Blog di Marco Castellani

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Amore

Bella storia parlare dell’amore, oggi. Impegnativa. Sull’amore si sono scritte milioni di righe, si è detto di tutto, si sono scontrate teorie ed opinioni. Allora piuttosto che parlarne ancora, oggi si può soltanto lasciare uno schizzo, un’impressione.  

Un’ombra di parola, un taglio di luce. 
Un tassello in un mosaico. 

Ecco cosa proviamo, 
qui.

Cos’è che mi fa andare verso l’altro? Perché non mi basto? Come mai l’innamoramento svapora ad un certo momento? Poche chiacchiere: stiamo a ciò che accade. Accade che puoi trascorrere ampi margini di vita quotidiana vicino a tua moglie o tuo marito senza quasi guardare chi hai accanto. E poi d’un tratto, per una parola, una attenzione, una carezza, ti ritrovi dentro quel fatto, il fatto che sei innamorato ancora… 


Cavolo, ti viene da pensare. Proprio quando avevi pensato che ne eri fuori. Che avevi teorizzato che l’amore era roba per giovani. Che sì, certo, ti dispiaceva abbastanza non essere più innamorato, ma almeno avevi capito come vanno le cose.
Invece no, non sei uscito dal gioco. E non ti raccapezzi più (sei contento, ma non ti raccapezzi).
Tutto cospira a pensare che si stia girando attorno ad un mistero. Per chi vive da tanto tempo insieme ad una altra persona, il mistero dell’abbracciare la differenza si fa vivo in tutta la sua ineluttabile luccicanza. 

Nell’amore si fa esperienza di qualcosa di più grande, di un mistero che eccede i due e che si esprime con un sospiro, non certo un sospiro di rassegnazione, ma un sospiro che esprime un anelito. Se non c’è sospiro è inevitabile cadere nella pretesa verso l’altro e nella rabbia per la propria ed altrui inadeguatezza. (Eugenia Scabini, qui e di seguito)

La verità, vi prego, sull’amore. Mai come in questo caso non riesco più a sopportare elucubrazioni e discorsi disancorati – secondo me – dalla semplice verità delle cose. 

Il matrimonio viene spesso contrabbandato come un’armonia magica, mentre è un’impresa che ha in sé un’evidente drammaticità, in cui le differenze sono un dato naturale e ineliminabile. Non serve applicarsi a limarle, come se volessimo cloroformizzare la realtà e, in fondo, negarla.

Questo è il discorso più onesto che potrei fare sull’amore coniugale. Questo è il parlare più spogliato di illusioni e velleità e desideri e più possibile ancorato alla vita reale, così come mi appare davanti agli occhi, ogni giorno. 
Diminuisce, inevitabilmente, la passione più istintuale. Ma di più, più di questo. Svapora l’illusione che la presenza dell’altra persona sia la chiave di interpretazione del cosmo, dell’universo, della vita. Di essere al riparo dall’esigenza di senso, dalla ricerca.
Eppure c’è qualcosa che cresce, dicevamo. Qualcosa che nella fase di innamoramento non si può nemmeno sospettare.
Certo cresce appunto il senso della distanza, del fatto che l’altra persona sia inesplicabilmente diversa da come siamo noi. Sia diversa anche da come la vorremmo, in fondo. 
Ma non è questo, non è questo che mi stupisce, dopo tanti anni di matrimonio. Questo casomai mi fa arrabbiare, disperare, deprimere – quando non lo accetto, quando non lo voglio accettare.
Il che avviene ancora troppo spesso.
Eppure non è questo il punto.
Quello che mi stupisce, quello che cresce e mi stupisce, è notare come tutta questa distanza venga coperta, abbracciata, travalicata. Dall’amore. Succede. Succede ed è una cosa francamente incomprensibile. Cioè, tu vedi questa persona così insanabilmente differente da te che ti vuole bene, e tu capisci anche – con grande costernazione, con commozione e costernazione insieme – che tutte queste differenze non impediscono che tu le voglia bene

Due persone che vivono l’esperienza dell’amore vero “sospirano”, perché attraverso l’altro si affacciano all’infinito, tenendosi per mano si incamminano insieme verso il compimento di entrambi.

E volersi bene attraverso le differenze (non dico sforzarsi di farlo, intendo proprio vedere che accade) scusate ma per me resta un mistero. Un mistero che non censura nulla (la noia, la stanchezza, i risentimenti, tutto quello che volete). L’amore provato e temprato di un matrimonio ha una robusta architettura – un punto di stabilità, anche davanti alle mancanze dell’uomo e della donna, alla loro luminosa e commovente imperfezione – che non ha confronti, nemmeno con quello bellissimo sfavillante dell’innamoramento. Diciamolo, è proprio un mistero.
Un mistero che si va approfondendo e rendendo più presente, ogni giorno che passa. 

