Affetto

Scrive Luigi Giussani in Generare tracce nella storia del mondo, che è un affectus, come quello che aveva Simone, così puramente è profondamente affezionato a Gesù, ciò che porta lontano la capacità di giudicare adeguatamente la realtà.

Ebbene, quanto sia dirompente questa frase mi arriva solo dopo un po’ di ragionamento. Sì, mi trovo ordinariamente dentro questa convinzione, che il giudizio sia obiettivo solo se mi riesco ad astrarre dalla contingenza, se riesco a spegnere le emozioni e gli affetti nell’atto della valutazione, se mi sento sufficientemente lontano da tutto, in equilibrio su un punto (che immagino) di stabilità. Come un pianeta svincolato da ogni orbita, da ogni pur vago moto di attrazione: nulla che mi attiri in modo particolare, tutto è in equilibrio. In questo framework, ogni cosa che cattura la mia attenzione, che muove il mio animo, può rappresentare una distrazione, una alterazione indebita di questo (alquanto fantomatico) equilibrio valutativo.

La frase di Giussani (che riguarda cielo e terra, l’eterno e il contingente) giunge a scardinare questo terribile pregiudizio, questo desiderio malato di pulizia e di imparzialità. Malato proprio perché irrealizzabile, semplicemente e puramente disumano.

Volendo rimanere sulla fisica, senza approfondire l’aggancio metafisico (ché ci vorrebbe ben altro spessore di scrittura) cono cose che ci indica anche la scienza, a voler davvero ascoltare (il fatto è che non ci piace troppo ascoltare, nemmeno cosa dice la scienza, quanto va contro il nostro assetto mentale di default). Abbiamo viaggiato tanto, da quando Galileo ha aperto la porta all’analisi scientifica del mondo, a questa potentissima possibilità di ordinare il mondo fisico secondo dei modelli, capaci perfino di fare predizioni su eventi futuri.

Abbiamo viaggiato tanto, abbiamo traversato mondi diversi, nei secoli. Mondi che assomigliavano un po’ a come ci sentivamo, alla coscienza che avevamo maturato nel viaggio, più o meno fin lì. Abbiamo attraversato territori in cui, un po’ gasati dalle cose che stavamo scoprendo, ci siamo sentiti in potere di comprendere l’intera evoluzione delle cose. E’ stato anche detto che sarebbe bastato avere più informazioni (posizione e moti delle particelle, per essere precisissimi) per predire le cose, fino al limite estremo.

Questo modello è superato, siamo andati ben avanti nel viaggio. Scoprendo nuovi territori. Ora sappiamo che aggregare informazioni su informazioni non sempre ci aiuta, nella comprensione. La realtà non è conoscibile con precisione infinita, ce lo dice anche la fisica quantistica, che anzi fissa dei limiti in modo che può anche apparire implacabile. Oltre un certo confine, il dato semplicemente non ha senso, il famoso principio di indeterminazione è sempre da riprendere, come spunto importante per riflettere.

Il fatto che l’accumulo di pura informazione non aiuti la comprensione, lo avverto già come individuo, come persona, prima ancora che nel lavoro di scienziato. Prendiamo una cosa molto attuale, il bombardamento di informazioni in questa pandemia, ad esempio. Ebbene, l’esposizione esasperata alle statistiche di contagio, guariti e deceduti, erogata con assidua determinazione da ogni medium, non faceva che generare in me rinnovata confusione, minor possibilità di capire ed entrare realmente negli eventi. Se sono onesto con me stesso, devo ammettere che – almeno per me – l’accumulo di dati equivale ad una perdita di reale conoscenza, che tale bombardamento insistente può essere usato (consciamente o no) per destabilizzare, spaventare, ultimamente per generare un senso di impotenza. La gran mole di dati spinti nella coscienza, senza che vengano riordinati ed allineati da una ipotesi di senso, genera questo senso strano di confusione, di progressiva opacità.

Perché manca qualcosa, appunto. Manca quello che Giussani chiama affectus, alla fine. E’ questo, è questo il fatto. E se vogliamo rimettere in gioco la fisica quantistica, possiamo farlo anche qui, e senza forzare nulla. Ed anzi, qui abbiamo una evidenza rigorosissima, confermata proprio da quella scienza che a volte giudichiamo più impersonale ed arida di quanto sia veramente. C’è una lezione semplice e potente, che possiamo derivare da tale ambito. Non è infatti possibile conoscere qualcosa senza esserne parte, così potrei tradurre, senza troppo tradire, l’evidenza che ci giunge ormai molto chiara, dalle ricerche. Conoscere un sistema equivale a modificarlo, sia pure in piccola parte.

Fermiamoci un attimo su questo. Sì fermiamoci, perché questo noi, oso dirlo, non lo abbiamo ancora capito. Non lo abbiamo capito proprio per nulla. Per una sorte di fenomeno inerziale, noi gravitiamo ancora intorno al positivismo ottocentesco, e gli ultimi (ma anche penultimi) risultati della scienza dobbiamo ancora digerirli. Magari li sappiamo, nella testa, ma non sono ancora scesi nel cuore. La testa è veloce ad impadronirsi di un concetto, ma poi perché giunga nella vita reale, nella pratica di vita reale e concreta, ci vuole molto tempo. Lo diceva benissimo Gaber, che cito spesso in casi come questo, se potessi mangiare un’idea, avrei fatto la mia rivoluzione (idee giuste o sbagliate, se non arrivano al cuore, non funzionano). Ora ed ancora, insomma, ci tocca questo lavoro, di far scendere le idee e le convinzioni, dalla mente verso il cuore, dal pensiero alla carne.

Come questa cosa qui. Non esiste la conoscenza impersonale, oggettiva, di un fenomeno. In realtà, non è mai esistita. Ci piaccia o meno, faccia o meno a botte con quello che crediamo di credere, ma è così. La conoscenza implica sempre la partecipazione, in qualche grado. Per una persona, ma direi per un essere vivente, è una partecipazione essenzialmente affettiva, la possibilità della conoscenza.

