Blog di Marco Castellani

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Musica e rivoluzione

Cosa vuol dire rivoluzione? Cosa ha voluto dire per noi, in Italia, negli ultimi decenni del secolo scorso? Cosa vuol dire adesso? E soprattutto, innanzitutto: vuol dire ancora qualcosa?
 
E’ un modo di dire che evoca nostalgia, o risentimento, o comunque rimanda alla memoria di un tempo che fu, di speranze che furono, e che adesso comunque non sono più? In altri termini, rivoluzione vuol dire nostalgia, alla fin fine?
 
Oppure c’è dell’altro?
 
 
Leggo dalla quarta di copertina del libro di Marco Guzzi, Fede e Rivoluzione, una frase di Papa Francesco,

 

Un cristiano, se non è rivoluzionario, in questo tempo, non è cristiano!

Ora, lungi da me spiegare le frasi del papa, ovviamente. Dico solo, registro, quante suggestioni mi evoca questa frase. L’apparente incidentale in questo tempo — ecco— è soprattutto quella, che mi scombussola. Detto in maniera spiccia: il massimo rappresentante in terra della fede cattolica (una delle prospettive spirituali più seguite, comunque la si voglia pensare), mi avverte non solo che la rivoluzione mi compete in quanto cristiano, ma anche che mi compete ora. E mi compete così tanto, che se disattendo questa chiamata, la mia fede stessa è in qualche modo snaturata — non sarei davvero cristiano.

Mi interessa questo. Mi interessa capire perché.


E mi interessa soprattutto che cosa è e che può essere questa rivoluzione che proprio ora, proprio quando è stata ormai abbandonata dal mondo politico e sociale (perdonate la semplicità grossolana del ragionamento, ma si fa per capirci), diventa interessante e anzi quasi obbligatoria per me cristiano.

Fate caso. Non si parla quasi più di rivoluzione, non è tanto più di moda — fa effettivamente molto nostalgico, molto vecchia guardia. Si parla di riformismo, federalismo, costituzionalismo, e ogni altro ismo che volete, ma non di rivoluzione.

Allora vado a pescare nei miei ricordi di infanzia e adolescenza. Sì, quando ancora la rivoluzione era parlata, discussa, bramata, temuta, agognata, urlata. Una rivoluzione politica, certo, ma spesso così ardentemente sperata, da assumere connotati limpidamente extra-politici: di liberazione totale dell’essere umano da ogni schiavitù, non solo economica.
 
Ripercorro questi ricordi aiutandomi con le canzoni.
 
Già. Una canzone, più o meno riuscita, è una spugna, raccoglie gli umori che circolano — li prende dall’aria, nel momento della sua scrittura— li cristallizza, li richiude nell’ambra delle sue note, e ce li può riproporre, come una istantanea sonora di un dato momento storico. Spesso, se è ben fatta, di umori ne raccoglie parecchi.
 
Vediamo un po’. L’idea che il mondo stia cambiando in maniera radicale, che vi sia una energia nuova nel fare ogni cosa, è benissimo descritta — tra i molti— nel brano di Eugenio Finardi Musica Ribelle (1976). Brano che qui vi propongo nella eccellente rivisitazione con Ivano Fossati
 

Una rivoluzione come risposta ad un disagio esistenziale, come risposta compatta, credibile.

Anna ha 18 anni e si sente tanto sola
ha la faccia triste e non dice una parola
tanto è sicura che nessuno capirebbe
e anche se capisse di certo la tradirebbe…

Ma da qualche tempo è difficile scappare,
c’è qualcosa nell’aria che non si può ignorare
è dolce, ma forte e non ti molla mai
è un’onda che cresce e ti segue ovunque vai…
E` la musica, la musica ribelle

Ed è come l’apice di una parabola assai stretta, assai veloce tanto nel salire quanto nel tornare giù. Esaltante e al contempo velocissimamente smentita dai fatti — slabbrata, smembrata e inaridita dal corso stesso del reale (i fatti sono testardi, come si dice). Una utopia subito illuminata da una luce fredda, dalla constatazione amara ed un po’ stordita di un fallimento. Così lo stesso Finardi arriva molto presto a Zerbo, di tono completamente dissimile.
 
Sì, siamo nel 1979, appena tra anni dopo.

Che cosa è accaduto? Che la parabola si è compiuta, quello che sembrava un progetto realizzabile si mostra in tutta la sua struttura di mito. E come dice la canzone…
Il mito era crollato / perso nei calci ad un pollo surgelato…
Così l’idea di rivoluzione, intesa in una orbita completamente razionale e politica, mostra una drammatica ed irredimibile inattualità.
 
E nel raffreddarsi del mito, anche ci ci ha creduto si ritrova quasi ad impersonare una parte, in cui una parte di lui non crede più.

… divento soltanto
un uomo navigato;
a dritta nostromo
il sogno è già passato.

Il tempo ha mostrato anche quali fossero i veri limiti di questa tentata rivoluzione. La riflessione pacata delle persone più attente aiuta a definirne i veri contorni, svaporati da quella utopia che intossica e inquina il giudizio.
 