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Moglie, felicità e cedevolezza

Andiamo subito al punto. Per me, per il punto in cui sono, per la mia età, per tante cose, è diventato importante, prioritario, capire l’importanza della famiglia. 

Hai presente, il tipo di cose che tu dai per scontato e quindi corri rischi. Come sempre quando dai per scontato qualcosa, lo riduci, lo interpreti parzialmente. Soprattutto, blocchi quello scambio fecondo tra ciò che hai ridotto e la tua interiorità, la tua anima. E non sto parlando del rischio di essere moralmente ineccepibili anche come sposo o genitore (con le propre forze soltanto, del resto, è impossibile). Non si tratta di non sbagliare. Parlo del rischio ben più grande di trascorrere gli anni senza gioire abbastanza di quanto si ha, senza rallegrarsi della bellezza di una lenta costruzione, di un cammino da fare insieme. Più lenti o più veloci,  candendo e rialzandosi. Non è il problema.

kissing shadows
Kissing Shadows, by -clo

Il rischio per me è un altro. Rischio di guardare mia moglie come una persona che può compiere il mio desiderio. Necessaria e sufficiente, diciamo, a farmi sentire bene.

Spesso cado in quest’atteggiamento mentale. E sbatto presto contro un muro, perché (come poi devo capire) sto forzando la realtà e le persone in una interpretazione errata. Allora la mia delusione è dietro l’angolo. Tutto perché guardo la mia sposa nel modo sbagliato, con una pretesa. Senza arrendermi al fatto che lei sia segno.


“Se ciascuno non incontra ciò a cui il segno rimanda, il luogo dove può trovare il compimento della promessa che l’altro ha suscitato, gli sposi sono condannati a essere consumati da una pretesa dalla quale non riescono a liberarsi, e il loro desiderio di infinito, che nulla come la persona amata desta, è condannato a rimanere insoddisfatto.” diceva Juliàn Carròn qualche anno fa.
Rilke lo dice proprio bene: Questo è il paradosso dell’amore fra l’uomo e la donna: due infiniti si incontrano con due limiti; due bisogni infiniti di essere amati si incontrano con due fragili e limitate capacità di amare. E solo nell’orizzonte di un amore più grande non si consumano nella pretesa e non si rassegnano, ma camminano insieme verso una pienezza della quale l’altro è segno.


Una pienezza delle quale l’altro è segno. Solo questo può essere degna continuazione dell’estasi dell’innamoramento, limitata per sua natura. Solo questo posso ragionevolmente accettare in un rapporto che dura nel tempo: una pienezza maggiore. Non ho proprio voglia di accontentarmi di qualcosa di meno.

La buona notizia è che questo mi fa capire come affidarsi (cedere, attratti da questa prospettiva di pienezza… invece che logorarsi i muscoli e la volontà nel tentare di essere buoni o all’altezza o non fare sbagli), non è qualcosa di astratto, ma è qualcosa che ha molto, molto a che vedere con la felicità. Anche quella coniugale.


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Gustarsi il tempo…

Non ci può essere vera felicità se ci si gioca su un atteggiamento sleale verso la moglie, la famiglia. Dal coraggio di capire che si è davvero a casa, che non ci può essere situazione migliore, che le fantasie sono solo fantasie (percezioni distorte per fragilità, impazienza dell’attesa di un compimento), viene la letizia e la pace. 
E viene perché non è una cosa fine a se stessa, non è per un inutile buonismo, uno sterile moralismo. Nemmeno può essere per un quieto vivere (che brutto e sottilmente disperato sarebbe un “quieto vivere” senza un’apertura, un respiro, un riverbero di un Altro!). E’ come una umile domanda, una ricerca di un incanto, di un prodigio, “Il prodigio che tutti aspettiamo“. Il compimento del desiderio del cuore.
Altrimenti il tempo vincerebbe, come sempre vince se non c’è (o non si riconosce) una radice che non muore, che non ha scandalo del passare del tempo. “Mia giovinezza non ti ho perduta / Sei rimasta, in fondo all’essere” dice Ada Negri. 

“Luci della sera”
(scatto di oggi per Picplz)



Essere in se stessi, nella propria storia, trovarci il fondamento, stupirsi della sua consistenza… questo dà pace. Questa pace, questa sicurezza, permettono la creatività e l’efficacia del proprio stare nel mondo. Insieme, sono la risposta più solida alle paure e alle nevrosi.
Bisogna avere una radice, per fiorire. Per gustarsi il tempo.

