Blog di Marco Castellani

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Affetto

Scrive Luigi Giussani in Generare tracce nella storia del mondo, che è un affectus, come quello che aveva Simone, così puramente è profondamente affezionato a Gesù, ciò che porta lontano la capacità di giudicare adeguatamente la realtà.

Ebbene, quanto sia dirompente questa frase mi arriva solo dopo un po’ di ragionamento. Sì, mi trovo ordinariamente dentro questa convinzione, che il giudizio sia obiettivo solo se mi riesco ad astrarre dalla contingenza, se riesco a spegnere le emozioni e gli affetti nell’atto della valutazione, se mi sento sufficientemente lontano da tutto, in equilibrio su un punto (che immagino) di stabilità. Come un pianeta svincolato da ogni orbita, da ogni pur vago moto di attrazione: nulla che mi attiri in modo particolare, tutto è in equilibrio. In questo framework, ogni cosa che cattura la mia attenzione, che muove il mio animo, può rappresentare una distrazione, una alterazione indebita di questo (alquanto fantomatico) equilibrio valutativo.

La frase di Giussani (che riguarda cielo e terra, l’eterno e il contingente) giunge a scardinare questo terribile pregiudizio, questo desiderio malato di pulizia e di imparzialità. Malato proprio perché irrealizzabile, semplicemente e puramente disumano.

Volendo rimanere sulla fisica, senza approfondire l’aggancio metafisico (ché ci vorrebbe ben altro spessore di scrittura) cono cose che ci indica anche la scienza, a voler davvero ascoltare (il fatto è che non ci piace troppo ascoltare, nemmeno cosa dice la scienza, quanto va contro il nostro assetto mentale di default). Abbiamo viaggiato tanto, da quando Galileo ha aperto la porta all’analisi scientifica del mondo, a questa potentissima possibilità di ordinare il mondo fisico secondo dei modelli, capaci perfino di fare predizioni su eventi futuri.

Abbiamo viaggiato tanto, abbiamo traversato mondi diversi, nei secoli. Mondi che assomigliavano un po’ a come ci sentivamo, alla coscienza che avevamo maturato nel viaggio, più o meno fin lì. Abbiamo attraversato territori in cui, un po’ gasati dalle cose che stavamo scoprendo, ci siamo sentiti in potere di comprendere l’intera evoluzione delle cose. E’ stato anche detto che sarebbe bastato avere più informazioni (posizione e moti delle particelle, per essere precisissimi) per predire le cose, fino al limite estremo.

Questo modello è superato, siamo andati ben avanti nel viaggio. Scoprendo nuovi territori. Ora sappiamo che aggregare informazioni su informazioni non sempre ci aiuta, nella comprensione. La realtà non è conoscibile con precisione infinita, ce lo dice anche la fisica quantistica, che anzi fissa dei limiti in modo che può anche apparire implacabile. Oltre un certo confine, il dato semplicemente non ha senso, il famoso principio di indeterminazione è sempre da riprendere, come spunto importante per riflettere.

Il fatto che l’accumulo di pura informazione non aiuti la comprensione, lo avverto già come individuo, come persona, prima ancora che nel lavoro di scienziato. Prendiamo una cosa molto attuale, il bombardamento di informazioni in questa pandemia, ad esempio. Ebbene, l’esposizione esasperata alle statistiche di contagio, guariti e deceduti, erogata con assidua determinazione da ogni medium, non faceva che generare in me rinnovata confusione, minor possibilità di capire ed entrare realmente negli eventi. Se sono onesto con me stesso, devo ammettere che – almeno per me – l’accumulo di dati equivale ad una perdita di reale conoscenza, che tale bombardamento insistente può essere usato (consciamente o no) per destabilizzare, spaventare, ultimamente per generare un senso di impotenza. La gran mole di dati spinti nella coscienza, senza che vengano riordinati ed allineati da una ipotesi di senso, genera questo senso strano di confusione, di progressiva opacità.