Senza questo affetto, pensiamo di comprendere, valutare, giudicare, ma siamo semplicemente dentro una specie di simulazione mentale, non siamo vicini all’oggetto che dovremmo conoscere, siamo confinati su un universo parallelo, inconsapevolmente schiavi dei nostri preconcetti.

E’ una bomba, quello che dovremmo confessarci ora, senza più nasconderci dietro ad improbabili oggettività. Una esplosione universale, davanti alla quale siamo spesso totalmente inadeguati, ovvio. Ma non per questo dobbiamo impedirci di dircelo: una conoscenza adeguata della realtà viene soltanto da un amore ad essa. Davvero, la ragione conosce nella misura in cui essa ama.

Qualcosa di così deflagrante, che in fondo l’abbiamo sempre saputo. Le grandi tradizioni ce lo hanno sempre insegnato. Ma forse ora è il momento giusto, per ritrovare come nostro, quello che ci è sempre appartenuto.

Con un rinnovato affetto, ovviamente.

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Colori

Viviamo in un’epoca ancora ammalata di razionalismo, e di conseguenza siamo ben poco abituati, ai colori. Intendo, non ci facciamo veramente caso, non ne percepiamo la portata (tranquillamente) rivoluzionaria.

Nel senso che i colori hanno qualcosa a che vedere con il guardare le cose, e questo è ovvio. Ma non semplicemente con il vederle, ma con l’osservazione attenta che percepisce la poliedricità, la complessità di quel che si guarda, la sua irriducibilità ad un pensiero prefissato, ad un pensiero praticamente già pensato, che volesse archiviare frettolosamente l’atto dell’osservazione. Ecco, una modalità di osservazione così è perpetuamente rivoluzionaria, si capisce.

Ma questo, soprattutto. La sfida a non archiviare in fretta il dato. 
Siamo in un’epoca in cui le cose si consumano in fretta, in cui è forte la tentazione di non vivere a fondo qualcosa, ma di metterla via per fare spazio sempre ad altro. Qualcosa di altro sembra sempre la cosa più importante (geniale la frase a prima vista tutto è secondario della bellissima canzone I sacchi della posta del Battisti “secondo periodo”). Così noi tendiamo a fare le cose di corsa, ad estrarre rapidamente il succo appena pensiamo di aver capito quale sia (che poi spesso lo perdiamo, non è una grande scoperta). E la cosa migliore per farlo, è archiviare il dato di osservazione etichettandolo con un pensiero, o peggio un giudizio. E passare oltre, cercando qualcosa in perpetuo, non trovando facilmente un punto di riposo. 
Ma i pensieri, le etichette mentali, sono sempre in bianco e nero, sono qualcosa afferente ai toni del grigio. Il problema è solo questo, alla fine: è che non sono a colori. 
I ragionamenti, le varie tesi ed antitesi, anche un certo gusto per la dialettica… sono tutte faccende in bianco e nero. Come i vecchi televisori prima dell’avvento del colore. Dopo un po’ che guardavi un telegiornale, un (vecchio) film, uno sceneggiato, quasi ti scordavi che non vedevi i colori. Ci stavi pure, lì dentro, certo. Ti sembrava di essere a tuo agio in quella rappresentazione di universo. E ti dimenticavi di questo, che non stavi vedendo alcun colore. La cosa più grave in assoluto, è che ti sembrava non ti mancassero, pensavi di poterne fare a meno.

In realtà ti eri accontentato di qualcosa di meno, del vivere davvero la realtà, per tutto quel che è (ecco cosa è grave, accontentarsi è grave, per quanto contiene di rassegnazione, è una diminuzione del vivere). E diciamolo pure, un po’ ti veniva anche facile, ti veniva comodo, non dovevi fare sforzo. Perché non dovevi aprirti più di tanto, in fondo.

Infatti, il colore presuppone una attitudine ad uscire da sé, almeno in parte. A lasciare scorrere via i pensieri, per osservare veramente la realtà. Il colore può anche suggerire un punto di riposo, o almeno suggerire che un punto di riposo si trovi fuori dal proprio baricentro, che graviti esterno ai propri pensieri. 


A volte poi c’è questo, i colori non li vogliamo vedere, li vogliamo quasi cancellare. Come se per guarire potesse bastare questo, eliminare il colore di una storia, di un rapporto. Proprio questo canta Branduardi in una bellissima canzone, chiamata appunto Colori
E’ il volto tuo che ho disegnato,
Mi son seduto ed ho aspettato:
Ho usato il nero per i capelli
E rossa sabbia per la tua bocca.
Verrà la pioggia e lo laverà,
Confonderà i tuoi colori,
Quando il vento sarà passato
Sarò alla fine guarito.

Ma nessuna rimozione ci porta a stare meglio, ce lo insegna la psicologia. Dobbiamo far pace con i nostro colori, con i colori del mondo, con i colori dell’esperienza che abbiamo, del mondo. E’ un lavoro, a volte necessario. Ogni terapia psicologica, ogni percorso spirituale, deve portare a ritrovare colore nel mondo, per esempio.

Quindi, è questo. I ragionamenti sono in bianco e nero: anche quelli nuovi nuovi, appena stampati, paiono uscir fuori da un vecchio televisore, alla fine. Infatti non danno mai vera gioia, i ragionamenti (la gioia è una cosa parecchio colorata, in ogni caso). Danno attaccamento, questo sì. E motivi di polemica, di accorpamento o divisione, questo sì. Cose per ingannare il tempo, dimenticandoci di voler essere felici, insomma. Si possono fare molte cose, dimenticando il nostro cuore e la sua fame di colore.

Non l’arte, però.

L’arte, quella ha qualcosa di molto più a che fare, con i colori. Per le arti figurative è difficile negarlo. Ma anche un bel romanzo è a colori, per esempio. E’ assolutamente evidente. Anche se è stampato in caratteri neri su foglio bianco, come lo apri subito si sprigionano i colori. Pure la scienza, se non perde la sua carica di meraviglia, è a colori. Perché lo è la curiosità, quella che spinge a voler capire il reale. E potremmo approfondire il discorso verso il Mistero, pensando ai colori nella Sacra Scrittura: qualsiasi cosa si creda, si potrà convenire che un libro davvero importante (per molti, appunto, sacro) non può assolutamente prescindere dai colori, non può limitare in alcun modo il suo approccio alla realtà.