Dalle parole di Aldo Brandirali, fondatore di “Servire il popolo” (persona dunque che con il concetto di rivoluzione ha qualcosa a che fare…) c’è una chiara consapevolezza di questo che stiamo dicendo:
Noi subivamo certamente l’attrattiva fortissima delle grandi ideologie e delle grandi e nuove tematiche mondiali. Sperimentavamo perciò una continua propensione a vivere all’interno di un noi, ma con un difetto fondamentale: non avevamo la capacità di dire io, non pensavamo alle nostre esigenze in quanto singole persone. In atto c’era una fortissima e inconsapevole massificazione. I giovani di oggi invece affermano prima di tutto il proprio ‘io’, e questo è un gran vantaggio sotto un certo punto di vista, ma non sanno cosa significhi giudicare le proprie esperienze. Quindi è come se conducessero una sorta di lotta con il niente. Quello attuale è, a tutti gli effetti, un ribaltamento esatto della nostra situazione di allora. Noi avevamo un ‘troppo pieno’ che ci soffocava, i ragazzi di oggi hanno invece un ‘troppo vuoto’ che non li fa crescere.
C’è qualcosa che non si è compiuto, dunque. O meglio, non si è riuscito a compiere nella forma che sembrava dovesse assumere. E’ una sorta di morte, in un certo senso. Da una certa prospettiva.

Stupisce che già nel 1975, peraltro, certi sintomi di problematicità ci fossero già tutti. In realtà già tutto era compiuto, come è evidente in questo bellissimo brano di Juri Camisasca, qui cantato insieme con Franco Battiato.
 
Il brano di Camisasca, invero, ha un respiro ben più largo, e affonda la sua ragion d’essere in un sogno utopico di cambiamento che va al di là dell’espressione politica come l’ha assunta in Italia, ma si riferisce più marcatamente al fenomeno di liberazione che era strettamente connesso all’espressione musicale, ai grandi concerti.
 
Era quel finire degli ’60 che lo aveva portato alla sua massima espressione, al punto di sfolgorio davvero abbagliante. Il nome Woodstock viene come inevitabile, insieme alla bellissima canzone di Joni Mitchell, cantata da Crosby Still e Nash & Young. Siamo nell’anno 1970.
 

Vedete. Ancora il sogno è intatto, è quasi sfavillante nella meravigliosa utopia…

By the time we got to Woodstock
We were half a million strong
And everywhere was a song and a celebration
And I dreamed I saw the bomber death planes
Riding shotgun in the sky,
Turning into butterflies
Above our nation…

Nel 1970 si può sognare che i bomber death planes, quei giganteschi bombardieri portatori di morte, si possano trasformare in farfalle. Si può ancora fare.
 
Rientrando nel nostro territorio, e ritornando al 1975, anche Edoardo Bennato riesce a fotografare bene questo senso di disillusione che permea l’espressione collettiva, come un qualcosa portato avanti senza più convinzione. E’ dello stesso anno quel Feste di piazza che rivela lucidamente l’inaridirsi di un sogno, consumato dalla sua stessa sempre più plateale irrealizzabilità.

Non stupisca l’andamento temporale apparentemente contraddittorio, rispetto al primo brano di Finardi. C’è infatti un magma, che rende gli anno ’70 così anche difficili da descrivere, in cui convivono — con un certo attrito — sia ancora gli impulsi progressivi che i sintomi di una caduta e di uno scoramento, che si sarebbero poi consolidati negli anni seguenti.
 
Certo il discorso potrebbe continuare avanti per molto, con altri innumerevoli esempi musicali. Non mi interessa però tanto essere esaustivo (ci vorrebbe un intero libro, o più di uno), ma tracciare appena un percorso. Uno dei possibili, moltissimi percorsi. Quello che mi è venuto alla memoria, ripensando ad alcuni brani conosciuti, appunto.
 
Facciamo un salto in avanti, arriviamo alla fine del 1983. Già da questo punto di osservazione si può vedere il decennio passato, sotto un angolo che consente quella visione globale, che sempre viene a mancare nella descrizione del presente. E’ sempre Franco Battiato a regalarci una gemma come il brano Un’altra vita, dentro l’album Orizzonti perduti.

E si arriva sempre più vicino al punto, al punto nevralgico di tutto.

Sulle strade al mattino
il troppo traffico mi sfianca;
mi innervosiscono i semafori e gli stop,
e la sera ritorno con malesseri speciali.
Non servono tranquillanti o terapie
ci vuole un’altra vita.

e la sera ritorno
con la noia e la stanchezza.
Non servono più eccitanti o ideologie
ci vuole un’altra vita

Stupisce la lucidità di questo testo, che in poche parole racchiude la sapienza di infiniti testi e di tantissime analisi sociologiche. L’uomo di oggi si frammenta tra tranquillanti o terapie, eccitanti o ideologie, dove manca un aggancio con qualcosa d’altro, con una rivoluzione sotterranea perenne. Che non è quella dei figli dei fiori, né quella dei collettivi o del proletariato giovanile.
 
Dunque? Ci fermiamo sulle ultime parole delle canzone: ci vuole un’altra vita.
 
Semplice così. E difficilissimo. Siamo alla fine del post ma abbiamo appena lambito un territorio vastissimo.
 
Perché allora — dismesse le speranze di una rivoluzione esterna che avrebbe accordato il mondo con la disposizione interna del cuore, ci si accorge che il movimento è, magari, l’esatto contrario. Che probabilmente ci vuole anche una rivoluzione interna, un’altra vita, per guardare il mondo in modo diverso e probabilmente, per potervi incidere davvero.
 
Forse tutto quanto è accaduto ha un senso. Non ci credo alle vie sempre dritte — credo che a volte gli errori sono necessari per imparare davvero qualcosa. Spesso sono necessari.
 
Forse dovevamo provare tutte le possibili rivoluzioni, per capire veramente qual è quella da perseguire. Cos’è questo essere rivoluzionari in un tempo come quello che stiamo vivendo, se non riconnettersi a livello profondo con la propria interiorità, sovente così trascurata. Ciò che c’è dentro è più importante di quel che si vede fuori. Ciò che c’è dentro, modula la modalità stessa di percezione del reale.
 