Perché manca qualcosa, appunto. Manca quello che Giussani chiama affectus, alla fine. E’ questo, è questo il fatto. E se vogliamo rimettere in gioco la fisica quantistica, possiamo farlo anche qui, e senza forzare nulla. Ed anzi, qui abbiamo una evidenza rigorosissima, confermata proprio da quella scienza che a volte giudichiamo più impersonale ed arida di quanto sia veramente. C’è una lezione semplice e potente, che possiamo derivare da tale ambito. Non è infatti possibile conoscere qualcosa senza esserne parte, così potrei tradurre, senza troppo tradire, l’evidenza che ci giunge ormai molto chiara, dalle ricerche. Conoscere un sistema equivale a modificarlo, sia pure in piccola parte.

Fermiamoci un attimo su questo. Sì fermiamoci, perché questo noi, oso dirlo, non lo abbiamo ancora capito. Non lo abbiamo capito proprio per nulla. Per una sorte di fenomeno inerziale, noi gravitiamo ancora intorno al positivismo ottocentesco, e gli ultimi (ma anche penultimi) risultati della scienza dobbiamo ancora digerirli. Magari li sappiamo, nella testa, ma non sono ancora scesi nel cuore. La testa è veloce ad impadronirsi di un concetto, ma poi perché giunga nella vita reale, nella pratica di vita reale e concreta, ci vuole molto tempo. Lo diceva benissimo Gaber, che cito spesso in casi come questo, se potessi mangiare un’idea, avrei fatto la mia rivoluzione (idee giuste o sbagliate, se non arrivano al cuore, non funzionano). Ora ed ancora, insomma, ci tocca questo lavoro, di far scendere le idee e le convinzioni, dalla mente verso il cuore, dal pensiero alla carne.

Come questa cosa qui. Non esiste la conoscenza impersonale, oggettiva, di un fenomeno. In realtà, non è mai esistita. Ci piaccia o meno, faccia o meno a botte con quello che crediamo di credere, ma è così. La conoscenza implica sempre la partecipazione, in qualche grado. Per una persona, ma direi per un essere vivente, è una partecipazione essenzialmente affettiva, la possibilità della conoscenza.

Senza questo affetto, pensiamo di comprendere, valutare, giudicare, ma siamo semplicemente dentro una specie di simulazione mentale, non siamo vicini all’oggetto che dovremmo conoscere, siamo confinati su un universo parallelo, inconsapevolmente schiavi dei nostri preconcetti.

E’ una bomba, quello che dovremmo confessarci ora, senza più nasconderci dietro ad improbabili oggettività. Una esplosione universale, davanti alla quale siamo spesso totalmente inadeguati, ovvio. Ma non per questo dobbiamo impedirci di dircelo: una conoscenza adeguata della realtà viene soltanto da un amore ad essa. Davvero, la ragione conosce nella misura in cui essa ama.

Qualcosa di così deflagrante, che in fondo l’abbiamo sempre saputo. Le grandi tradizioni ce lo hanno sempre insegnato. Ma forse ora è il momento giusto, per ritrovare come nostro, quello che ci è sempre appartenuto.

Con un rinnovato affetto, ovviamente.