Il colore è la prima cosa, la più immediata e disponibile, che ci dice, ci suggerisce, che c’è ben altro che i nostri pensieri. A volte è un’ancora di salvezza di una potenza indescrivibile, perché ci rimanda ad un mondo di emozioni e passioni, dove già ci sentiamo più a casa. A volte è il modo con il quale una misteriosa bellezza ci raggiunge, ci sussurra, ora pensi in bianco e nero, ma rimani calmo, i colori ci sono, non lo vedi che ci sono? I colori, alla fine, ritornano. 

A volte la percezione – anche fuggevole – di un mondo segreto a colori, è tutto quel che ci serve.


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Poltrona

E’ sempre bene, soprattutto quando si ragiona dell’attualità politica, arrivare quanto prima al nucleo reale della faccenda. Dando spazio a quello che pensano i poeti, per esempio.
Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere. (Emily Dickinson)
Ora che un nuovo governo inizia la sua attività, è più che mai importante capire con che parole poter fare amicizia, in che narrazione dimorare. Certo, in politica si danno sempre molte narrazioni, diverse fin dall’inizio, per la tavolozza di parole che vengono adottate per descrivere la stessa cosa, la medesima azione, la identica situazione. E non è un caso. Difatti, ha ragione Emily, non esiste niente al mondo che non abbia tanto potere come la parola. La ragazza ha appuntato una verità assolutamente poetica ed insieme totalmente politica, non c’è che dire.
Un oggetto molto comodo ed anche molto evocato, di questi tempi.
Allora è vero, che ognuno si può avvoltolare nella narrazione che preferisce, in cui (per motivi psicologici, sociali, familiari, di amicizie, di percorsi culturali e spirituali) si sente più a suo agio. Però mi sento di dire, attenzione: questo non è senza limiti, senza confini. Non è tutto un relativismo, un omnia licet. Ci aiuta in questo proprio la poesia, con quel peso di rispetto che da sempre tributa alle parole. Che non possono essere tirate eccessivamente da una parte o dall’altra, senza che la forzatura appaia evidente (se appena, la si voglia vedere).
Un po’, mi ci fa pensare un bell’articolo che apparso ieri sul sito di Avvenire, dal titolo emblematico Si fa presto a dire poltrone. Essendo adombrata fin dal titolo, una questione di linguaggio (ovvero una questione molto più essenziale e viva di quelle in cui indugiamo per pigrizia, quando pensiamo di trattare di fatti) mi sono interessato.  E ne sono contento.
Infatti, mi pare che il toro venga finalmente preso per le corna. Scendendo fino all’uso del linguaggio, alla sua rimodulazione, si affronta la vera sostanza delle cose.

Così gli accordi tra i partiti, su cui si fonda l’esercizio della democrazia, vengono relegati a “inciuci”, i cambi di maggioranza diventano “golpe”, i seggi, gli scranni parlamentari e governativi sono “poltrone”. 

Rimando alla lettura dell’articolo, e intanto mi cimento in una minima considerazione politica. Potrà piacere o non piacere questo nuovo governo (io un po’ spero, per molti motivi), ma dovrebbe essere acclarato che ci si stia muovendo nella piena legittimità costituzionale, che nessuna strana manovra di palazzo abbia attentato alla volontà popolare. Costituzione alla mano (quella che tanti difendevano al sangue prima del referendum, per poi allegramente riporla tra i libri dello scaffale alto, quello che nessuno prende mai), il primo dato dovrebbe essere questo.
Leggo ad esempio (articolo 92) che,

Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri.

Esattamente quello che è successo ora, come era del resto accaduto all’atto di formazione del governo precedente. Tutto secondo Costituzione (le cui parole sono precise, e poeticamente fondanti).
Eppure da una certa parte (gli sconfitti? gli esclusi? ma secondo un normale gioco democratico), si sta tentando – in questi giorni, in queste ore – con sciagurata insistenza, una grossolana rimodulazione del vocabolario descrittivo, uno spostamento inopinato di narrazione. Che trovo assai irritante, proprio perché sleale verso il linguaggio – una cosa che ogni persona appassionata di poesia sente di dover difendere ed amare. 

Fateci caso, certi esponenti politici in questi giorni, mettono e metteranno sempre la parola (piuttosto impropria, per scrannipoltrone e la parola (semplicemente orribile) inciucio in ogni loro considerazione politica. L’intento è palese: generare irritazione e scontento. Ed è un brutto intento, secondo me. Tra l’altro, pochissimo poetico, anzi per nulla. Sia perché l’obiettivo della poesia, e di ogni agire poetico, è diametralmente opposto, essendo teso verso una modulazione di sentimento positivo e costruttivo (questa è la poesia, niente può cambiarla, grazie al cielo: tesa ed appesa ad una vibrazione positiva del mistero del reale). Sia perché sleale con quell’arma potentissima che sono le parole. Che vanno sempre usate con rispetto, pena la degradazione della qualità di pensiero e dunque di vita.
Vuol dire che non si può criticare questo governo (o altri governi)?
Certamente non vuol dire questo, anzi. Si può criticare ferocemente, aspramente, in modo sanguigno. Da destra, da sinistra, si può e probabilmente si deve. Sempre però – attenzione – tramite l’uso proprio delle parole. L’idea qui è di non riposare su luoghi comuni, tristi quanto (come dicevamo) scorretti. Insomma, se si vuole opporsi, si faccia per bene, lavorando di fino, limando le giuste parole, incontrando con la fatica del pensiero nuovo l’intersezione con i fatti, riscontrando e delineando scenari alternativi, costruendo narrazioni potenti e differenti. Sempre spiazzanti, mai adeguandosi al pensiero pigro, alle parole usate ed abusate. Abusare delle parole è un crimine, vuol dire far del male alle gente. 
Una narrazione politica deve essere un po’ come una buona poesia: deve rispettare le parole (il profondo mistero che esse veicolano), e deve sempre sorprendere, almeno un po’.
Altrimenti, ci possiamo davvero mettere in poltrona (quella vera), e farci un sano sonnellino. In attesa, speriamo bene, di tempi migliori.

