Blog di Marco Castellani

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Ciao Enzo

Mi viene come un ricordo, riaffiora dall’abisso di anni lontani lontani. Era un disco 45 giri con la parte centrale (interna ai solchi, intorno al foro) di colore verdino. Su un lato c’era Vengo anch’io e l’altro lato aveva Giovanni Telegrafista. Era di papà ma era finito insieme ai dischi di noi bimbi; le favole di A mille ce n’è, qualche canzoncina. Lo sentivamo nel mangiadischi di colore rosso, con il davanti bianco. Cose perse in anni lontani dell’altro millennio. Da lì in poi Enzo, in varie forme ed intensità, non si è mai allontanato. 
Con De André, pensare ad Enzo era un modo per pensare a papà, in fondo. Non ascoltava molto le canzoni, papà, piuttosto aveva pochi autori che amava molto. Erano suoi. Così Fabrizio De André, così pure Enzo. Quel disco con le canzoni in dialetto milanese, così strano alle orecchie di me bambino, nato e cresciuto nella capitale. Era una delle prime evidenze, misteriose, della presenza di altri mondi, di altri modi di esprimersi, di pensare, di parlare. Un posto lontano poche centinaia di chilometri ma totalmente diverso. 

Fiore di Pesco
Sfiorisci bel fiore….
(Foto di 
g33k0 su Flickr)


Il ponte sulla diversità però c’era, c’è sempre stato. Il ponte è la musica. La melodia parla un linguaggio universale, così alla fine non fa molta differenza se il testo è un inglese – magari perfetto ma largamente incomprensibile all’adolescente di allora – oppure il dialetto milanese più stretto – parimenti incomprensibile (allora e adesso). La musica ti faceva innamorare anche di un pezzo del cui testo non capivi nulla: ma è come se lo capissi lo stesso, in fondo. Lo respiravi ugualmente.
Enzo capace di canzoni allegrissime e divertenti, come L’Armando, che fin da piccoli ci appassionava con la sua galoppante inventiva e garbata irriverenza. Poi, altre di una tristezza misteriosa, una dolorosa mestizia, quasi cosmica: il racconto delle esistenze ai margini, del cuore insoddisfatto, del cuore… urgente, come appunto quello di Giovanni Telegrafista. Enigmatica controparte della scoppiettante ilarità di Vengo anch’io. In fondo penso che in quel 45 giri c’era già tutto Jannacci – in due canzoni di tanti anni fa, era come già presente – compresso ma anche completo – il suo larghissimo arco espressivo.
C’era – anche – la scoppiettante inventiva del puro cabaret e poi canzoni di tenerissima dolcezza, come in Sfiorisci bel fiore. Davvero, una tenerezza immensa.
Per me in particolare, c’era questo valore aggiunto, nelle sue canzoni. Enzo era tra i pochissimi italiani, tra i dischi di papà. Aveva tanti dischi perlopiù di musica etnica, di melodie e canzoni di terre lontane. Forse perché aveva sempre viaggiato molto. Papà non era un tipo da mettersi ad ascoltare le “normali” canzoni, di solito. Diffidava di quanto poteva sembrare troppo commerciale. Quindi i dischi di questo tipo che trovavo nella discoteca di casa avevano un valore particolarissimo.  Era come un segnale di merito. Erano anche loro un ponte, erano una terra di mezzo – un aggancio più facile ed immediato, tra la mia vita e la sua.
Così anche quando crescendo, complice Alberto il compagno di banco milanese, avrei iniziato ad esplorare la produzione di Jannacci in maniera più ampia e articolata, non avrei mai potuto togliermi di dosso il fatto che parte del valore mi sfuggiva dalle mani, era come andasse al di là della mia esclusiva valutazione, si appoggiasse a quella di papà. Come una garanzia di radice più forte.
Enzo l’ho visto solo un volta, di sfuggita. Era tra il pubblico del concerto jazz del figlio Paolo, questa estate al Meeting di Rimini. Concerto bellissimo ed emozionante quello di Paolo, tra l’altro. Lui era lì, con qualche persone che lo accompagnava. Non mi avvicinai molto (mi bastava che ci fosse) e lo intravidi parlare, salutare, sorridere. Ora magari sorriderete voi se lo dico, ma se ci penso era come se in qualche modo dovessi incontrarlo di persona, almeno di sfuggita, stare con lui nello stesso posto, sancire finalmente – con la pura presenza fisica – un nodo, un incontro di tragitti. Per le mille misteriose combinazioni del vivere. 
Era necessario, forse, prima che andasse. Ora è lì, e mio papà li ha riguadagnati tutti e due.