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Un romanzo… in un mese!

Ebbene sì, finalmente posso riscrivere il titolo del post di inizio novembre sostituendo il punto interrogativo con il punto esclamativo… e non è sostituzione da poco! Questa bizzarra competizione a cui ho aderito quasi per gioco, sono incredibilmente riuscito a portarla a termine, nella giornata di oggi, raggiungendo la famosa quota delle 50.000 parole.

Ora ho un “romanzo breve” chiamato “Il Ritorno”, di circa 50.300 parole; non avevo mai tentato di scrivere nulla di così esteso, grazie al NaNoWriMo finalmente sono riuscito a dribblare il mio implacabile editor interno che tante volte mi aveva fermato, e andare dritto – con un paio di momenti di crisi in cui il progetto effettivamente è stato “a rischio” – fino alla volata finale di oggi pomeriggio.

Ora ci vorrà senz’altro un esteso e paziente editing. Ma la cosa è andata, l’obiettivo è raggiunto. Ho scritto un piccolo romanzo! Non so da quanto l’ho volevo fare!

Devo sinceramente ringraziare mia moglie Paola, che durante questo periodo mi ha più che sopportato: mi ha incitato e incoraggiato e punzecchiato affinché non lasciassi perdere. Ogni giorno mi chiedeva quanto avevo scritto, ogni giorno mi incitava a continuare. Addirittura (e avendo quattro pargoli non è banale) aveva cura che io avessi tempo e tranquillità per scrivere. Mi sono chiesto più volte come mai., nel corso di questo mese. Perché teneva a questo concorso, in maniera particolare? Non credo. Piuttosto, credo che abbia a cuore che io riconosca e segua le mie inclinazioni e le mie attitudini, tra le quali scrivere é senz’altro una delle importanti, come capisco più chiaramente in questo specifico periodo.. Questo a parer mio, senza tanti giri di parole, è un reale segno di amore, per il quale le sono grato.

 Anche i miei figli (e specialmente Simone) si sono a vario titolo interessati, e talvolta mi hanno spronato.
 
Sono contento di essere riuscito ad arrivare fino in fondo e scrivere la mia novella, superando i momenti di dubbio e di indecisione. E’ realmente buffo, ma ho scoperto che a volte puntare a “scrivere e basta” nonostante tutti i dubbi, alla fine paga. Alla fine imbrocchi due o tre frasi in qualche pagina, e sei proprio contento. Quelle due o tre frasi ti fanno sentire in pace, contento di essere riuscito a scriverle finalmente come le volevi. Fosse solo questo, già sarebbe un ottimo motivo per scrivere 50.000 parole, o anche di più.

Poi ancora, il fatto di scrivere mette in moto dinamiche interessanti, ti porta a pensare, a lavorare sui personaggi, a ricercare correlazioni tra i caratteri, le vicende, ad avere fiducia in una storia. Avere fiducia in una storia è bello perché, mi sembra, non possa essere svincolato da avere un atteggiamento positivo verso l’esistenza… Bene, potrei andare a scrivere ancora (evidentemente oggi non mi è bastata la mia quota di parole del NaNoWriMo!), ma non vorrei vincere anche il concorso, se c’è, di post più lungo. 🙂

Scrivere è un’avventura che mi piace (oserei dire anzi che mi appare quasi necessaria). Credo che proseguirò.

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Oh Vienna…

Tu che ora forse dormi, sotto un cielo diverso, guadagnato attraverso stazioni aereoporti fermate coincidenze e combinazioni di orari. Sei arrivata a Vienna oggi. Il telefono restituiva poco fa una voce dolce ma straniera, che non ci mette in comunicazione appoggiandosi forse a misteriose ma alquanto fredde incongruenze tecniche.

Non m’importa, il nostro linguaggio ci è ben noto e attraversa le distanze. Più che altro riposa un comune approdo, che ci permette di scherzare con gli schizzi della superficie, con le nostre angolature episodiche.

Tu lo sai, lo so io. Ora dormi. Su questo riposiamo. Ora dormi davvero; c’è una storia che continua. Non me la merito, ma c’è.

Oh Vienna. Stamattina andando al lavoro mi veniva in mente la vecchia canzone degli UltraVox.

A presto rivederti, mia sposa.