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Allineamenti

In questa confusa ed asfissiante profusione di interventi, opinioni e pareri su diffusioni di virus e strategie per fronteggiarle (in senso fisico, psicologico, spirituale e quant’altro), leggo con quel residuo ancora vivo di interesse un pezzo di Luca Cimichella sul blog Darsi Pace. Il post ha un titolo piuttosto significativo, “Dal deserto globale. Uno sguardo”. Ed è uno sguardo che intanto apre ad una domanda che – anche in mezzo a questo fiume di parole – fa bene ascoltare, fa bene rilanciare.
La domanda che però quasi nessuno sembra farsi è: c’è soltanto questo? Siamo sicuri che un evento di questo tipo, assolutamente unico nella storia degli ultimi decenni, non abbia a celare un senso più vasto e complesso, non riducibile alle sue conseguenze immediatamente negative?
E dovrei dire grazie per questo bel pezzo (che vi invito a leggere), questo realismo alla fine rallegra, lo dico davvero. Rallegra esageratamente di più dei tanti slogan e appelli e tanti “andrà bene” di cui si percepisce lo sforzo volontaristico (e dunque, triste) anche lontano mille miglia. Quello sforzo volontaristico che un post su “Jung Italia” individuava ed etichettava senza mezzi termini, appena pochi giorni fa
Infantili e vuoti slogan come “#AndràTuttoBene; Ne usciremo più forti di prima (forse più compromessi sicuramente); siamo forti siamo italiani!”, ed altre rassicurazioni che potevano andar bene se avessimo avuto 6 anni, oggi più che mai sono deleterie per la metanoia e la trasformazione che ci spetta (o che ci travolgerà crudelmente più di ora) a livello individuale e collettivo.
Ecco la cosa che avrei voluto dire, avrei voluto esprimere se non temessi di essere troppo divergente (poco allineato) rispetto al sentire comune. O almeno, a quello che traspare nell’esperienza social che ora è diventata così preponderante nelle nostre giornate, tra l’altro. Ora, che non abbiamo possibilità immediata di contatto diretto. Ecco, viene detto che non soltanto queste affermazioni non sono utili, ma addirittura sono pericolose. Perché smorzano la necessaria trasformazione che può avvenire in noi, se non tamponiamo immediatamente questo disagio. Se ci abituiamo (silenziando la nostra voglia di dare e darci consigli) a guardare, senza giudicare.
Arrivo al punto. In questi riferimenti, questi allineamenti, presi qui come esempio, come spunto, trovo che vi sia come una prospettiva, un punto di fuga, la possibilità di cogliere l’occasione, la scommessa così pazza che in questa fatica e anche dolore ci sia nascosta anche, appunto, un’occasione.

Trovare significativi certi allineamenti, è anche questione di come si guarda…
Al proposito, già Julian Carron parla di questa “occasione”, in un intervento sul Corriere della Sera di alcuni giorni fa. Una occasione, aggiunge in chiusura, “da non perdere”.

Questo potrebbe essere, dopotutto, il lavoro. Il lavoro da portare avanti, senza fretta e senza perfezionismi, in questo tempo così particolare. Almeno per chi non è direttamente impegnato in un reparto rianimazione o in una corsia d’ospedale, o che si trovi davanti un destino particolarmente sfidante. In ogni caso, accogliere la propria condizione (o quanto meno, lavorare verso questo obiettivo), che poi è un monito di sempre, qui diventa particolarmente urgente, stringente. In parole povere (e tremendamente sfidanti), dire sì a ciò che sta accadendo. Allinearsi con delle forze cosmiche, se ci piace dire così, smettendo di esercitare febbrilmente questa nostra sterile opposizione, che piace tanto ad una parte di noi.
E il mio commento potrebbe, o forse anche dovrebbe, finire qui (quindi potete smettere di leggere, se volete).

Tuttavia da astrofisico, mi interessa in particolare l’accenno “cosmico” che viene svolto nel già citato post di Luca, con il preciso riferimento all’allineamento dei pianeti e all’asteroide in transito vicino alla Terra. Molto interessante. E che muove – allinea e disallinea – molte parti in me. Alla prima lettura, devo ammettere, una di quelle parti è saltata sù, stracciandosi le vesti ed esclamando (metaforicamente) “ma che c’entra questo? Cadiamo nell’astrologia, ancora, nel ventunesimo secolo!”.
Così ho preso tempo, quella parte l’ho lasciata gridare e sfogarsi e snocciolare positivismo spicciolo per un poco e anche ragionevolezza scientifica un tanto al chilo e – a vesti ormai stracciate (tanto non posso uscire di casa, pazienza, penserò dopo a rendermi presentabile) – ci sono tornato sopra, con il desiderio, appena, di allargare lo sguardo. Quando i pensieri si fanno guerra, meglio aspettare. Attendere un nuovo allineamento, una prossima armonia. Lasciando entrare aria, gustando sottilmente un delicato scompaginamento dei miei luoghi comuni.
Da un po’ di tempo, infatti, ho preso il gusto di pensare che ci può essere qualcosa di interessante nel lasciare aperti dei varchi nel mio universo spesso troppo solido, quasi marmoreo, assai pericolosamente stazionario, del mio modo “usuale” di vedere le cose. Del resto il mio modo di vedere le cose è (opinione mia) spesso saturo di “buon senso”, ma anche terribilmente poco eccitante: spesse volte, parecchio noioso.
E ho provato a ragionare, passando oltre la mia emozione istintiva di rigetto. Ho provato a far dialogare parti di me stesso, che avevano preso direzioni opposte, senza nemmeno salutarsi. Chissà, però è interessante, comunque, almeno come una ipotesi di lavoro. Intendo, che il cosmo, l’universo, “risponda” a quello che accade nella storia umana. L’idea, ecco, alla fine mi piace. Ha qualcosa dentro che, se mi calmo, trovo attraente. Certo, scientificamente la cosa è facilmente confutabile, almeno con le conoscenze scientifiche di oggi.
Molti miei illustri colleghi, riderebbero. Nessuna delle quattro forze che governano tutto il mondo fisico – per come lo capiamo oggi, e gli esperimenti ci dicono che lo capiamo piuttosto bene – può giustificare il fatto che un allineamento di pianeti possa avere una influenza che non sia appena men che impercettibile, in quel che accade sulla Terra. I conti, volendo, si fan presto a fare (tranquilli, non li faccio qui).