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Confine

Ecco una parola che è tempo di aggiungere al mio personale vocabolario, questo progetto in lenta progressiva formazione. Confine. Il confine è interpretabile in una varietà infinita di modi, in tantissime situazioni. La prima cosa che mi viene in mente, è che il confine ha una fondamentale funzione positiva, di identificazione. Separando me stesso dal resto del mondo, io inizio a esistere, io esisto in quando entità separata dal resto del mondo, in prima istanza. Devo però comprendere questa separazione, devo ragionarci bene affinché non mi porti fuori strada, non mi faccia impantanare nella angosciosa illusione dell’autonomia, per citare una frase significativa di Don Giussani. 
In realtà è in una certa polarità dinamica del confine si gioca tutta la partita. Perché un confine ci vuole, è una buona cosa, e questo va detto. Vi immaginate una cellula senza membrana cellulare per esempio? Come farebbe semplicemente ad esistere? Dunque una separazione, che è in realtà una convocazione, una chiamata all’esistenza. Esisto in un luogo specifico, un luogo definito. Esisto perché non sono tutto il resto, sono qui. E il rischio sarebbe quello di rimanere a questo esisto, come fosse qualcosa di compiuto, di definitivo, di acclarato.
Non è così. Ed eccola la polarità dinamica, affascinantissima, di questa parola. Il confine è felicemente contraddittorio, perché esiste, in qualche misura, proprio per essere violato. Le barriere esistono per essere superate. Infrante. Io esisto perché mi impegno coscientemente in una violazione perpetua dei confini, in una continua disgragazione del sovranismo latente che un certo pensiero in bassa frequenza mi vorrebbe far adottare, come difesa preventiva, come atto implicito di calcolata ostilità verso il mondo. Invece, coltivare la fiducia è aprire i confini, forzarli, allargarli, vedere cosa accade nel passaggio (tentativamente regolato, certo) di merci e persone, anche e soprattutto attraverso i miei confini. 

Del resto, se rimango nei miei confini, se chiudo i porti all’arrivo del nuovo, dell’inatteso, all’inizio mi sento al sicuro. Di primo acchito, al primo impatto, mi può anche sembrare una gran buona idea, una ottima idea. Però alla fine mi stufo, mi annoio. Mi deprimo. Il sovranismo eccessivo di me stesso mi porta alla depressione. Capisco che sto remando contro il flusso dell’universo, così facendo. Sottraendomi da questa dinamica di scambio, mi sto impoverendo. Sono nato per contaminarmi, per ibridarmi, per rischiarmi nel confronto dialogico. Io esisto e acquisto sapore, consistenza, in quanto decido volontariamente per l’apertura dei mie porti, verso l’esterno.

Non è automatico, deve essere una mia decisione, riesaminata e rilanciata ogni istante. Devo inserirlo come punto centrale del mio personale contratto di governo (di me stesso). Niente in tutto questo è automatico: è questo il bello.

In me stesso ci sono infinite sollecitazioni a varcare i miei confini. Ce l’ho incorporate, in pratica. E’ fin troppo ovvio pensare all’ambito affettivo, ma vale la pena vederlo in questa luce. Sì, perché il rapporto d’amore è una violazione consensuale di confini, in fondo. Confini emotivi e confini fisici, anche. Nel rapporto sessuale, i confini stessi dei corpi vengono rinegoziati, rimodulati, almeno per un certo lasso di tempo. Lo dice benissimo il secondo capitolo di Genesi, e non si può dire con miglior poetica precisione, i due saranno una carne sola. Ovvero, qui i confini non sono nemmeno più negoziati, sono proprio aboliti, in un atto totale di fiducia, di abbandono. Rinuncio deliberatamente a mantenere un preciso controllo su come e quanto sono invaso, come o quanto invado: evado la logica sempre un po’ mercantile dello scambio, e mi abbandono. C’è un inizio di indicazione preziosa, anche: salendo in frequenza, progredendo nell’intensità del vivere, i confini si sfaldano, si stemperano. Svaniscono, idealmente. La gioia è vera quando è sconfinata, appunto.

In effetti, l’intero rapporto tra uomo e donna, che è frequentazione, assistenza mutua e convivenza, è affascinante anche solo a pensarlo, perché è una rinegoziazione quotidiana di confini, dei confini di due persone che accettano questa curiosa infrazione costante che a volte costa fatica, ma che viene accolta con la percezione luminosa di un mutuo vantaggio.

E’ una questione di sguardo, anche. Come guardo a me stesso e al resto. Si capisce: se mi percepisco unito al resto, alla fine tutto è mio, è parzialmente mio. Leggo come secondo alcuni studiosi il significato etimologico di Europa è ampio sguardo. Non so se è vero, ma è bellissimo. L’ampio sguardo mi rende disponibile verso un intreccio con entità diverse da me, in un interscambio delicato, difficile ma bello come un bacio. Il piccolo sguardo, al contrario, mi fa ricadere nel sovranismo spiccolo dove i veri governanti al potere sono i miei piccoli interessi, interessi poco interessanti alla fine. Anche se difficili da mettere in discussione, perché piuttosto refrattari al dibattito interno.

Lo sappiamo bene: è un combattimento, tenere le frontiere aperte. Perché la percezione del bene non è immediata, non è banale. La frontiera può essere varcata anche con cattive intenzioni. Aprendo la mia frontiera posso anche venire ferito, violato, umiliato, distrutto. Percepire che è un valore il rischio consapevole e accorto dell’apertura della frontiera, è materia di un mio personale lavoro.  Dire che l’altro è un bene per me implica – almeno come anelito – una volontà di riscatto dagli egoismi e dai particolarismi che tanto spesso mi incastrano. Ed è un lavoro anche questo (ma un bel lavoro).

Nessun sogno bellissimo ha dei confini, se ci fate caso.

Quindi il confine è una membrana che esiste per essere instancabilmente lacerata, come una ferita continuamente riaperta.

Quella ferita aperta, che ci mantiene vivi.