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Seguire la linea…

.. e non è stato forse bello, ieri, affrontare le proprie piccole spigolosità, con il pensiero dolce e “riordinativo” di avere un ruolo, un compito su cui svolgere la vita, che è quello di amare mia moglie (amare! Apparentemente semplice, perennemente rivoluzionario. Al di là del conto spicciolo di quanto dò e quanto ottengo), e di applicarmi nel lavoro (non pretendendo più la perfezione, ma accettando il mio ruolo così come viene declinato nella vita pratica…)?

Mi sono accorto anche che le cose si declinavano meglio, più ordinate. C’era meno senso di dispersione. Ero all’inaugurazione della Torre Solare a Monte Mario, e sentivo che non c’era niente da eccepire, da riflettere, da ruminare. Ero lì perchè dovevo stare lì (forse non si capisce… però è così) E la cosa era pacificante. Accettavo il mio ruolo. Facevo quello che dovevo fare: ma non “dovevo” nel senso di costrizione.. piuttosto, nel tentativo (imperfetto quanto si vuole) di adesione alla linea della mia vita. Allora anche le cose si sistemavano un pò più accoglienti, i rapporti con le persone si addolcivano (e si facevano migliori), la curiosità per il lavoro e le cose intorno poteva emergere…

Lo scambio di parole con il direttore (che ha ringraziato anche me per essere stato presente), i colleghi. Gli amici.

La linea della mia vita (hold the line…). Che non è da inventare, ma da riconoscere…

Posted via web from mcastel’s posterous

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E’ che servono le chiavi a mia moglie

Scendo negli spogliatoi della palestra dopo forse una mezz’oretta scarsa da che sono entrato. Mi vede un signore che incontro spesso in palestra e col il quale spesso ci scambiamo dei saluti, e mi chiede se ho già finito per la giornata. “No no devo prendere una cosa…”


Intanto penso la versione lunga della medesima risposta, che è tipo “A mia moglie servono per qualche motivo le chiavi di casa ora, così che ho interrotto gli esercizi e sono sceso a riprendere dal mobiletto dello spogliatoio, dove ho chiuso la mia roba mentre faccio allenamento…”

Subito dopo mi figuro anche una sua probabile risposta di circostanza, magari del tipo che chiamerei da piccola seccatura, tipo Ehh che ci vuoi fare, nemmeno in palestra si può stare tranquilli, le mogli… forse con un sorriso a stemperare e sdrammatizzare ulteriormente questa lievissimo contrattempo…

Poi sono andato a pensare perchè mai la parola “moglie” potesse essere anche per scherzo associata a “seccatura”. Mi ha fatto pensare alla quotidianità di una lunga consuetudine di vita, alla differenza tra la parola “sposa” che è una parola che brilluccica tutta di gioia ed eccitazione e gusto pieno di prossimità e vicinanza, e la parola – appunto – “moglie” che lascia invece trasparire un senso di abitudine, di compromesso, quasi di stanchezza: “ahh che vuoi, sai mia moglie…”, cose di questo tipo qui.

Però non mi sono rassegnato a scivolare nell’uso di questa parola in questo modo. Secondo me quando sta per capitare è il segnale che c’è da lavorarci, da lavorare per soffiare via la polvere: lavoro lento, paziente, senza attesa di risultati repentini, ma fiducioso…

D’altra parte, la luccicanza della parola sposa, in ultima analisi, è pur contenuta nel nucleo della parola moglie, ma come protetta, custodita, da uno strato intermedio semiopaco, senza il quale forse non potrebbe preservarsi nel tempo… strato che contempla anche l’abitudine di un rapporto lungo, che contempla anche le tensioni, le differenze, e la perseveranza paziente nel lavorare per superarle… come se non potesse essere esposta al mondo così direttamente, ma dovesse come scivolare entro uno strato protettivo.

…Non è che semplicemente stà a me lavorare perchè questo strato non diventi una gabbia, magari?

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painting the hills


painting the hills
Inserito originariamente da i.anton

Che bella foto… che combinazione, poi. Si ricarica la pagina di partenza di Google mentre sto lavorando (e anche oggi quante rogne…!), e spunta questa foto; incuriosito vado a vedere meglio… e a parte la bellezza della foto stessa (e del panorama), capisco d’improvviso quale particolarissimo significato ha per me.

Sì davvero quella gita di due giorni a San Gimignano e a Siena, nel lontano 1984, è stata l’inizio dell’avventura, una delle più significative della mia vita: è stata l’occasione in cui io e Paola ci siamo avvicinati, e abbiamo cominciato a camminare insieme…

E guarda un pò, cara sposa, quanta strada si è fatta fin qui…! Ci avremmo mai pensato, allora? 🙂

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