Blog di Marco Castellani

Categoria: cammino

Adesso (e sempre)

Tutto deve avvenire ora, nel presente. Siamo tutti molto stanchi. Siamo molto stanchi di promesse e speranze buttate in avanti, quasi dette pro forma (anche nelle chiese), come un ennesimo gioco al quale non crediamo.
Tutto deve avvenire adesso. Basta in realtà un semino di resurrezione dai miei guai, dai miei crucci, dai miei problemi. Basta un accenno di speranza che mi dice tu ne vieni fuori. Piccolissimo, per carità. Ma deve essere dato ora.
Non abbiamo voglia, non abbiamo più voglia di aspettare, di prenderci in giro.
Scrive Marco Guzzi oggi su Facebook, che

la risurrezione accade
ora, oppure
per me non è mai accaduta.

Ci sto. Se oggi ho un motivo di uscire dalle mie recriminazioni circolari, ho cioè un inizio, una (ri)presa di percorso che mi conduca fuori dal circolo vizioso di mormorazioni, che occupa tante volte il teatro della mente, allora posso rilassarmi.
Sarà lungo quanto volete, sarà il lavoro di una vita, ma posso rilassarmi ora.
Altrimenti la tentazione è di ricadere nella tremenda frase di Kafka, Esiste un punto d’arrivo, ma nessuna via, dentro la quale spesso inconsapevolmente ci muoviamo.
No, non ci sto: esiste una via.
Esiste un cammino per ritornare amici del nostro cuore, e possiamo ricomprenderlo proprio oggi, perché nuova speranza venga a versarsi nel nostro animo, agganciandoci così a quel moto di resurrezione che è una delle dinamiche potenti (anche se nascoste, luminosa sottotraccia quotidiana) della storia, è una possibilità permanente che possiamo prendere e lasciare mille volte (non conta quanto). Oggi voglio agganciarmi a questa resurrezione, contro le mille, diecimila morti che rimangono da sanare nel mio cuore.
Ma no, non contro. Oltre, al di là.
C’è un cammino per “darsi pace”— ce ne sono mille.
La tristezza viene quando rinunciamo. L’allegria, quella allegria misteriosa e tenace, viene quando diciamo “ok, non rinuncio a questo cammino, lungo o corto, sia come sia. Io ci sto”
L’allegria è starci ad una proposta, appena. Questo segna — immediatamente e irresistibilmente — uno strappo nel tessuto dello spazio tempo, spesso così’ opaco. E di colpo si vedono, si vedono le stelle.
Il resto sono chiacchiere circolari. Buone per quest’anno e per i prossimi. Si possono fare abilmente anche continuando a nutrire quello strato oleoso di cinismo spicciolo, dentro il quale siamo abitualmente impastati.
Starci invece è rimettere in moto gli ingranaggi, riprendere a far girare la storia. Quella piccola e quella grande (non c’è differenza).
E’ un miracolo: una decisione intima, quasi microscopica, che ribalta il (mio) mondo come un guanto, collega il cuore con i quasar più lontani, cortocircuita gli spazi dei pensieri aridi.
Gli scrupoli morali sono per chi ha tempo e voglia di tormentarsi (e ne so qualcosa). Non si parla di questo, qui.

Quello che ci dici oggi, o Signore, è l’ultima parola che hai detto nel vangelo di san Giovanni: «Simone, mi ami tu?». Non hai detto: «Non peccare, non tradire, non essere incoerente». Non hai toccato nulla di questo. Hai detto: «Simone, mi ami tu?». Questa è la voce che echeggia dalla capanna di Betlemme: «Mi ami tu?». (Luigi Giussani)

L’Amore è un punto, è ovunque. La libertà di riconoscerLo, di amarLo, rimette in moto l’universo.
Adesso, e sempre.

Auguri di buona Pasqua e di buona resurrezione!

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Uomo e donna (in fila al casello)

Mentre sto per uscire dal casello, noto la fila dall’altro lato. Come a volte accade all’ingresso Telepass, una macchina ha problemi ed ha bloccato la fila. Un coro di clacson splendidamente  strutturato e denso, armoniosamente compatto, arriva spavaldo e perentorio alle mie orecchie. Proprio mentre sarebbero occupate ad ascoltare la splendida versione di Blood of Eden di Peter Gabriel interpretata in modo attrattivamente personale da Regina Spektor, nel disco – ruvido, imperfetto, tenero, bellissimo – And I’ll scratch yours, .