Chissà che bella musica fanno, lassù.

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Dal parco, guardando le case

Stamattina siamo andati io e Agnese. Oggi pomeriggio siamo tornati, e c’era anche Simone. Tutti al parco sotto casa, a prendere un pò d’aria fresca, e a esplorare lo spazio dell’allenamento ginnico, con i nuovi attrezzi che – mossa molto oculata, una volta tanto – una qualche amministrazione ha fatto istallare nell’aera del parco stesso.
In due posti diversi del parco ci sono questi attrezzi belli nuovi, una sorta di palestra all’aperto, accessibile a chi voglia fare un pò di allenamento nell’atmosfera rilassata del parco. Bello. Aiuta a rendere il parco stesso un luogo di uso del tempo libero più completo, diversificato. Bello vedere un altro papà che spiega al figlio i vari esercizi possibili, lo introduce e lo guida alla verifica di se stesso, lo controlla, vigile.
Nel pomeriggio ci tratteniamo all’area attrezzata più vicina alla nostra casa. Il parco corre vicino ai palazzi, in questa zona. Sta pian piano arrivando il buio, noi siamo pronti a rientrare verso casa, ma ci fermiamo un pò. I bimbi apprezzano la compagnia del papà, parlano e chiedono intanto che provano a fare la loro ginnastica (graduale, come necessario).
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Dal parco, al tramonto…

Nella tonalità azzurrina sempre più scura, spiccano come contrasto, come ideale complemento, le luci calde che provengono dalle finestre e dai balconi. Il papà adesso muove lo sguardo sull’ampio palazzo. Miriadi di ambienti che lasciano immaginare di sé. Immagina famiglie, segnali di vita, percorsi, traiettorie di esistenze. Come un immenso mosaico che si compone ordinato, ora, decorando la dominante l’azzurro-verde che prevale nel parco, con le sue tonalità calde. Come dire, c’è un riparo. Guarda che c’è un riparo. Puoi andare fuori ad esplorare, puoi vedere il mondo, andare nel parco, correre, e c’è un riparo. Anzi, tu – bambino, adulto – vai a imparare il mondo, perché sai, o senti, che c’è un riparo. 
E se sei nella tempesta, se non senti qual è il tuo riparo, sai che un riparo c’è. Sei autorizzato a credere che c’è un porto. Che devi passare la tempesta, ma poi “sbuchi fuori, e c’è il sole” (Giussani).
Ora mi è più chiaro di un tempo. La capacità del percorso, della lenta costruzione, si deve appoggiare a qualcosa. Anche nella tempesta, c’è la prospettiva, per tutti, di sbucare fuori, infine vedere il sole. 
Allora sì, si può costruire. Finalmente si può.

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Gustarsi il tempo…

Non ci può essere vera felicità se ci si gioca su un atteggiamento sleale verso la moglie, la famiglia. Dal coraggio di capire che si è davvero a casa, che non ci può essere situazione migliore, che le fantasie sono solo fantasie (percezioni distorte per fragilità, impazienza dell’attesa di un compimento), viene la letizia e la pace. 
E viene perché non è una cosa fine a se stessa, non è per un inutile buonismo, uno sterile moralismo. Nemmeno può essere per un quieto vivere (che brutto e sottilmente disperato sarebbe un “quieto vivere” senza un’apertura, un respiro, un riverbero di un Altro!). E’ come una umile domanda, una ricerca di un incanto, di un prodigio, “Il prodigio che tutti aspettiamo“. Il compimento del desiderio del cuore.
Altrimenti il tempo vincerebbe, come sempre vince se non c’è (o non si riconosce) una radice che non muore, che non ha scandalo del passare del tempo. “Mia giovinezza non ti ho perduta / Sei rimasta, in fondo all’essere” dice Ada Negri. 

“Luci della sera”
(scatto di oggi per Picplz)



Essere in se stessi, nella propria storia, trovarci il fondamento, stupirsi della sua consistenza… questo dà pace. Questa pace, questa sicurezza, permettono la creatività e l’efficacia del proprio stare nel mondo. Insieme, sono la risposta più solida alle paure e alle nevrosi.
Bisogna avere una radice, per fiorire. Per gustarsi il tempo.