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Ragionamento

Siamo strani, siamo umani. Siamo universi sempre diversi. Un approccio logico-razionale tra due persone, comunque, porta rapidamente ad un attrito, una frizione, una consunzione, come due ingranaggi che girano a regime diverso e si volessero mettere in connessione. Tale approccio porta in realtà allo stesso stress delle strutture anche nel rapporto di una persona con sé stessa, come sappiamo. Siamo, mi pare, in una epoca di ipertrofia della logica, che viene applicata spesso fuori dal suo specifico campo d’azione. 
Sarà perché la logica è in un certo senso, falsamente rassicurante. Ci fa sentire padroni della situazione, ci fa sentire in pieno controllo. E’ una cosa che possiamo dominare, e sembra lì apposta, per fare chiarezza. Tipo, enucleare i termini di un problema, descriverne i contorni, per poi operare in maniera logica e razionale, verso una soluzione (o mitigazione del problema). Dividere, sezionare, scansionare, enucleare all’infinito, per comprendere, o per risolvere. 

E’ un abbaglio della ragione, fondamentalmente. Una sua hybris, abbastanza perniciosa. Nella sua ansia risolutiva, si scorda di tutto un mondo attorno, che però non può essere escluso senza alterare e avvelenare il contesto, il campo da gioco. Si scorda – per dire – dell’esistenza delle stelle. 

Ci siamo molto abituati a diffidare di tutto tranne che del ragionamento, che invece a volte è proprio l’ultima cosa alla quale ricorrere per affrontare i problemi. Avete presente quella sensazione che tanto più ragioniamo su una certa circostanza, tanto più ci impantaniamo?

Forse perché il ragionamento ci illude di tenere presente tutto, e ponderare tutto. Mentre in realtà ha fatto fuori dal suo stesso moto iniziale quella salutare pratica di affidamento ad una forza più grande e benevolente, che spesso – a parole – diciamo pure di considerare, o di onorare (chiamatela Dio, o Essere, o Vita, o in qualsiasi modo vi risuoni di più). O più semplicemente,  se volete, a qualcosa che non cade nella nostra orbita di analisi, al momento.

Alla base del ragionamento c’è infatti un assioma, un postulato, quello segretamente prometeico che dice “bene, ora vediamo come io posso risolvere questo problema”. Come tale esclude appunto un qualsiasi affidamento a qualcosa che sia esorbitante dalla mia cognizione razionale. Ed esclude dunque qualsiasi sorpresa.  Come dire, “poche chiacchiere, quando si arriva veramente ai problemi, me la devo vedere da solo”. 

Dunque in un certo senso, un approccio totalmente razionalistico ad un dato problema è prima di tutto e subito una mozione di sfiducia. 

Come appunta  Etty Hillesum nel suo Diario,

Dammi pace e fiducia. Fà che ogni mia giornata sia qualcosa di più che le mille preoccupazioni per la sopravvivenza quotidiana. E tutte le nostre ansie per il cibo, i vestiti, il freddo, la salute, non sono altrettante mozioni di sfiducia nei tuoi confronti, mio Dio? 

Certo non è facile, lasciarsi andare, provare ad affidarsi, mollare la presa (per me, ad esempio, è francamente difficilissimo). Ma non per questo dobbiamo desistere, anzi forse dobbiamo lavorare di più e con più allegra determinazione a lasciare, ad abbandonarci ad un flusso più grande e più saggio di noi. 
Certo, non ci riusciamo subito. 
Ma fare delle prove di abbandono, magari anche spezzare la catena perversa di ragionamenti, la proliferazione di pensieri, con qualche minuto di meditazione, o di lettura profonda? Perché no? O comunque, appena, sapere che a volte la soluzione non viene dai pensieri – per quanto la mente ci suggerisca di pensare più a fondo se non troviamo soluzione. Paradossalmente, una buona cosa potrebbe essere quella di accogliere la situazione presente, rinunciando – almeno per un po’ – alla idea, alla pretesa di cambiarla, o di cambiarci. Onorare la situazione presente, accettandola
Senza tanti ragionamenti. 

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Combattente

E’ abbastanza sorprendente capire che ci si può stupire ancora. In effetti è una regola della vita, forse la regola della vita. Quella che manda avanti tutto, comunque. Che ti permetti di respirare, in fondo. Che non ti permette mai di dire i giochi sono chiusi perché lo sai, lo sai che per dirlo devi comunque mentire, dire comunque una cosa che non è nell’ordine delle cose, non lo è affatto. E’ una variazione arbitraria della trama dell’Universo, dei suoi misteriosi campi di forza. Misteriosi, sì, ma nella loro struttura ultima, non tanto nel loro manifestarsi. Su questi, chiunque sia su questa nostra Terra già da un po’, inizia certamente a farsi le sue brave idee.
Così entrare nel nuovo disco di Fiorella Mannoia, Combattente, intanto, scompagina un po’ i miei pensieri pigri, quelli che mi vogliono insegnare a non cercare più lo stupore, che tanto non si trova. Beh, una bella favoletta, perché invece si trova, eccome.

Anche qui, in un disco che già immagini un po’ convenzionale. Beh sì, Fiorella ha cantato tantissime splendide canzoni, ma che vuoi ormai, alla sua età (terribile frasetta), dopo tanti successi…  Il bello di queste cose da finta persona matura è quando vengono spazzate via dalla realtà. Allora sì che uno inizia a prenderci gusto.
Perché già da Combattente, la prima canzone che poi dà in maniera molto discreta ma efficace, la cifra interpretativa di tutto il lavoro (poi si capisce, è un concept album appena un po’ nascosto, ma è evidente), capisci che c’è qualcosa che non torna. Accidenti. Qui rischi di stupirti di nuovo. 