Le tradizioni più profonde lo sanno da millenni. I loro rappresentanti ce lo ricordano in maniera instancabile.
La rivoluzione dunque parte dall’interno, dal cuore. Il moto è verso l’esterno, e non verso l’interno, come propongono le rivoluzioni esteriori.

Il Principio Attivo, se possiamo dire così, è dal cuore che parte, che inizia.

Dunque, non è sbagliato tentare di cambiare il mondo. Anzi è una esigenza insopprimibile del cuore umano. Rinunciarci vuol dire ammalarsi, di quella tristezza globale che a volte sembra pervadere tutto e tutti.
 
Non bisogna rinunciarci, no. Se un modo era sbagliato, o magari incompleto, non era il fine ad essere sbagliato, o inesistente.
 
E allora, forse forse, la mestizia da rivoluzione mancata, il disorientamento, è comprensibile, ma non inevitabile. Se ne può uscire.
 
Era in fondo, appena un passaggio.
 
 Era questo, azzardo. Era che dovevamo collimare i fasci, arrivare ad un diverso assetto, ad una coscienza più compiuta-— comprendere che c’è da fare un cammino personale e cosmico insieme. Che adesso possiamo essere ben più ambiziosi di quanto eravamo negli anni ’60 e ’70— possiamo operare nel creare una rivoluzione reale che si connetta ad un Principio Attivo Perenne, che è nella storia e la trascende allo stesso tempo.
 
E che in questo tempo, proprio adesso, si può essere — davvero e compiutamente — rivoluzionari.

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Una storia particolare

Ragioniamo troppo, ragioniamo troppo. O almeno, io ragiono troppo. Sono sempre lì a pensare che i miei problemi possano avere una soluzione mentale, possano essere dipanati in una analisi minuziosa che scenda implacabile su ogni particolare, su ogni snodo, fino a dipanare la matassa.
In certi casi, grazie al cielo, mi accorgo che non funziona così. Che le coordinate operative di questo universo sono altre. Mi accorgo che la soluzione dei problemi non è mentale, ma è esperienziale per lo più. O se vogliamo, è iniziatica. Proprio nel senso che i problemi si snodano dentro un percorso.

Ogni storia diventa leggibile dentro una sola Storia…  
Questa è un po’ la sfida, per la nostra mentalità moderna. Tendiamo a pensare di poter far nostro intellettualmente quel che vogliamo, evitandoci una esperienza, se possibile. Diciamo fammi capire per far nostra l’idea, magari evitando la verifica esperienziale.
Eppure non è mai stato così, non è mai avvenuto così. Siamo qui per scoprire i perché attraverso le esperienze, non attraverso le pagine di wikipedia. Siamo cioè chiamati ad essere di nuovo protagonisti.
Il mondo moderno sembra davvero cospirare affinché noi ci si possa cullare nell’idea di traversare il mondo da spettatori, attraversarlo come in punta di piedi, senza sporcarsi le mani, magari. Stando da questa parte del teleschermo, mentre le cose accadono dall’altra. Una polarità semplicistica, che ora mostra tutto il suo limite, in maniera impietosa.
Abbracciare la vita, ricercarne appassionatamente un significato, è ipso facto rivendicare un ruolo da protagonista. Non c’è scampo, non c’è guittezza. E’ un po’ quello che efficacemente riassume la celebre frase di San Giovanni Crisostomo,

l’uomo che prega ha le mani sul timone della storia.

Seguendo una storia, una storia particolare, nella tentata fedeltà ad una trama di incontri, siamo finalmente liberi dal dualismo attivo-passivo, perché il seguire è un atto apparentemente passivo che in realtà ribalta il gioco, e si trasforma in un atto che ci radica alla terra e ci permette di agire in essa, e non solo di formulare concetti ed intrattenerci dialetticamente in essi.
E non è nemmeno solo questo, anche se questo è già tantissimo.
E’ infatti prima di tutto una questione conoscitiva. Diceva una famosa canzone, di qualche anno fa, che

da che punto guardi il mondo, tutto dipende

C’è un infatti un mito moderno del quale ho iniziato a sospettare, del quale ormai non mi fido più. L’ho esplorato, mi ha stancato, mi ha deluso. E’ semplicemente falso.

E’ falso che si possa davvero conoscere il mondo svincolandosi da una appartenenza, da una adesione.
E’ proprio l’opposto. Senza una storia particolare, senza una appartenenza, non si capisce il mondo. Serve un’ipotesi da gettare al di fuori, una ipotesi di ordinamento, di intimo coordinamento, perché il flusso di informazioni che ci raggiunte e ci sollecita continuamente, si componga in un insieme di senso. Altrimenti non si comprendono le stelle, la natura, l’amore, gli affetti, i difetti.
Ovvero. Il mondo non è uno scenario oggettivo separabile da chi lo osserva.
Non è un insieme di dati da registrare e comporre, per ottenere il senso. Anzi così si ottiene solo un mondo senza senso, più pungente quanto più il dato vuol essere preciso, completo, scientifico. Del resto, non è difficile leggere un senso di disperazione radicale dietro l’imponente flusso informativo tipico del mondo moderno.
Perché tutto questo? In altre parole, che me ne faccio di questo grado di dettaglio così esasperato, di questa analiticità estrema, se il mio occhio non comprende più quello che sta guardando? Se ha perso di vista la struttura di senso che tiene tutto collegato?
Il senso del mondo riverbera dal senso più profondo che abbiamo in noi stessi. E questo dipende totalmente da quel principio di ordine ed intellegibilità al quale ci affidiamo.
Affidiamo, sì. Perché questo è il punto cardine, il tratto fondamentale. Anche, lo spartiacque intorno al quale si dividono gli animi, si rivelano le posizioni del cuore.
Perché alla radice di tutto, della possibilità di intellegibilità del mondo, c’è inequivocabilmente un affidarsi, un atto di fede. C’è qualcosa che non può essere matematicamente dimostrato, che richiede una adesione per fiducia ovvero secondo parametri non quantitativi, ma derivati da un insieme di esperienze e di valutazioni, di aperture, di squarci e di suggestioni. Un punto di snodo, una elastica salutare sospensione dal ragionamento dialettico.
Snodo che deriva in ultima analisi da quella misteriosa trama di corrispondenze che si istaura tra il proprio cuore e il reale, il mondo fisico. Ovvero, da una esperienza, da una storia particolare e personale.
Scrive Marco Guzzi in Fede e Rivoluzione, che

