in mente per fermare qualche impressione, sensazione, della mia lettura. E’ lacerante, a volte, di fronte a certi libri, perché tutto quel che si può dire non si esaurisce certo in un post. A volte, come per quello di cui mi sto per occupare, credo che quello che si può dire non si esaurisce affatto. Dunque non è una descrizione del libro quanto la descrizione (anche questa, gravemente incompleta) di una specifica interazione con esso, che poi sarebbe la mia specifica lettura. Mi servirà per ricollegarmi alle impressioni che ho avuto in chiusura del testo. E forse, chissà, potrà anche servire a qualcun’altro.
Bene, stamattina ho finito I promessi sposi. E’ un libro, un’opera, per le quale mi sentirei di spendere la parola capolavoro. E la lettura è stata una sorpresa. Ho capito come nella lettura scolastica, molto molto tempo fa, non avevo realmente compreso nulla di veramente importante. Non mi era arrivata la bellezza del testo, quasi per nulla. Ma è un testo bello, bellissimo. Mi arriva questa volta, dopo decenni dalla prima (forzata) frequentazione. Veramente nei classici ci si può dimorare, si può tornare e tornare molte volte. E se sono classici di solito un motivo c’è. Chiuso il testo rimane forte una sensazione di gratitudine per quello che si è vissuto.
Non tanto per la vicenda, ma per come è raccontata. Come per tutta la grande letteratura, del resto. La vicenda è un pretesto (ed è tanto nota che sarebbe anche ridicolo volerla riassumere). Quello che conta, quello che rimane, è la prosa, il tono, le considerazioni dell’autore e più di tutto i rapporti tra le parole, la tensione che si crea per i loro accostamenti, per come sono usate.
Le parole veramente sono mattoncini che creano un mondo.
Quello del Manzoni è un mondo che ti rimane addosso come uno strato di protezione buona, di ragionevolezza pacata e disincantata, in fondo, di positività ultima del reale. Una positività che non censura niente, non nasconde niente (i capitoli sulla peste sono di un realismo e di una poesia, insieme, difficilmente imitabili). E per questo, proprio per questo, diventa credibile. Come lo scarto del Manzoni, veramente geniale, da un classico lieto fine, pur nell’approdo sostanzialmente positivo della vicenda di Renzo e Lucia. C’è. rimane, quella tensione del già e non ancora, caratteristica dell’ipotesi cristiana sulla vita, sul mondo.
Ipotesi cristiana, o meglio pretesa cristianaper dirla con Giussani. Non è questo infatti un libro che si possa facilmente separare dalla fede, a mio avviso Non si può, senza inaridirlo, senza impoverirlo, disseccarlo alla radice, renderlo arido, renderlo – stavolta sì – noioso. Perché la radice è indubbiamente cristiana: è in fondo un inno alla ragionevolezza della ipotesi cristiana, dall’inizio alla fine. In questo riposa, mi pare, il vero motivo della dedizione del Manzoni verso questo racconto.
Il che non vuol dire che sia necessario sentirsi cristiani per leggerlo, affatto. Ma è forse richiesto, per fruirlo fino in fondo, gustarne la bellezza, un atteggiamento appena simpatetico, appena di apertura, verso questa ipotesi, questa possibilità sempre aperta di visione dell’uomo e del mondo. Allora si avverte la bellezza profonda del testo. Aprendosi appena a questa possibilità, qualsiasi sia il proprio tragitto di vita, o le cose che crediamo di credere.
Testo che – possiamo dirlo – è una bomba. Che diverte, istruisce, commuove, rallegra, intriga. Qua e là magari annoia, certo non ha i ritmi dei romanzi moderni. Ci vuole in altre parole una certa determinazione, bisogna mettere in conto, qui e là, una pur minima fatica. Che però, ed è questa la mia esperienza, viene ripagata abbondantemente, viene ripagata oltre le aspettative.
E si scoprono delle cose interessanti, anche stilisticamente. Delle cose piuttosto moderne, a dire il vero. Solo un accenno: ho notato con stupore che nelle fasi più concitate, Manzoni passa in modo molto disinvolto dalla narrazione nel passato all’uso dei verbi al tempo presente. Per poi tornare al passato, con la massima naturalezza. E’ come se ti immergesse nel momento, di colpo, rendendolo contemporaneo, e poi ti riportasse, quando è opportuno, a quella distanza di sicurezza che ti consente anche di riflettere, di ruminare, con la dovuta distanza.
Ma le note stilistiche sarebbero molte, e certo da lasciare a chi è ben più esperto del sottoscritto. Per cui non indugerò oltre, su questo. Tornerei piuttosto alla apertura necessaria per fruire appieno del testo, come si è accennato.
Ecco, chi si sente questa anche minima apertura, godrà moltissimo dell’edizione che ho letto anche io, quella edita dalla BUR con una breve ma densissima premessa, preziosa direi, una conversazione tra il poeta Davide Rondoni e Don Luigi Giussani. Poche pagine, ma luminose ed importanti.
Eppure un’altra cosa che viene a galla pian piano, un’altra semplice bellezza di cui si diventa sempre più grati durante la lettura, è l’apparato di note a cura di Laura Cioni e Silvia Fornasari. Non solo rivelano una comprensione “amorosa” del testo, una condivisione appassionata della coordinate di fondo, ma più volte vi si ritrovano delle vere gemme davanti alle quali io personalmente mi sono dovuto fermare, a riflettere. Non faticherei a definirle un vero valore aggiunto a questa opera immortale. Insomma, se il libro è un inno alla ragionevolezza del traversare la vita con l’ipotesi cristiana, le note rafforzano ed impreziosiscono questo inno, donando nuovi spunti preziosi alla ruminazione personale.
E alla fine, un altro motivo di gratitudine che rimane, dopo la lettura di queste pagine. Un testo “antico” che feconda questo apparato di note, è un testo tutt’altro che morto: un testo vivissimo, che opera nel presente e aiuta a comprendere il presente.
Decisamente una interessante opportunità quella di percorrere l’intervista rilasciata per la rivista Tracce dal fisico Juan Joes Cadenas, nel suo numero di giugno. Interessante perché ci permette di allargare lo sguardo, e riflettere su come si fa scienza oggi e soprattutto su quale sia la portata culturale dell’avventura scientifica nel mondo moderno.
L’intervista prende lo spunto dal dialogo intorno ad un libro di J. Carron, La bellezza disarmata, ma – vorrei dire – si svincola volentieri dal pericolo di una disamina troppo puntuale di uno specifico testo (sia pur decisamente interessante) per spaziare a largo raggio su una serie di tematiche veramente nutrienti per un consapevole e scaltrito rapporto tra la scienza e la cultura. Come tali, direi, di interesse assolutamente generale.
Rintraccerei proprio nel fatto che il dialogo avvenga con un fisico dichiaratamente agnostico, prendendo però spunto da un testo di un sacerdote, l’evidenza che questo scambio dialettico risulti particolarmente profondo e senza preclusioni di sorta. Difatti – l’abbiamo visto spesso – laddove la diversità è rispettata ed accolta, si genera sempre un valore particolare, un valore aggiunto che è come pietra preziosa, nella nostra sacrosanta tensione a comprendere il mondo e noi stessi.