Dopo un paio di ascolti la melodia mi prende, e insieme le parole, perché girano molto bene insieme. E mi sembra che dica qualcosa in modo nuovo, o fresco, qualcosa che mi fa bene risentire, riascoltare.
È una regola che vale in tutto l’universo

Chi non lotta per qualcosa ha già comunque perso

E anche se il mondo può far male
Non ho mai smesso di lottare

Che poi la cosa si fa più radicale. Da vale a cambia, il passaggio non è di poco conto.
È una regola che cambia tutto l’universo

Perché chi lotta per qualcosa non sarà mai perso

Mi risuona. In fondo è l’atteggiamento con il quale affrontiamo le circostanze, le sfide, che le cambia. Ne cambia la stoffa, la qualità, la consistenza. Non so dire come esattamente questo avvenga, ma le cambia, comunque. E’ esperienza comune, è esperienza di tutti. Anche una canzone allora ha valore, ha un valore forte, puntuale. Perché ti conduce i pensieri in questa zona. Li fa uscire dalla regione di circolazione improduttiva, dalla stagnazione. E li muove delicatamente in un una zona lavorabile. 
Capire che il mio atteggiamento influisce sul modo in cui faccio esperienza del mondo, è una nozione preziosa. Qualcosa che devo riprendere e ripercorrere spesso. 
Ed è appena l’inizio. E’ bello che nelle altre canzoni ritrovi comunque il tema accennato da Combattente che ritorna, lo trovi sempre sottotraccia, e ogni tanto riaffiora esplicitamente, a formare una bella coesione dell’esperienza di ascolto. Sarà che sono irrimediabilmente malato dall’aver appassionatamente vissuto l’epoca dei concept album, quelli che andavano negli anni settanta, chissà. Di fatto, l’ascolto di una serie di canzoni – pur belle – che trattano argomenti tra i più disparati, riunite in un album e proposte tutte assieme, mi ha sempre lasciato addosso una sensazione un po’ di non compimento. 
Esatto. Con questo album il pericolo è scongiurato. Hai la sensazione piacevole di rimanere in tema, anzi, di approfondirlo guardandolo da una serie di posizioni diverse, declinandolo in una varietà di situazioni. La cosa acquista gusto, ed interesse.
Al mio orecchio, in ogni canzone c’è almeno un friccico di nuovo. Nelle parole, nella melodia o nell’arrangiamento. C’è sempre un po’ il gusto del non ascoltato, e un accento di verità, che supera l’impressione di mestiere che invece trovo in tanta musica moderna (sto invecchiando, me ne rendo conto, e faccio probabilmente discorsi di chi sta invecchiando… abbiate pazienza, voi che leggete).
Ma la vera chicca del disco, quella che mi fa sobbalzare i pensieri, arruffarli  e scompigliarli per evidente abbondanza di bellezza,  è lì, verso il centro, quasi nascosta. Del resto, anche come inizia, in maniera tutt’altro che roboante, anzi. Con una melodia appena accennata, la voce di Fiorella che quasi indulge sul parlato. E solo dopo un po’ si aggancia alla melodia, che scopro poi efficace, persuasiva. E splendidamente agganciata alle parole. Quelle parole che (una volta tanto) appaiono davvero e compiutamente poetiche. Cioè capaci di sorprenderti in un epifania che – per un istante – spazza via i pensieri ricircolanti e squarcia un velo oltre il quale rimani soltanto in silenzio, in ammirato silenzio. 
Tale è il potere della musica, e delle parole, quando si trova chi lo sappia far sprigionare, far rifulgere.

Sto parlando de I pensieri di zo, di Fabrizio Moro (fino ad ora per me, perfetto sconosciuto, tanto per richiamare la canzone dell’album che era anche colonna sonora dell’onomimo film).  E visto che pare che su Youtube la canzone non sia facilmente reperibile (immagino, per comprensibili motivi di copyright) qui mi debbo accontentare di riportare il testo, che prendo dal sito di Fiorella.
Anche se, diciamolo: accontentarsi, è un po’ far torto alla canzone, perché ci arriva addosso con un testo assolutamente favoloso. Certo, rende al massimo con la musica, dunque se non l’avete fatto, vi consiglio di cercare di ascoltarla. Vale la pena, ve ne accorgerete. 
Sai quando senti le parole che escono deliziosamente dal sentiero del già detto, che – apparentemente inoffensive – si accostano, si agganciano tra loro in modo da evocarti suggestioni, brandelli di situazioni, persone o momenti di persone, echi di giorni mezzo ricordati (per dirla con l’ottimo Roger).

Ma che belle le sere d’estate
un poì prima di uscire
quando senti che esisti davvero
e non ti sai più gestire

E il cuore beve queste parole e scalpita, riconosce la bellezza, come rispondenza misteriosa al vero delle cose, e se ne nutre. Parrà sembra esagerato per una canzone, ma a pensarci non lo è poi tanto. Specie se siamo convinti che il bello possa prendere dimore dappertutto, sia assolutamente trasversale e non inquadrabile in nessuno schema. Sia sempre un po’ oltre i nostri ragionamenti (compresi quelli che dicono che è oltre, naturalmente). In altre parole, sia ultimamente irriducibile a qualsiasi sua concettualizzazione. 
Io penso così, almeno.
E allora lascio il posto alla possibilità di emozionarmi, quando ascolto I pensieri di zo.

Mi viene da pensare, è come un contraltare più carico di letizia della pur bellissima canzone di Vasco (guarda un po’ stupendamente interpretata dalla Mannoia) che è Sally. E’ di più, è come Sally rivoltata come un guanto da una prospettiva più gioiosa,  ancora possibile, sempre possibile.
Sentire di esistere davvero. Forse qui è racchiuso il senso del tema. Quell’essere combattente non è fine a se stesso, o ad una ribellione sterile, stigmatizzata, già vista, già percorsa. E’ una rivoluzione inedita che ancora ci aspetta, quella che ci porta ad esistere davvero. 

Scriveva Holderlin (citato nel saggio Poesia e Rivoluzione, di Marco Guzzi), già nel 1797,  “Io credo in una rivoluzione futura delle concezioni e delle modalità di rappresentazione, che farà impallidire tutto ciò che finora è stato”.

In effetti, ogni bellezza parla di questo, e niente che ci interessi davvero parla di qualcosa meno di questo. Una rivoluzione tutta da fare, sempre e di nuovo.

Come ormai è chiaro, l’unico motivo rimasto per sentirsi ed essere realmente combattenti.