… ogni ricerca della verità, tenetelo bene in mente, anche quella più scientifica, presuppone sempre un atto, più o meno consapevole, di affidamento a convinzioni indimostrate, a parole già dette e ricevute, ascoltate e credute, e quindi un atto, appunto, di fede

La percezione della realtà deriva da questo atto di fede, si sia un cattolico, un rivoluzionario boliviano o un monaco buddista.
Da questa storia, dunque. Da quello che un bel giorno abbiamo percepito come la verità. A cui tornare e ritornare, ogni volta come fosse la prima.

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Adesso (e sempre)

Tutto deve avvenire ora, nel presente. Siamo tutti molto stanchi. Siamo molto stanchi di promesse e speranze buttate in avanti, quasi dette pro forma (anche nelle chiese), come un ennesimo gioco al quale non crediamo.
Tutto deve avvenire adesso. Basta in realtà un semino di resurrezione dai miei guai, dai miei crucci, dai miei problemi. Basta un accenno di speranza che mi dice tu ne vieni fuori. Piccolissimo, per carità. Ma deve essere dato ora.
Non abbiamo voglia, non abbiamo più voglia di aspettare, di prenderci in giro.
Scrive Marco Guzzi oggi su Facebook, che

la risurrezione accade
ora, oppure
per me non è mai accaduta.

Ci sto. Se oggi ho un motivo di uscire dalle mie recriminazioni circolari, ho cioè un inizio, una (ri)presa di percorso che mi conduca fuori dal circolo vizioso di mormorazioni, che occupa tante volte il teatro della mente, allora posso rilassarmi.
Sarà lungo quanto volete, sarà il lavoro di una vita, ma posso rilassarmi ora.
Altrimenti la tentazione è di ricadere nella tremenda frase di Kafka, Esiste un punto d’arrivo, ma nessuna via, dentro la quale spesso inconsapevolmente ci muoviamo.
No, non ci sto: esiste una via.
Esiste un cammino per ritornare amici del nostro cuore, e possiamo ricomprenderlo proprio oggi, perché nuova speranza venga a versarsi nel nostro animo, agganciandoci così a quel moto di resurrezione che è una delle dinamiche potenti (anche se nascoste, luminosa sottotraccia quotidiana) della storia, è una possibilità permanente che possiamo prendere e lasciare mille volte (non conta quanto). Oggi voglio agganciarmi a questa resurrezione, contro le mille, diecimila morti che rimangono da sanare nel mio cuore.
Ma no, non contro. Oltre, al di là.
C’è un cammino per “darsi pace”— ce ne sono mille.
La tristezza viene quando rinunciamo. L’allegria, quella allegria misteriosa e tenace, viene quando diciamo “ok, non rinuncio a questo cammino, lungo o corto, sia come sia. Io ci sto”
L’allegria è starci ad una proposta, appena. Questo segna — immediatamente e irresistibilmente — uno strappo nel tessuto dello spazio tempo, spesso così’ opaco. E di colpo si vedono, si vedono le stelle.
Il resto sono chiacchiere circolari. Buone per quest’anno e per i prossimi. Si possono fare abilmente anche continuando a nutrire quello strato oleoso di cinismo spicciolo, dentro il quale siamo abitualmente impastati.
Starci invece è rimettere in moto gli ingranaggi, riprendere a far girare la storia. Quella piccola e quella grande (non c’è differenza).
E’ un miracolo: una decisione intima, quasi microscopica, che ribalta il (mio) mondo come un guanto, collega il cuore con i quasar più lontani, cortocircuita gli spazi dei pensieri aridi.
Gli scrupoli morali sono per chi ha tempo e voglia di tormentarsi (e ne so qualcosa). Non si parla di questo, qui.

Quello che ci dici oggi, o Signore, è l’ultima parola che hai detto nel vangelo di san Giovanni: «Simone, mi ami tu?». Non hai detto: «Non peccare, non tradire, non essere incoerente». Non hai toccato nulla di questo. Hai detto: «Simone, mi ami tu?». Questa è la voce che echeggia dalla capanna di Betlemme: «Mi ami tu?». (Luigi Giussani)

L’Amore è un punto, è ovunque. La libertà di riconoscerLo, di amarLo, rimette in moto l’universo.
Adesso, e sempre.

Auguri di buona Pasqua e di buona resurrezione!

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L’umiltà del credere e del seguire

Leggo dal testo Yoga e preghiera cristiana, di Marco Guzzi, una frase che squarcia il velo su tanti malintesi, in materia di fede e spiritualità. Essenziale come non mai, oggi (ok, almeno per me).

E’ invece solo attraverso la seria ed umilissima adesione ad un cammino storico concreto che io potrò poi vivere anche la grandissima transizione antropologica che stiamo sopportando, e le trans-figurazioni misurate e corrette delle stesse tradizioni religiose che essa richieda. Ma non illudendomi di poter scavalcare in toto il punto più difficile e dolorosa della nostra trans-figurazione, e cioè appunto l’umiltà an-egoica del credere e del seguire.