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Camminando sulla spiaggia


walking along the beach
Originally uploaded by mcastellani

Sono state nel complesso due belle settimane, quelle passate nel Residence vicino Vieste.

La spiaggia (S. Maria di Merino) è bella larga. Pulita, come il mare. Limpidissimo, in certe ore del giorno. Puoi passeggiare su uno strato di acqua sottile, che fa mille colori. Tieni i piedi al fresco mentre cammini. Abbiamo fatto delle belle camminate lungo la spiaggia: la sensazione del piede nudo sulla sabbia è una cosa quasi preziosa. E la notte il brilluccichio delle stelle e l’aria fresca, le luci lontane come gemme di intima preziosità.

Le litigate dei bimbi ci sono state, l’insofferenza della più grande che si annoiava talvolta, pure. Bei momenti di crisi. Mettiamo in conto tutto.

Eppure ieri già io e mia moglie saremmo voluti tornare. Già, perché ci sono state anche le ottime mangiate di pesce a Terrazza sul Mare (dove si vede il tramonto che, per non essere da meno del mare, dipinge il cielo a striscioline colorate, non dimenticando un bel verde metallico che ti colpisce); oppure la splendida zuppa di pesce nel ristorante un pò sull’interno (e quella signora del ristorante che raccontava della processione da Vieste della Madonna di Merino, e del pellegrinaggio Macerata-Loreto.. chi l’avrebbe pensato.. e quella libreria che aveva Tracce in bella esposizione… ma perché non ci pensiamo mai, a trovare amici dappertutto.. )

Poi Andrea che ormai è grande, mi ha “costretto” ad iscriverlo ad un corso di Katesurf. Bello che si cimenti, si impegni. E’ grande e lotta per crescere, di più.

Poi le puntate a Vieste, che ti accoglie con una skyline sul porto, quando la strada fa la curva e poi scende. Spettacolare. Come bello e suggestivo è il paese e pieno di angolini e cose da vedere. Dovrò vincere la pigrizia e scaricare le foto, metterle su web.

Io penso che ci torneremo.

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Una domenica al cinema…

Metti allora che la piccola Agnese faccia il suo compleanno proprio oggi. Otto anni freschi freschi, e due occhialini sul viso, messi da pochi giorni, che le stanno benissimo (parola mia) tanto che tutti le fanno i complimenti ed anche mamma e papà si rassicurano e si tranquillizzano per il fatto che li porti proprio senza nessun problema…

Allora la mattina si prelevano i suoi amichetti e in due macchine, insieme alla moglie, si portano al cinema, a vedere Alvin Superstar 2. Che spettacolo trovarsi nove bimbi tutti in fila buoni buoni a vedersi il film! Presi gli undici biglietti, mi trovavo in mano un nastro lunghissimo che srotolato arrivava fino a terra! Poi gli immancabili pop corn e l’acqua, e tutti dentro la sala.

Usciamo e facciamo un pit stop da McDonalds, cercando di non smarrire la coordinazione tra fiumi di gente e roba da ordinare. Mentre mangiano, si avvicina una signora e noto che ci guarda interessata.  Chissà. Si allontana, ma poi evidentemente non resiste, e ritorna. Stavolta mi chiede, quasi ammirata: “Ma sono tutti vostri?”

No no, la rassicuriamo subito: sono amici, non fratelli. “Complimenti, comunque” ci dice sorridendo, forse perché li vede tutti insieme che interagiscono abbastanza pacificamente. in effetti è buffo portare in giro nove bimbi… Anche altri passano e sembrano curiosi, ma non si fermano.

Si torna e pian piano si distribuiscono i bimbi ai rispettivi genitori. Ce l’abbiamo fatta, e poi non è stata tanto complicata. Quel che più conta, è che sembra si siano divertiti tutti quanti.

… Ancora auguri, Agnese! Otto anni, due splendidi occhiali, e una dolce curiosità di capire il mondo e cercarne le cose belle, che mi insegna sempre qualcosa 😉

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Papà alto spilungone…

   Certo non è di tutti i comuni mortali, avere la soddisfazione di essere oggetto di una poesia. Non parliamo poi di quando la descrizione che vien fatta sembra – almeno per talune parti – rispondente abbastanza alla realtà (citerò soltanto i piedi molleggiati, leggendo capirete…)

   Pertanto venuto a conoscenza di questo mio indiscusso privilegio, no.. non me la sono proprio sentita di lasciarlo passare sotto silenzio, proprio no! Ecco dunque, senza ulteriori preamboli, la poesia a me dedicata, presa dal quaderno di Simone…

Papà alto spilungone,
ti vesti di verde o di marrone,
cammini sui piedi molleggiato,
e sei spesso per questo sbeffeggiato,
con noi sei invece buono e assai paziente
anche se spesso non meritiamo niente.
Ti vuole tanto bene quel figlio un pò puzzone
di nome Simone.