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Dialogo

Tu sei un bene per me, e questa frase – che è stata quest’estate addirittura la nota dominante di una manifestazione frequentata e ricca come il Meeting di Rimini – ad una prima passata, ad una analisi frettolosa, può perfino apparire scontata

Eppure, è una frase che si apre ad una perpetua rivoluzione, se appena uno prova a sentirla fino in fondo, ad esplorarne le diecimila applicazioni pratiche. Se uno prova – con tutte le cadute e le smagliature del caso – a viverla. A comprendere vivendo, cosa cambia veramente del suo modo di intendere e rappresentarsi il reale. Vivendo, voglio dire, e non ragionandoci elaborando speculazioni teoriche. Nemmeno scrivendone in un blog, per intenderci: se infatti qui dico, è appena per trattenere i fili e le impressioni di una cosa che si è srotolata nel reale.

Dialogare è crescere


Perché se è vero (ammesso e non concesso, vogliamo dire…?) che il mondo è uno, è vero che cambia radicalmente in funzione dei nostri modelli mentali.
Tu sei un bene per me apre ad una serie di conseguenze che mi sorprendono, all’atto pratico.  Nel senso letterale, proprio: che prevale in me il sentimento di sorpresa. Non tanto a pensarle (corrono piuttosto il rischio, come sappiamo, di essere addormentate da un buonismo tanto accogliente quanto tragicamente inoffensivo): mi sorprendono a viverle, a vederle accadere. Come mi è accaduto ieri sera, al Nuovo Teatro Orione, per l’incontro sulla riforma costituzionale, organizzato dal Centro Culturale Roma.

Un momento dell’incontro al Nuovo Teatro Orione

Intanto. Ospiti sicuramente di rango, come  Stelio Mangiameli, professore ordinario presso l’Università degli studi di Teramo Cattedra di Diritto costituzionale e direttore dell’Istituto di Studi sui Sistemi Regionali Federali e sulle Autonomie “Massimo Severo Giannini” Consiglio Nazionale delle Ricerche (ISSiRFA CNR). Ricercatore di ruolo di Istituzioni di Diritto Pubblico, presso la Facoltà di Economia e Commercio dell’Università degli studi di Catania.

O come Luciano Violante, professore ordinario di istituzioni di diritto e Procedura penale e Presidente emerito della camera dei Deputati. Giudice istruttore a Torino fino al 1977, nel marzo 2013 ha fatto parte del gruppo di lavoro finalizzato alla presentazione di proposte programmatiche in materia istituzionale, economico-sociale ed europea.

L’incontro, che è stato intelligentemente e piacevolmente moderato dal giornalista Paolo Cremonesi, è stata per me questa  occasione di sorpresa. 

Ci sono andato per orientarmi sul referendum, innanzitutto. Perché è vero, se dico che non ho deciso, la gente mi guarda come per dire ah hai deciso ma non vuoi dirmelo. E invece no, non ho deciso. Vorrei prendere questa occasione come una opportunità di dialogo e di confronto, per capire cosa muove le persone ad una posizione o all’altra. Non mi interessa saltare di corsa a bordo di una qualche posizione prefabbricata. Stavolta no, mela voglio gustare tutta, questa possibilità. Mi piace cercare di capire, comprendere, relazionarmi.

Un collega di lavoro pochi giorni fa mi ha confessato, forse con qualche non voluta supponenza, per me è così evidente, io ci ho messo appena un attimo a capire da che parte stare. Ecco, io voglio proprio fare il contrario, invece. Voglio metterci del tempo, capire, comprendere le ragione delle parti. Questo deve essere il mio referendum, una mia occasione da non perdere. Per stringere legami, conoscere, esplorare. Anche una volta deciso, capire e frequentare le ragioni opposte.

Finalmente capisco meglio il volantino diffuso da Comunione e Liberazione, Per recuperare il senso di vivere insieme.  Eh sì che l’avevo un po’ sottovalutato, all’inizio. Come se dicesse belle cose ma poco reali, nel complesso.

E invece adesso, a valle di quello che mi sembra possa generare, ne apprezzo la peculiarità (e capisco la superficialità della mia prima frettolosa valutazione). Anzi, la salutare unicità. Perché la bellezza di quanto accade seguendo questa posizione, è veramente uno spettacolo. La posizione poi è semplice: capire la grande opportunità che è questa occasione, una opportunità di relazione con l’altro, prima che una corsa a capire da che parte “bisogna” stare.

E ieri per me è stato come assistere ad una piccola festa di relazione, se così posso dire. Due persone intelligenti che si sono confrontate in modo rispettoso, veramente rispettoso dell’altro. Due identità che non si sono affatto nascoste o diluite (Violante è per il sì, Cremonesi per il no, dichiaratamente): tutt’altro, direi. Non si sono mimetizzate, ma hanno intrecciato le loro ragioni nel pieno rispetto dell’altro.

Un rispetto non artefatto, o simulato. Un rispetto che si respirava.

E mi sono finalmente reso conto di come sia generativa la posizione del volantino, proprio di quel volantino che avevo accolto con una certa sufficienza. Perché l’incontro di ieri nasce proprio da un lavoro appassionato sui temi del volantino, da una dichiarata ispirazione a quest’ultimo.

Ecco, la fecondità di tale approccio, ieri mi ha conquistato, intenerito. Rallegrato, ultimamente.

Ed è servito, anche sotto il lato della scelta, perché ho iniziato ad irrorare di ragioni una mia possibile scelta, ho iniziato ad orientarmi verso una posizione. Forse non serve nemmeno che la dica, perché poi non è questo il punto.

Il punto è non ricadere (ancora) nello stato mentale che divide, contrappone, distingue. Separa buoni da cattivi. Comprende solo attraverso l’esclusione, la divisione. Si coagula nella ricerca di un nemico (Renzi come Berlusconi, in questa dinamica, non fa differenza), o di uno schieramento entro il quale trovare dimora e una sicurezza di giudizio che evita il vero confronto con l’altro.

Il punto è proprio questo, di non perdere questa opportunità di crescita, di dialogo. 