Diceva un bel canto di Claudio Chieffo, che “è bella la strada per chi cammina”. Quel cammina che sintetizza mirabilmente, a mio avviso, proprio la frase che ho estrapolato dal testo di Guzzi.
Ecco, l’umiltà anegoica del credere e del seguire. Proprio quella, vorrei riscoprire. Sono così perso così spesso nel dar fiducia ai miei ragionamenti circolari, che mi dimentico di questa fondamentale verità (assolutamente condivisa da tutte le tradizioni spirituali). Di queste due paroline che liberano dalla schiavitù del proprio pensiero, dello sforzo eroico di tenere in piedi il mondo, dandogli senso.
Marco, rilassati. Non devi dare senso al mondo, devi appena riceverne il senso. Non è uno sforzo progettuale e concettuale che ti è richiesto, ma un atto di cedimento, piuttosto.
Lasciare il comando, fidarsi. Difficilissimo, siamo d’accordo. Eppure, concettualmente, di una semplicità dell’altro mondo, proprio.

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Quella dolce purezza del sì

Francisco de Zurbaràn, L’Immacolata Concezione- particolare. Guadalaiara,
Museo Diocesano di Siguenza

Attendere. Essere in attesa, paziente. Rinunciare.

Rinunciare a seguire il filo implacabile del pensiero,
del progetto, la catena irredimibile del fare.
Essere nuovi, essere rivoluzionari, essere.

Essere nuovi ed antichissimi, essere autenticamente originali.
Essere propriamente sé stessi, essere.

Essere in relazione, schiantare l’autosufficienza impaziente.
Don’t carry the world upon your shoulder.

Sfondare il senso di dover dare senso al mondo, con il proprio fare.

Lei non doveva fare nulla, peraltro.
Proprio nulla.

Solo essere d’accordo,
solo non porre ostacoli,
solo non fare valutazioni su sé stessa
o sul mondo,
non doveva nemmeno capire

il disegno, solo questo:
solo dire sì.

Purissima, entra nel mondo senza
alcuna ombra disarticolando
nel profondo gli usati meccanismi,
le note dinamiche,
nella forza preventiva
di questo sì.

La fecondità arriva.
La fecondità arriva quando ti arrendi.
Quando lasci fare, ti rendi morbida
ti lasci fare.

Lei non poteva dare senso al mondo
con il suo fare, soltanto.
Non avrebbe potuto.
Poteva solo accogliere.

Capisci che quando ti arrendi sorge un seme
sorge un seme dentro di te e diventi
feconda, diventi bella in ogni cosa
in ogni cosa
che fai o che non fai.

E’ la sconfitta suprema, il ground zero
della tua mente, final-mente, delle sue architetture
crescenti e ricrescenti come cellule malate
come cellule impazzite.

Ben conosci, del resto, questi
acri di architetture infeconde,
universi desolati e freddi, vastità
gementi.

Vedono, i tuoi occhi dolci,
la sconfitta di ogni ideologia,
affondata nel suo stesso spazio,
implosa nell’assenza di senso,
morta intrisa in sangue e violenza,
quella violenza inesorabile del vuoto.

Allo stesso tempo, imperniata nello stesso istante,
esulta il tuo cuore per  la vittoria radicale del
pensiero poetico e

d’ogni umana arte, come universo pulsante
propriamente carnale,
lietamente espulso dall’orbita
dal pensiero razionale.

Quella perpetua sottesa vittoria
della bambina in te che
vuole solo la mano che guida, l’affetto, un senso
dolcissimo di essere
salvata

mai più saggezza mai più

abitando questa sola
pazza e sconveniente saggezza,

l’estrema saggezza
di accogliere,
acconsentire:

lasciarsi cadere
al di tutto, fuori di te eppure

al tuo vero centro,
grembo accogliente
dell’universo tutto.

Roma, 8 dicembre 2016

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Tu sei un bene per me

Rosa la incontro la mattina del mio secondo giorno, subito dopo la Messa. Sono arrivato sabato pomeriggio, in compagnia di altri amici ciellini (così si apostrofano, anche tra loro, le persone vicine al movimento di Comunione e Liberazione): Daniela, Loredana e Michele. Il mio equipaggio, in poche parole.

Da qualche anno, da quando ho riscoperto con più chiarezza l’attrattiva della sequela nel movimento, cerco di non mancare un passaggio al Meeting di Rimini, almeno per un paio di giorni. Lo sento parte del mio cammino, uno dei punti forti dell’anno, qualcosa che innerva di senso e significato lo stesso procedere.
Quest’anno però ci si era messo proprio tutto, inclusa — in prossimità della partenza — perfino la rottura della macchina in autostrada. Ero quasi certo di dover rinunciare. Invece eccomi, sabato verso le cinque sono ormai quasi alla Fiera, con la fretta di arrivare in tempo per l’incontro introdotto da Marco Bersanelli, quello sulle onde gravitazionali. Quello — mi dico — lo “devo” proprio prendere.
Rosa poi mi avrebbe scritto (o come si dice oggi, messaggiato).

Al Meeting 2016 mi ci ha portato Alice, mia cognata. Lei, che ci va da quando aveva sedici anni, tutti gli anni, ad ogni angolo incontrava qualcuno da salutare. Io la seguivo docile, accettando le mostre o i convegni che mi proponeva, in qualche caso aggregandomi a sue amiche, se la proposta mi convinceva maggiormente e se il gruppo si scindeva.