Ma diciamolo finalmente: il fatto che fisicamente non si spiega, beh non spiega ancora nulla.

Ne parlavamo proprio qualche sera fa, a tavola con la mia figlia minore. Anche lei mi diceva, “Beh papà, ma non tutto quello che accade è spiegabile con la fisica”. Io inizialmente, istintivamente ho borbottato, “beh, tutto quello che accade nel mondo fisico, però sì.” Poi mi sono corretto, “anzi no. Se credo ai miracoli, devo già dire di no”.

Quando sono credente (scrivo quando poiché trattasi, in certo modo, di una cosa dinamica), cerco di credere ai miracoli, ovvero provo a mantenere aperta la finestra della possibilità ad interventi del Mistero, che esulano dal mio schema delle cose (ma, Signore aumenta la mia piccolissima fede, sempre). Credo all’intervento possibile del divino, in lieve lieta leggiadra spericolata scanzonata violazione dei “comandamenti” fisici e matematici.
Ma se ammetto che il sistema regolatorio della fisica (così roccioso, in apparenza) in linea di principio possa essere violato, ho aperto una porta che poi non posso permettermi di chiudere a mio piacimento. Ho ammesso che possono succedere cose – nel mondo fisico – che la fisica non spiega. E non spiegherà mai (non è nemmeno roba di fisica quantistica, oggi tirata per la giacchetta ogni volta che non si capisce qualcosa). Cioè, la cosa sarebbe questa, alla fine: la fisica modella quel che accade nel mondo. Ma non tutto quel che è accade nel “mondo fisico” è spiegato dalla fisica.

Ripeto, non è così scontato. Molti molti miei colleghi, più bravi e intelligenti di me, non sarebbero d’accordo.
Ma io insisto, su questa linea.
Del resto, se a Natale acconsento a che i pastori furono guidati verso la grotta del Bambinello da segnali celesti (stella cometa, leggasi), poi come faccio a dimenticarmelo un attimo dopo, diciamo già prima di Pasqua?
Ecco il punto di quello che volevo dire. Mi pare che qui ci manchino dei modelli, esattamente. O io comunque, non li ho ancora assimilati, se ci sono.
Qui ci vuole un modello che ritrovi una congiunzione tra cielo e terra, per cui quel che avviene da una parte influenza quel che accade dall’altra, senza per questo cadere nella superstizione o nella “magia”. Che riprenda molta sapienza trattenuta nell’antica astrologia (del resto prima non era separata dall’astronomia propriamente detta), in una luce nuova.
Posso sbagliarmi, ma ho la sensazione che sia un’avventura ancora molto da percorrere.
Sarebbe bello dire, giunti a questo punto, che stiamo provando a farlo in AltraScienza, sarebbe bello ma penso un po’ troppo da spacconi, da esagerati, vista l’enormità del compito. Diciamo piuttosto, che proviamo a sintonizzarci su questa esigenza, a capire e vedere chi con più autorità e autorevolezza di noi, porta avanti in modo convincente questa istanza.
A volte puntare le antenne, è tutto ciò che serve. Ricercare un allineamento di forze, assecondare una strada che ci vien incontro, lasciarsi andare al fluire pacato delle stelle, delle galassie.
Soprattutto, direi, adesso. Soprattutto adesso.