Ebbene, per qualche motivo il contrasto così eclatante tra lo struggimento per la ricerca di una profonda armonia – che è poi l’oggetto della canzone – e la rabbia veicolata dalla nota strutturata dei clacson sovrapposti mi colpisce, come evidenza solare. Mi fa balzar fuori da quella sorta di fastidioso inganno in cui abito per la maggior parte del tempo. Quello che mi dice che tutti sono felici e soddisfatti a parte me. Che solo io ho momenti di frustrazione, insoddisfazione, di misteriosa tensione, di dubbi esistenziali, laddove quasi tutti (ammetto solo piccole eccezioni) continuano tranquilli e paciosi nel lavoro dell’essere appagati dal loro stile di vita, senza più perplessità o problemi, salvo palesi avvenimenti esterni che arrivino a perturbare tale stato (lavoro, salute, etc).

Walking on water 209779 640

Siamo come bimbi in cammino, dopotutto…

Eh già, perché qualcosa non mi torna. Stavolta, lo devo ammettere. Se siamo tutti contenti e soddisfatti (a parte me, sempre in cerca di qualcosa che a volte non so neanche definire) come mai ci arrabbiamo tanto facilmente?

I saw the darkness in my heart

I saw the signs of my undoing

Forse non sono così solo nella mia condizione. E pensarlo mi fa bene. Non sarà – mi dico – che già il fatto di ammettere che uno possa stare così così, riconoscerlo senza drammi, già questo aiuta a vivere meglio? Se non essere sempre felici non è un problema, magari ti rilassi e intanto questo fa bene.

Siamo d’accordo, poi lo struggimento di certe parole non ti aiuta, nell’acquietarti. Regina le canta in maniera molto diversa da Peter, quelle parole, ma attraverso la sua ugola acquistano una limpidezza nuova, una evidenza quasi lancinante…

In the blood of Eden lie the woman and the man

With the man in the woman and the woman in the man

In the blood of Eden lie the woman and the man

We wanted the the union oh the union of the woman, the woman and the man

E così lo struggimento rimane e avverto anzi uno scarto formidabile tra quello che avviene intorno e quello che ora Regina sta cantando. E non posso farne a meno, mi domando come mai. Chi dei due stia sbagliando. O quelli in fila al casello – fatta da tanta gente come me – o lei che canta di una armonia così dolce, che sembra quasi una armonia perduta. Irraggiungibile, forse. Che non riusciamo più ad afferrare… 

My grip is surely slipping

I think I’ve lost my hold

Yes, I think I’ve lost my hold

I cannot get insurance anymore

Allora? Allora mi accorgo semplicemente che non riesco a tenere insieme le cose, non riesco a salvarne una o l’altra. Non riesco a decidere chi ha ragione, e chi invece me la sta raccontando. 

A meno che …

… a meno che non possa riuscire a salvarle entrambe. A salvare l’impazienza dell’uomo, la mia impazienza, guardandola con un nuovo, rinnovato moto di simpatia. Facendomi prendere dall’affetto per l’umano e per tutte le sue manifestazioni, che poi – in fondo in fondo – sono proprio le mie. Ecco, finalmente. Perlomeno capisco quello che ci vuole. Lo sguardo affettuoso sopra tutte le tensioni e le imperfezioni, che sono completamente le mie.

Cioè, invece di tentare di essere al di sopra di tutte queste cose – tipo, le gente che suona il clacson e  la gente impaziente e incoerente e che va avanti piena di errori e difetti… riconoscere di esserci dentro, di esserci dentro fino al collo. E dunque, intanto, smettere di agitarsi per uscirne fuori. E iniziare, invece,  a guardare questa cosa – questa dolente fragile coloratissima umanità che ho dentro ed intorno – con calore e con simpatia. Con affetto.

Oggi, più che mai forse nella storia, la certezza di cui l’uomo ha bisogno non è appena una comprensione intellettuale, dogmatica delle cose, ma (…) una conoscenza affettiva della realtà (Davide Prosperi, in “Non sono quando non ci sei”, Giornata d’inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di CL)

Perché l’umano è veramente una cosa grande, una cosa meravigliosa. Le nostre imperfezioni sono gemme. Sono gemme perché siamo voluti bene, che è l’unica ipotesi ragionevole, che è l’unica cosa che conta. Perfino l’incoerenza può sfavillare, se siamo voluti bene.