L’incontro condotto da Bersanelli — che ospita Roberto Battiston, Presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana e Laura Cadonati, Professore Associato presso la Scuola di Fisica del Georgian Institute of Technology, è denso e molto valido, per tutti. Per me è anche un anticipo regalato di questa “altra” idea di scienza, che tentiamo di sviluppare anche dentro il movimento Darsi Pace: una idea di scienza, in poche parole, aperta alle istanze della cultura e della spiritualità. Dunque, un incontro subito e pienamente darsipacista, appena arrivato. È certo un buon inizio.
Ma è così, ormai. L’avrei confidato a Rosa il giorno dopo: ho perfino smesso di contare le concordanze, non distinguo più se un pensiero, una citazione, uno spunto, mi vengono da Comunione e Liberazione oppure da Darsi Pace (molte volte perfino le fonti delle citazioni sono le stesse). Io la vedo così: al di là delle sigle, delle declinazioni organizzative, c’è l’unificazione delle forze. Come insegna la fisica, ad alti livelli di energia tutto è uno, la diversità si ricompone, si integra: è la strada, la strada dove sono stato posto. Io, di mio, non ho deciso proprio nulla, di mio non decido mai niente: l’unica cosa che posso decidere, l’unica cosa che mi è richiesta, è il mio assenso a seguire, a rimanere — e a ritornare — sul cammino.
Ma non dovrei stupirmi. In Darsi Pace faccio questa strada in compagnia di ex anarchici, di suore, di persone della più varia estrazione e storia. Ognuno integra il percorso, con la sua specifica formazione, e per ognuno — mi pare — accade questo miracolo di integrazione.
Una strada che si snoda ormai dall’ottobre di due anni fa, e che mi ha regalato tanto, e soprattutto una grande ricchezza umana, articolata in incontri, sorrisi, incoraggiamenti, intese. Capisci finalmente il conforto di tante persone che camminano insieme con te: attraverso di loro vedi che le tue debolezze non sono obiezione a niente, ma proprio a niente. Una cosa che da solo, probabilmente, non capiresti mai.
Sì, l’avrei detto a Rosa la mattina dopo, tutto si integra. Se la incontro è poi colpa di Facebook (ma in fondo se sono nel percorso Darsi Pace è sempre ed ancora “colpa” di Facebook, per quel post che intercettò il mio interesse, qualche anno fa). È lui che, alquanto impiccione, mi avverte che ho un amico nelle vicinanze. Avverte anche Rosa, ovvio. E così ci mettiamo in contatto.

È stata una gioia per me incontrare due “insorti”, due persone conosciute al Seminario di Trevi: uno, è un Astrofisico e l’altro un Parroco.

D’accordo (a proposito, io sono l’astrofisico, ovviamente). Ci si vede la domenica mattina, subito dopo Messa.

Bellissima la Santa Messa di domenica 21, Spettacolare il flusso ordinato con cui i ciellini si muovono per l’eucarestia.

La sera del sabato, sono allo spettacolo di Paolo Cevoli, “Perché non parli”. Bello, certo un pelino forse richiede attenzione e concentrazione, perché fa tutto da solo. Non hai il conforto di un dialogo, che magari alleggerisce. Ma è bravo, e soprattutto si respira una buona aria. Quella buona aria di misericordia, che si sente un po’ dovunque, qui in Fiera.
E certo, di bella allegria.
L’allegria totalmente non forzata dei volontari al meeting — è questo spettacolo che mi si rinnova ogni volta che vengo, che dissolve gli strati di cinismo che la vita distratta mi mette addosso. D’altra parte, l’allegria non forzata di qualcuno, la letizia anche solo come accenno, è qualcosa con cui comunque fare i conti, qualcosa che non ti lascia tranquillo, ti spinge a cercare, a capire. Qualcosa che si ripercuote in ogni angolo, agli shop, ai bar, alle mostre. Quello che riescono meglio, quelli che patiscono l’affollarsi delle persone. Tutti.

Le mostre che ho visto mi hanno emozionata. Più di tutte “L’Abbraccio Misericordioso” che anche nei testi del catalogo ho trovato molto affine al pensiero di DP; la mostra su “Madre Teresa” mi ha straziata e anche “American Dream” un viaggio tra i Santi Americani, è stata di grande impatto emotivo. Ho trovato poco piacevole, ma per la disorganizzazione che ha visto far accavallare i gruppi facendo perdere ogni senso, “Restaurare il Cielo”