Che dite? Io “sospetto” anche lo zampino della mamma, in ogni caso…
Comunque, in ossequio al detto per il quale una immagine val più di mille parole (visto che sono riuscito a mettere le mani sul prezioso originale) ecco qui la poesia corredata da una spassosissima illustrazione (per la cronaca, sono io con la borsa della palestra…)

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Un romanzo… in un mese!

Ebbene sì, finalmente posso riscrivere il titolo del post di inizio novembre sostituendo il punto interrogativo con il punto esclamativo… e non è sostituzione da poco! Questa bizzarra competizione a cui ho aderito quasi per gioco, sono incredibilmente riuscito a portarla a termine, nella giornata di oggi, raggiungendo la famosa quota delle 50.000 parole.

Ora ho un “romanzo breve” chiamato “Il Ritorno”, di circa 50.300 parole; non avevo mai tentato di scrivere nulla di così esteso, grazie al NaNoWriMo finalmente sono riuscito a dribblare il mio implacabile editor interno che tante volte mi aveva fermato, e andare dritto – con un paio di momenti di crisi in cui il progetto effettivamente è stato “a rischio” – fino alla volata finale di oggi pomeriggio.

Ora ci vorrà senz’altro un esteso e paziente editing. Ma la cosa è andata, l’obiettivo è raggiunto. Ho scritto un piccolo romanzo! Non so da quanto l’ho volevo fare!

Devo sinceramente ringraziare mia moglie Paola, che durante questo periodo mi ha più che sopportato: mi ha incitato e incoraggiato e punzecchiato affinché non lasciassi perdere. Ogni giorno mi chiedeva quanto avevo scritto, ogni giorno mi incitava a continuare. Addirittura (e avendo quattro pargoli non è banale) aveva cura che io avessi tempo e tranquillità per scrivere. Mi sono chiesto più volte come mai., nel corso di questo mese. Perché teneva a questo concorso, in maniera particolare? Non credo. Piuttosto, credo che abbia a cuore che io riconosca e segua le mie inclinazioni e le mie attitudini, tra le quali scrivere é senz’altro una delle importanti, come capisco più chiaramente in questo specifico periodo.. Questo a parer mio, senza tanti giri di parole, è un reale segno di amore, per il quale le sono grato.

 Anche i miei figli (e specialmente Simone) si sono a vario titolo interessati, e talvolta mi hanno spronato.
 
Sono contento di essere riuscito ad arrivare fino in fondo e scrivere la mia novella, superando i momenti di dubbio e di indecisione. E’ realmente buffo, ma ho scoperto che a volte puntare a “scrivere e basta” nonostante tutti i dubbi, alla fine paga. Alla fine imbrocchi due o tre frasi in qualche pagina, e sei proprio contento. Quelle due o tre frasi ti fanno sentire in pace, contento di essere riuscito a scriverle finalmente come le volevi. Fosse solo questo, già sarebbe un ottimo motivo per scrivere 50.000 parole, o anche di più.

Poi ancora, il fatto di scrivere mette in moto dinamiche interessanti, ti porta a pensare, a lavorare sui personaggi, a ricercare correlazioni tra i caratteri, le vicende, ad avere fiducia in una storia. Avere fiducia in una storia è bello perché, mi sembra, non possa essere svincolato da avere un atteggiamento positivo verso l’esistenza… Bene, potrei andare a scrivere ancora (evidentemente oggi non mi è bastata la mia quota di parole del NaNoWriMo!), ma non vorrei vincere anche il concorso, se c’è, di post più lungo. 🙂

Scrivere è un’avventura che mi piace (oserei dire anzi che mi appare quasi necessaria). Credo che proseguirò.

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Criceti d’altre terre…

La piccola Agnese, tornando dal parco, alla sorella più grande…

“Claudia, Claudia…! Lo sai che al parco, c’era un criceto d’india ???”

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