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Colori

Viviamo in un’epoca ancora ammalata di razionalismo, e di conseguenza siamo ben poco abituati, ai colori. Intendo, non ci facciamo veramente caso, non ne percepiamo la portata (tranquillamente) rivoluzionaria.

Nel senso che i colori hanno qualcosa a che vedere con il guardare le cose, e questo è ovvio. Ma non semplicemente con il vederle, ma con l’osservazione attenta che percepisce la poliedricità, la complessità di quel che si guarda, la sua irriducibilità ad un pensiero prefissato, ad un pensiero praticamente già pensato, che volesse archiviare frettolosamente l’atto dell’osservazione. Ecco, una modalità di osservazione così è perpetuamente rivoluzionaria, si capisce.

Ma questo, soprattutto. La sfida a non archiviare in fretta il dato. 
Siamo in un’epoca in cui le cose si consumano in fretta, in cui è forte la tentazione di non vivere a fondo qualcosa, ma di metterla via per fare spazio sempre ad altro. Qualcosa di altro sembra sempre la cosa più importante (geniale la frase a prima vista tutto è secondario della bellissima canzone I sacchi della posta del Battisti “secondo periodo”). Così noi tendiamo a fare le cose di corsa, ad estrarre rapidamente il succo appena pensiamo di aver capito quale sia (che poi spesso lo perdiamo, non è una grande scoperta). E la cosa migliore per farlo, è archiviare il dato di osservazione etichettandolo con un pensiero, o peggio un giudizio. E passare oltre, cercando qualcosa in perpetuo, non trovando facilmente un punto di riposo. 
Ma i pensieri, le etichette mentali, sono sempre in bianco e nero, sono qualcosa afferente ai toni del grigio. Il problema è solo questo, alla fine: è che non sono a colori. 
I ragionamenti, le varie tesi ed antitesi, anche un certo gusto per la dialettica… sono tutte faccende in bianco e nero. Come i vecchi televisori prima dell’avvento del colore. Dopo un po’ che guardavi un telegiornale, un (vecchio) film, uno sceneggiato, quasi ti scordavi che non vedevi i colori. Ci stavi pure, lì dentro, certo. Ti sembrava di essere a tuo agio in quella rappresentazione di universo. E ti dimenticavi di questo, che non stavi vedendo alcun colore. La cosa più grave in assoluto, è che ti sembrava non ti mancassero, pensavi di poterne fare a meno.

In realtà ti eri accontentato di qualcosa di meno, del vivere davvero la realtà, per tutto quel che è (ecco cosa è grave, accontentarsi è grave, per quanto contiene di rassegnazione, è una diminuzione del vivere). E diciamolo pure, un po’ ti veniva anche facile, ti veniva comodo, non dovevi fare sforzo. Perché non dovevi aprirti più di tanto, in fondo.

Infatti, il colore presuppone una attitudine ad uscire da sé, almeno in parte. A lasciare scorrere via i pensieri, per osservare veramente la realtà. Il colore può anche suggerire un punto di riposo, o almeno suggerire che un punto di riposo si trovi fuori dal proprio baricentro, che graviti esterno ai propri pensieri. 


A volte poi c’è questo, i colori non li vogliamo vedere, li vogliamo quasi cancellare. Come se per guarire potesse bastare questo, eliminare il colore di una storia, di un rapporto. Proprio questo canta Branduardi in una bellissima canzone, chiamata appunto Colori
E’ il volto tuo che ho disegnato,
Mi son seduto ed ho aspettato:
Ho usato il nero per i capelli
E rossa sabbia per la tua bocca.
Verrà la pioggia e lo laverà,
Confonderà i tuoi colori,
Quando il vento sarà passato
Sarò alla fine guarito.