Perché poi, appena me ne accorgo, anche il dolore per questa misteriosa rottura di simmetria, penetra nella canzone e ne informa di sé la melodia, le parole

Is that a dagger or a crucifix I see

You hold so tightly in your hand

And all the while the distance grows between you and me

I do not understand

Che a volte la distanza cresca tra te e me, nonostante tutto lo sforzo che noi persone civili possiamo produrre, personalmente lo prendo come la sconfitta esistenziale di Cartesio (mi perdoni l’esimio filosofo).

Battuto, non serve nemmeno la moviola in campo: è plateale, la sconfitta.

Cioè che basti indagare e quantificare a sufficienza le cose (immergere tutto in un bel sistema di assi cartesiani, appunto) per fare chiarezza, sistemare le cose come se fosse semplicemente un problema di sapere di più (la sottile tentazione della manualistica, potremmo dire). Essere analitici, scientifici. Mentre invece di ottenere chiarezza – paradossalmente – va a finire che le incomprensioni crescono, le distanze esplodono. Mi ricorda qualcosa come la Torre di Babele. E quello che è peggio, cadiamo nell’errore di ridurre questo a fatto privato, a chiederci cosa non va…

Un grandissimo errore della cultura del nostro tempo, fonte di un notevole aggravio della sofferenza individuale, consiste proprio nella privatizzazione delle problematiche esistenziali, nella loro riduzione psicologistica a fatti privati appunto, privati del loro sfondo umano, che è sempre universale, ampio, comune e condiviso, come il tessuto delle nostri carni, fatto del filo delle medesime sostanze di cui sono fatti la terra, i cieli, e le stelle. (Marco Guzzi, Lettera ai miei figli sulla bellezza del matrimonio)

Smarrito lo sfondo globale, è ancora più facile perdere chiarezza… 

I do not understand…

Così il non capisco guadagna strada e la mancanza di una connessione emotiva lacera dolorosamente ogni tentativo di ricomposizione. Il non capisco cerca una soddisfazione razionale quando una strada per la risposta viene da altro, sospetto, da qualcosa di inedito, come una nuova tenerezza.  Più che necessaria in questo tempo.

E’ un’opzione, in ultima analisi. Un’opzione del cuore. Da questo dipende la mia percezione, di una violenza o una tenerezza. Intorno a me, sul tuo volto. Nelle tue stesse mani. Se sei qui per farmi del male o per amare. Per una lista di torti e ragioni che ultimamente mi inchioda, o per una tenerezza. Dipende ciò che vedo, da come lo vedo, perché delle mille possibili rifrangenze interpretative della realtà, mi riviene addosso quella che risponde al mio atteggiamento del cuore.

L’osservatore non è mai neutro, è sempre coinvolto. La fisica l’ha scoperto relativamente da poco, la saggezza umana lo sa da sempre.

Cosa tieni in mano: una lama, o un crocifisso. O meglio, cosa vedo (I see) nella tua mano?

Is that a dagger of a crucifix I see

E guardare con affetto allo stato di devastazione emotiva che a volte sento dentro di me, iniziare a guardare proprio con tanta tenerezza allo iato tra quello che sono e quello che correi essere, è veramente una conversione piacevole e necessaria, un lavoro che rende di nuovo la vita interessante.

Sì, è un lavoro, che può essere lungo, che chiede pazienza. Che chiede di riconoscere ed accogliere la propria ferita, risalendo – meglio se con un aiuto esterno, psicologico, spirituale – al punto in cui il dolore è più forte. Al punto in cui siamo stati davvero feriti. Scavando pazientemente fino a ritrovare quel punto infiammato, riconoscerlo, accoglierlo, e avviare un risanamento. Mettersi in cammino.

La vera rivoluzione è apprendere la tenerezza (prima di tutto verso noi stessi).

Così torno a giocare e mi piace la musica e Regina canta di qualcosa di cui finalmente posso concedermi la tenerezza, la tenerezza che ogni momento potenzialmente porta con se, se solo accetto di essere in cammino (troppo rivoluzionario questo pensiero, dovrò accontenterai di capirlo piano piano, semmai). E così riesco a salvare tutto quello che accade, la canzone e l’accordi di clacson multipli.