“È solo la certezza del significato ultimo che fa sentire, come fossimo un detector, la più lontana limatura di verità che sta nelle tasche di ognuno. E non è necessario, per essere amico di un altro, che lui scopra che quello che dici tu è vero e venga con te. Non è necessario, vado io con lui, per quel tanto di limatura di vero che ha…”

Rileggevo questa frase di Luigi Giussani (contenuta in La forma della testimonianza, di J. Carron) e mi invadeva la forte evidenza di come questo si adattasse, si ritagliasse proprio sulle forme dell’incontro di ieri.

Quell’incontro che mi ha fatto capire che sì, con tutte le mancanze e i difetti e le intolleranze che posso avere di carattere, di temperamento, io voglio stare qui.

Posso votare una cosa o l’altra, ma dentro questa strada, questo orizzonte.

Dove ha senso – ed è anzi esaltata – la mia personale scelta, anche per il referendum costituzionale.

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Corpo

La definizione di un sistema di riferimento è qualcosa di più di un mero artificio tecnico, di una decisione per esperti. E’ qualcosa che informa profondamente il reale, ne definisce ed istituisce una modalità descrittiva, e perciò stesso percettiva.

La scienza nella sua incarnazione più cartesiana si rende forte della sua capacità di astrazione ed interviene nel mondo creato attraverso un principio razionale di ordine. Questo principio è ben esemplificato nella definizione stessa del sistema di assi cartesiani – concetto che è ben noto a qualsiasi giovane studente – con il quale impariamo a prendere profonda familiarità nel tempo, a interpretare e quasi plasmare la realtà.
E’ uno strumento utilissimo, poiché ci permette di creare un ordine spaziale dentro la realtà, in modo da renderla quantificabile (la posizione ogni cosa è definita dalle sue coordinate nello spazio cartesiano) e quindi interpretabile. Al tempo stesso, però, è qualcosa che però è entrata così radicalmente nella nostra modalità percettiva che rischia di farci perdere di vista la sua reale natura, il fatto che è appena un modello.

Un modello del reale non è il reale. Qui spesso naufraghiamo, perdiamo i tratti del problema, semplifichiamo in maniera probabilmente illegittima. 
Perché la scienza, a volte, semplifica ed astrae in modo molto radicale. E ci allontaniamo dal reale, rientrando in una specifica modalità percettiva, a torto scambiata come percezione totale del tutto. Così ne annulliamo la sua portata perpetuamente rivoluzionaria, la sua carica esplosiva di mistero.
Il tutto è sempre molto più complesso di quanto vogliamo pensare di lui, ci sfugge da ogni lato, è irriducibile ad ogni schema di pensiero. Gli assi cartesiani ci portano a pensare ad una geometria imperturbabile rispetto a quanto avviene al suo interno, ad un sistema rigido e inerte, descrittivamente utile, emotivamente freddo. 



Il bello è che è una percezione errata. Lo dice, ormai da tempo, perfino la scienza stessa: lo spazio è curvo, lo spazio è incurvato dagli oggetti al suo interno. Lo spazio è tutto tranne che esteso all’infinito e piatto. Lo spazio partecipa irresistibilmente di quanto avviene al suo interno.

Le cose sono curve, peraltro. La nostra esperienza, fino dalla nascita, si nutre di superfici curve. Descriverle nel sistema cartesiano di assi ortogonali è una gran fatica, è necessario ricorrere ad una gran quantità di informazioni. E’ un sistema inadatto al reale, è adatto piuttosto ad una sua arbitraria astrazione. Ritengo che per un ente biologico, la curva sia la ancora nozione più evidente, più elementare.
La curva parla del corpo (ecco la parola di questa volta), recupera la corporeità che una malintesa idea di razionalità scientifica ci ha sottratto, lasciandoci più freddi e più poveri. Il corpo è la struttura fondamentale, perché è l’ambiente percettivo che ci accompagna nel viaggio sulla Terra. Posso astrarmi dal corpo fino ad un certo punto, poi devo comunque ritornare a questo.


Il corpo. Le sue proporzioni, le dimensioni. Dovremmo capire ed abitare una geometria del corpo, molto più di quanto facciamo di solito. Riabituarci ad un pensiero complesso, proprio come quello del corpo. Alieno da semplici formalizzazioni. Con il corpo percepisco, con il corpo capisco

Il corpo umano è la Cattedrale più grande che Dio abbia mai costruito (Christiaan Barnard, Curtis Bill Pepper, Una vita)

Verrebbe da dire,  anzi, da utilizzare il corpo come sistema geometrico fondamentale. Il corpo umano è una vera cattedrale, che informa profondamente la modalità con cui percepiamo, che definisce un dentro e un fuori, un me stesso e un altro, un qui ed un altrove. Dal punto di vista più specifico, una qualsiasi tecnica di semplificazione dei dati, mostrerebbe chiaramente come un corpo non viene descritto bene in un sistema di assi ortogonali. Vive un’altra realtà, dove l’astrazione non regna incontrastata, come nei nostri pensieri, così spesso in fuga rispetto alla realtà, al qui ed ora.

Non si tratta di far guerra alla geometria, non si tratta nemmeno di indugiare troppo sul fatto che la nostra mente è ancora governata ed informata da modelli scientifici ottocenteschi, è culturalmente ed invariabilmente pre-relativistica e pre-quantistica. Tutto vero, ma non coglie il punto.
Si tratta di ritornare ad una geometria del corpo, complessa ed articolata. Ad un pensiero del corpo, che dimora nell’ascolto delle sensazioni, e non nelle teorizzazioni astratte. E’ una rivoluzione ancora tutta da compiere. 
Da compiere, ma non da inventare, probabilmente. Ragionando intorno alla dignità del corpo, ricercandone una sponda di sicurezza ultima, incorruttibile, incontro quel senso del Corpo, per noi quasi imbarazzante, che è quello che secondo la nostra spiritualità, è il luogo che ha scelto l’Essere per manifestarsi. 
Quella stessa croce che una parte della nostra sensibilità avverte a volte come antica, è invece una cosa perpetuamente modernissima, perché unisce, sovrappone ad un sistema di assi cartesiani una dinamica ed estetica del corpo, perché fonde la razionalità geometrica alla esistenzialità e complessità biologica, alla passione (e Passione) umanissima e trascendente, e al senso profondo dell’Essere.
E al suo innegabile carico di mistero.

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