La mattina di domenica dopo la Messa, mi trovo dunque con Rosa vicino alle piscine. Rosa sta per iniziare il primo anno in Darsi Pace, dopo essere stata a Trevi per la settimana “insurrezionale” (e avere visto una sbaraccata di video di Marco Guzzi, come mi dice). La incontro in compagnia di sua cognata Alice. Ha il mio stesso entusiasmo, Rosa: quello di trovare nel meeting mille cose che hanno un sapore darsipacista.
Parliamo un po’, ed è come se ci conoscessimo da sempre. Quando ti muovi su un territorio comune, sembra che il dialogo sia più efficace. Ci si comprende meglio, più rapidamente. Lo stupore comune di quello che si sta vedendo in opera, rende tutto più facile. Dobbiamo riportare Marco al meeting! ci diciamo — entusiasti come bimbi — e ci pare al momento un’idea di straordinaria importanza. L’aria che si respira qui è un’aria amica a Darsi Pace. Dobbiamo lavorarci. Farlo venire per un incontro. Già, gli incontri, appunto.
Dal punto di vista degli incontri ce n’erano tanti e in contemporanea. Di sicuro non era facile garantire per tutti la stessa qualità, Molti, molto belli, intensi. Mi limiterò a citare quello che mi è piaciuto di più. Il preferito, “Un abbraccio che cambia la storia” con Mons. Paolo Pezzi, Arcivescovo di Monza e Vladimir Legoyda, Presidente dei Rapporti Chiesa — MassMedia del Patriarcato di Monza, con moderatore Alberto Savorana.
Lascio le due donne, con una bella impressione per la loro serenità. Saprò dopo, con grande stupore, che hanno attraversato un dolore molto forte, una grande perdita. A volte, vedo che persone sottoposte dalla vita ad un forte scossone sono proprio quelle che cercano con più serietà, come avessero sfrondato il cammino da tante cose inutili, da tante preoccupazioni di superficie. E questo si riverbera intorno, non c’è dubbio.
Il pomeriggio di domenica è molto denso, con gli incontri di Luca Doninelli sul tema del meeting, Tu sei un bene per me (ovvero, esclamerebbe la mia parte darsipacista, la bellezza inesausta della vera modalità relazionale, del superamento dell’io ego-centrato!), e quello di Davide Rondoni, uno dei poeti contemporanei che ammiro di più, su Shakespeare ed il senso dell’altro in Amleto.
Tutto, tutto rimanda a questo rapporto con l’altro (e con l’Altro), e tutto acquista un senso più vero, più sanguigno, più reale, dopo che questi due anni in Darsi Pace mi hanno fatto comprendere quanto questo rapporto con l’altro, compreso come fonte di bene, non sia scontato ma sia come un termine di un cammino, un già e non ancora. Un cammino innanzitutto dentro di sé, di cui qui si ritrovano le ragioni. In mille incontri e mille diversi linguaggi, più o meno efficaci.
Ho apprezzato particolarmente il linguaggio chiaro e diretto di Vladimir Legoyda del quale ho annotato una frase in particolare sul mio taccuino “Il cristiano non ha altro modo di cambiare il mondo se non innanzi tutto cambiando sé stesso” (che ne dite?) Non mi è piaciuto ad esempio “Le città non possono morire” soprattutto per l’emersione di un linguaggio ancora troppo politichese e mi pare avulso da vere soluzioni operative.
Ma l’incontro che mi colpisce di più è senza dubbio quello che chiude il mio meeting. Ripartirò infatti lunedì a mezza giornata. E prima faccio in tempo ad assistere all’incontro condotto da Roberto Fontolan, “Quale Islam in Europa”, con Wael Farouq, Docente di Lingua e Letteratura Araba all’Università Cattolica di Milano, e con Aziz Hasanovic, Gran Muftì di Croazia.
Qui — proprio sul punto di lasciare la Fiera — accade un piccolo miracolo interiore.
Qui la commozione per la testimonianza anche di chi ha profondamente sofferto e ciononostante ha scelto la modalità relazionale come approccio con l’altro, con le persone di altra fede, diventa commozione di me che ascolto. E gratitudine, vera gratitudine per l’offerta di una chiave interpretativa non bellica e pienamente realistica del rapporto con l’Islam. E in ultima analisi, del rapporto con chi è differente da me per visione del mondo, ma fratello, pienamente fratello in umanità. È la gioia purissima di un abbraccio, di sentirsi finalmente abbracciati, che mi rimane addosso mentre mi avvio alla stazione del treno.
Se devo trarre una conclusione direi che “L’abbraccio” in congresso, in mostra, in verità è il simbolo della resa del cuore, della nostra guarigione, della guarigione del mondo. L’abbraccio, nella misericordia.
Tutto si può dire del Meeting, di tutto si può ragionare: e questo non intende essere un intervento apologetico, né del meeting né di CL. Ma ecco, la Misericordia si avverte. Una misericordia a tutto campo, che non sopporta etichette o sigle o tessere di appartenenza. Mentre mi porto dietro questo abbraccio, i volti, i visi di tante persone di buona volontà, mi accorgo che il cinismo che mi avvelena così spesso nell’ordinario, non è l’ultima possibilità, è solo una (pessima) scelta. Una scelta che si può rivoltare, come un calzino.
Si può sperare, infatti. Si può camminare, perché la strada esiste.
Una strada — ne sono certo — che si può per larghi tratti percorrere tutti insieme, ma tutti. Tutti quelli che non hanno rinunciato a sperare, qualsiasi cosa credano o non credano.
Tutti.
Per darsi pace, la strada c’è: passa per gli incontri, i volti. Passa per l’uomo, coinvolto da Qualcosa di grande: quel soffio che per un momento lo distrae perfino dal suo limite, lo lascia a bocca aperta. A ritrovarsi addosso l’accenno di questa illogica allegria (per dirla con Gaber), fonte e ragione del cammino della vita.

Gli interventi in corsivo e rientranti sono di Rosa, il resto del testo è del sottoscritto.
Versione rivista del post pubblicato sul blog DarsiPace il 15 settembre 2016.

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Strumenti di lavoro

A volte uno fa lunghi ed estesi giri per riscoprire ciò che magari era già noto a tanti, da molto tempo. Però non credo siano mai giri inutili, siano mai peripezie invane. Intanto perché nella vita la cirtuitazione non è mai uguale a zero. Vivendo ti sporchi di quello che vivi, lo trattieni, te lo porti dietro. 
Contrariamente al detto una pietra che rotola non raccoglie mai sugo, secondo me di sugo ne raccogliamo tanto. E comunque. Tutto sta a volerne fare, con questo sugo, una bella pastasciutta. Oppure considerarlo solo come qualcosa che ci può sporcare il vestito. 
Il primo caso è quello davvero più interessante, perché se lo esploriamo a fondo vediamo che niente è veramente mai invano. Tutto serve. Magari si capisce subito, o dopo vent’anni. Ma tutto serve, sempre e comunque. Questo principio di conservazione squisitamente antispreco è qualcosa di molto confortante, a rifletterci bene. 
Così uno può attraversare delle fasi in cui, diciamo, sente il bisogno di aiuto nel comprendere la specificità e la unicità di ogni giorno. Così, tanto per essere sostenuto nella lotta ai pensieri pigri di andamento vagamente depressivo: quelli, per capirci. che assalgono tutti e ti avvelenano lentamente di frasi tipo è tutto uguale, non cambia mai niente, oggi è come ieri… 