Che poi – ve lo posso confidare – per un istante hanno suonato quasi in armonia con le note della canzone, creando un effetto incredibile ed inaspettato. Davvero, ve lo assicuro: come se melodia e rumore si fossero accordati in un unico momento di perfetta consonanza.

Vorrà pur dire qualcosa.

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Marciapiede

Ci sono cose apparentemente banali che nella propria esperienza capita di veder piano piano scomparire, senza che la cosa sia stata minimamente messa a tema. Così l’esperienza di camminare su di un marciapiede, che pure ha fatto tanto parte della mia vita, è come andata assottigliandosi pian piano dal mio orizzonte quotidiano, senza che me ne rendessi conto, senza che ne fossi consapevole.
Al solito, me ne accorgo quando mi capita di nuovo. Un sabato mattina che andiamo a piedi al mercato. Una domenica che esco a prendere il giornale. Allora la cosa che mi sembrava il massimo dell’ordinario, mi colpisce come una novità. Camminare su un marciapiede è intanto una attività molto più sociale di quanto può essere spostarsi in automobile. Anche più democratica, dopo tutto: camminiamo tutti allo stesso modo, più o meno. Mentre la BMW che ti sorpassa in un rombo mentre tu arranchi in una sgangherata utilitaria, dice al mondo qualcosa di univoco ed inequivocabile, sullo status del sorpassato e del sorpassante.
Ma ecco, è proprio la socialità potenziale inerente al marciapiede che più mi colpisce. Mentre cammini sei esposto, sei in potenza di una serie di contatti e di incontri, di sorprese (piacevoli o no). Vedi e sei visto, non sei nascosto come nell’abitacolo di una macchina, dove guardi e quasi non sei visto. In strada sei anche troppo esposto, per i tuoi gusti postmoderni. In auto forse ti senti protetto, mentre se in realtà sei isolato.

MARCIAPIEDE
Sempre in cammino…
Infine, c’è il fatto non trascurabile di camminare. Ti arriva palpabile l’evidenza che ogni obiettivo – geografico, in questo caso – che vuoi raggiungere implichi strutturalmente un percorso, un tempo. Non arrivi subito dappertutto, devi metterti in cammino. Non hai la (pericolosa) tentazione di spingere sull’acceleratore per questa strana autodistruttiva pulsione, di azzerare l’attesa, di correre verso la prossima cosa. Sei sul marciapiede e devi camminare. Certo puoi correre, ma soltanto per brevi tratti, altrimenti ti stanchi. E ti fermi.
Se mi guardo vivere, mi sorprendo in azione, mi scopro desideroso di ottenere quel che voglio, fosse un oggetto o una condizione di maggior maturità spirituale, senza camminare, come azzerando l’attesa. Come cercando di svicolarmi dalla necessità di un percorso, di un cammino.
“Aspettatevi un cammino, non un miracolo” avvertiva Don Giussani, con paterna attenzione e premura. Non possiamo pretendere un miracolo, dobbiamo lavorare su noi stessi, affezionarci a noi stessi, rimetterci sempre in cammino dopo ogni deviazione.

Specifico: non ci credo al fatto che l’importante è viaggiare, indipendentemente dalla meta. Credo però che ogni meta veramente seria (a parte casi straordinari) implichi un viaggio, che è anche interiore. E ogni fioritura implichi un’attesa.

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Usa bene la tua energia

Uscendo dalla palestra ieri sera l’ho percepito (il momento che segue l’esercizio fisico e la relativa doccia è spesso foriero di interessanti illuminazioni, per me). Riguarda un uso corretto dell’energia. Semplice. Da fisico, avrei dovuto capirlo da tempo. 
In ogni istante, posso resistere o lasciarmi andare, lasciarmi condurre dalla vita. Se resisto uso male l’energia, la blocco, violento me stesso e il mondo. Credo spaccature e attiro conflitti. Se cedo, se mi lancio andare, incanalo l’energia dell’universo sui binari giusti, mi apro ad incessanti possibilità positive, non ostacolo ma assecondo il fiorire delle cose. Fiorisco anch’io con loro.
Orangefield

Gli effetti positivi del cedere sono immediati. La respirazione si fa più profonda e più bassa, più di pancia. La tensione diminuisce, si sente il corpo, si avverte un diffuso benessere, si è più ottimisti e rilassati. Che differenza da quando pensavo che uno fosse padrone della propria vita, che potesse riempirla come un contenitore vuoto da colmare a piacimento. Con tutto il problema di scegliere bene come colmarlo. Con l’ansia di lasciarlo troppo vuoto.
Come è meglio così invece. Sapere che esiste sempre un flusso, una direzione delle cose, una Presenza buona che dirige tutto (e perdona i nostri sbagli) e che dunque non abbiamo il problema si scegliere, ma la dolce libertà di lasciarci andare, e goderne.
Fa tutta la differenza del mondo. Se dico cosa devo fare sono fondamentalmente da solo, da solo con i miei dubbi. E il pensiero non serve, rende tutto più pesante, rende soltanto più solida e tenace la resistenza. Il pensiero si vuole sovrapporre alla realtà definendo un percorso suo.  La vuole forzare. 

Poca osservazione e molto ragionamento portano all’errore, molta osservazione e poco ragionamento portano alla verità (Alexis Carrel)

Se dico cosa vuoi che io faccia mi rivolgo ad un Tu, alla guida dell’universo. Direttamente. Non sono da solo. Il mio unico problema allora è mettermi il più possibile nella modalità di ascolto (perché ho visto che mi conviene, e dunque è ragionevole). Però mi piace proprio pensare che c’è un cammino e devo soltanto riconoscerlo. E se inciampo e cado non devo scoraggiarmi, ma semplicemente rialzarmi e riprendere il sentiero. A pensarci, è di una semplicità spaventosa.
Osservare e non pensare mi sembra un modo molto migliore di onorare la realtà, di stare a quello che accade. 
Mi piace proprio essere guidato, mi piace proprio (mi porta al sorriso) che non mi debba inventare nulla, debba solo lasciarmi andare, riconoscere che sono creato in ogni istante e che sono amato.  Solo così riesco a rilassarmi.
E’ una cosa talmente bella, che non può che essere vera.

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Il sole sulla strada…

“Quando questo svuotamento del desiderio si compie, allora non c’è altra strada per l’azione che il moralismo. Un’azione diventa moralistica quando perde il nesso con ciò che la genera: continuare a vivere da sposati senza il nesso con l’attrattiva che ha generato il rapporto amoroso, lavorare senza nesso con il desiderio di compimento anche se con un buono stipendio. Insomma: quando accade questo restano soltanto le regole da rispettare. Tutto diventa pesante, uno sforzo titanico per fare qualcosa che non c’entra più niente con il nostro desiderio.” (Julian Carron)

Così mi sentivo stamattina, andando via da casa, così arrivando al lavoro. Hai presente, quando – magari pure per un impulso inizialmente buono – ti prefiggi di fare la persona responsabile, affidabile, e intanto ti monta dentro un nervoso per delle cose piccole, piccolissime, ti dà fastidio tutto?

Insomma, esattamente come dice la frase, fino ad ogni virgola. Che sorpresa leggerlo, trovarlo scritto, nero su bianco, proprio oggi.
E’ già l’inizio di una liberazione. Come quando il dottore ti guarda e capisce i tuoi sintomi. Non ti senti già meglio? Semplicemente perché sei stato capito, ma capito davvero, non vedi già meno nebbia nella strada…?
Mi dico (e lo sento), che a volte vedere il sole brilluccicare sulla strada, più avanti, è già tutto. Già si capovolge la prospettiva.

Anche se è – appunto – più avanti. Qui, ma non ancora….

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painting the hills


painting the hills
Inserito originariamente da i.anton

Che bella foto… che combinazione, poi. Si ricarica la pagina di partenza di Google mentre sto lavorando (e anche oggi quante rogne…!), e spunta questa foto; incuriosito vado a vedere meglio… e a parte la bellezza della foto stessa (e del panorama), capisco d’improvviso quale particolarissimo significato ha per me.

Sì davvero quella gita di due giorni a San Gimignano e a Siena, nel lontano 1984, è stata l’inizio dell’avventura, una delle più significative della mia vita: è stata l’occasione in cui io e Paola ci siamo avvicinati, e abbiamo cominciato a camminare insieme…

E guarda un pò, cara sposa, quanta strada si è fatta fin qui…! Ci avremmo mai pensato, allora? 🙂

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