Sono pensieri pigri da combattere, perché è noto a tutti il fenomeno: più ti ci incastri dentro, più sembra che la realtà ti si confermi in tale attitudine, mentre invece sei tu che selezioni dalla vita ciò che te la conferma. In un gioco, direi, che pur sembrando alquanto masochistico, comunque ci ritroviamo sovente a giocare, al di là delle nostre dichiarate intenzioni. 
E può capitare che un suggerimento ascoltato durante un incontro di Darsi Pace, trovi una eco imprevista nel cuore, come l’apertura di una possibilità. E non in una cosa nuova o particolarmente originale, ma in una nuovo sguardo su una cosa che più antica e tradizionale non si può.

Strumenti di lavoro… 

Si tratta infatti – ed è questa la sfida – di trovare una propria personalissima strada nel solco della tradizione. E’ questa la sfida veramente creativa, è questo il percorso interessante. Molto più fecondo dell’adesione cieca o del  rifiuto totalizzante.

Se infatti accettiamo – o meglio quando accettiamo – questa ipotesi di lavoro (Cristo come compagno del cammino dell’uomo), superando quella misteriosa repulsione tutta moderna, o almeno investigandola a fondo, ecco che torniamo alla sfida di nutrirci anche di testi e strumenti di cui si sono nutrite generazioni e generazioni.

E in questa luce, la tensione nel cercare qualcosa di nuovo si traduce e si riverbera – in modo forse più costruttivo – nella tensione nel cercare di vivere l’antico in modo nuovo. Come deve essere infatti veramente vissuto. 

Allora si comprende come l’avventura del rapporto con la divinità sia una cosa molto personale, in fondo. Personale, nella piena accoglienza della dottrina. E’ una sorta di paradosso che si risolve solo in modo esperienziale, vivendolo. Capita così di avvertire i dogmi non come limitazioni alla libertà di pensiero (cosa salubremente intollerabile per l’uomo moderno), ma come gli argini di un fiume, che aiutano a convogliare l’acqua, a farla scorrere l’acqua in modo diverso e personale per ognuno di noi.

E si riprendono magari degli strumenti di lavoro, come il calendario liturgico e la frequentazione di testi, che possono offrirsi alla meditazione di ogni giorno come aiuto anche a dare un colore alle varie giornate, e a rischiare la navigazione in mare aperto, secondo una rotta che è soltanto nostra, che è tutta da inventare. Una lettura nuova, che non dimentica niente delle acquisizione della modernità, che accoglie ogni fermento anche dalle posizioni più critiche. Una lettura che si pretende adulta, consapevole.

Ma che, al contempo, è saggiamente protetta, amorevolmente tutelata.

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La fisica del buco

Che poi, la cosa mi sembra questa, e anche abbastanza semplice, dopotutto. C’è questo buco, questo enorme buco dentro di me. Ora, il fatto è che – detto in maniera spiccia, saltando i passaggi – solo Cristo riempie questo buco. Non è questione qui di coerenza o di essere all’altezza o di tutti gli sbagli che si fanno, e cose così. E’ una questione semplicemente – con tutti gli sbagli possibili – di “fisica del buco”, diciamo. 
Voglio accogliere questo annuncio, almeno come ipotesi di lavoroSolo Lui riempie questo buco, attraverso la modalità storica concretissima che ha scelto per raggiungermi. Se questo, detto così spiccio, è vero, si capisce che accettando questo, accomodandosi in questo (con tutte le mie imperfezioni, le ben note reiterate defezioni, etc…) si inizia a trovare un po’ di pace, e si vedono le cose in modo diverso e più libero. 
Più libero, proprio: perché rifiutando questo si rimane con il problema di riempire il buco (luce rossa lampeggiante sul cruscotto, in pratica), e non c’è da illudersi tanto, perché per quanto ci possiamo pensare più liberi, in realtà siamo molto molto condizionati – perché il nostro primo e direi unico obiettivo sarà inevitabilmente quello di riempire il buco, di trovare qualcosa o qualcuno che riempia finalmente questo enorme buco, che sani questa ferita sanguinante. Così per paradosso pensando di essere più liberi, va a finire che lo siamo molto molto meno.
Certo c’è da mettere in conto la resistenza egoica contro questa cosa, perché il buco viene riempito non secondo un nostro progetto, una nostra costruzione, una nostra sapienza. Viene riempito essenzialmente da una nostra resa. Da un nostro che umilissimo riecheggia quel Sì che la tradizione cristiana proprio oggi festeggia.
Siccome c’è questa resistenza non basta assentire a questa linea di pensiero, ci vuole un lavoro attivo, quotidiano. Che comprende le declinazioni pratiche che già conosco, come la Scuola di Comunità,  e il percorso di Darsi Pace. Cose che non ho scelto per mia profondità di visione, beninteso: cose in cui sono stato guidato. 
E può darsi si tratti perfino di dire ad un percorso psicologico, perché non si sia tentati dallo spiritual bypassing, ovvero di coprire problemi irrisolti – sui quali invece si può e si deve lavorare – sotto un rigido cappello devozionale. Una sorta di tentazione di impazienza dalla quale mette in guardia anche un monaco come Anselm Grun (da lui ho preso il termine, che mi sembra molto efficace).
E certo comprende anche la meditazione, la preghiera. 
Senza scandalo, è necessaria una continua ripresa. Coraggio, pazienza, umiltà, perché non si tratta di incantesimi strani, si tratta di materia lavorabile, malleabile. Addolcibile.

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