Ma nessuna rimozione ci porta a stare meglio, ce lo insegna la psicologia. Dobbiamo far pace con i nostro colori, con i colori del mondo, con i colori dell’esperienza che abbiamo, del mondo. E’ un lavoro, a volte necessario. Ogni terapia psicologica, ogni percorso spirituale, deve portare a ritrovare colore nel mondo, per esempio.

Quindi, è questo. I ragionamenti sono in bianco e nero: anche quelli nuovi nuovi, appena stampati, paiono uscir fuori da un vecchio televisore, alla fine. Infatti non danno mai vera gioia, i ragionamenti (la gioia è una cosa parecchio colorata, in ogni caso). Danno attaccamento, questo sì. E motivi di polemica, di accorpamento o divisione, questo sì. Cose per ingannare il tempo, dimenticandoci di voler essere felici, insomma. Si possono fare molte cose, dimenticando il nostro cuore e la sua fame di colore.

Non l’arte, però.

L’arte, quella ha qualcosa di molto più a che fare, con i colori. Per le arti figurative è difficile negarlo. Ma anche un bel romanzo è a colori, per esempio. E’ assolutamente evidente. Anche se è stampato in caratteri neri su foglio bianco, come lo apri subito si sprigionano i colori. Pure la scienza, se non perde la sua carica di meraviglia, è a colori. Perché lo è la curiosità, quella che spinge a voler capire il reale. E potremmo approfondire il discorso verso il Mistero, pensando ai colori nella Sacra Scrittura: qualsiasi cosa si creda, si potrà convenire che un libro davvero importante (per molti, appunto, sacro) non può assolutamente prescindere dai colori, non può limitare in alcun modo il suo approccio alla realtà.

Il colore è la prima cosa, la più immediata e disponibile, che ci dice, ci suggerisce, che c’è ben altro che i nostri pensieri. A volte è un’ancora di salvezza di una potenza indescrivibile, perché ci rimanda ad un mondo di emozioni e passioni, dove già ci sentiamo più a casa. A volte è il modo con il quale una misteriosa bellezza ci raggiunge, ci sussurra, ora pensi in bianco e nero, ma rimani calmo, i colori ci sono, non lo vedi che ci sono? I colori, alla fine, ritornano. 

A volte la percezione – anche fuggevole – di un mondo segreto a colori, è tutto quel che ci serve.


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Accelerazione

A volte non ci rendiamo conto di come le cose siano in accelerazione, sia a livello umano che a livello cosmico, e dunque non facciamo quell’utile lavoro di decifrazione del dato, che ci consentirebbe – nei tempi lunghi che richiede – di vivere su questo piccolo pianeta in modo forse un pelino più consapevole. Di capire, insomma, un poco meglio, cosa sta accedendo.

Appare indubbiamente assai efficace la traslazione della storia dell’universo nell’intervallo di tempo – assai più “comprensibile” a livello umano – di un secolo appena, operazione che compie il filosofo e poeta Marco Guzzi, in un video recente (estrapolato dal corso Darsi Pace). Davvero ci fa capire come le cose si stiano muovendo con una furia di accelerazione impressionante. E mi fornisce lo spunto per qualche piccola considerazione a sfondo cosmologico.

Allacciate le cinture, la velocità è in aumento… 

Va subito detto che, come viene anche specificato in apertura del video, questo lavoro di ricomprensione è possibile soltanto adesso: appunto, solo da pochissimi anni, da quando abbiamo scovato (andando a vedere le “pieghe” impercettibili dell’eco primordiale del Big Bang) questo valore, i fatidici 13,82 miliardi di anni che rappresentano (secondo le stime più recenti) l’età dell’universo.

Insomma, tutto questo interessante discorso, sarebbe stato semplicemente privo di senso financo per il giovane Einstein, cresciuto nella percezione – allora incontestata dagli scienziati – di un cosmo esistente da sempre, e sempre uguale a sé stesso. Incomprensibile, perfino per lui. E parliamo di un uomo che ha rivoluzionato la fisica moderna, definendo un quadro concettuale in massima parte ancora valido. Insomma Einstein, non Keplero. Un uomo del novecento. Un uomo molto vicino a noi, nella linea temporale. 
Già. E’ incredibile come accelerino le cose. Se ci penso, non posso trattenere la meraviglia. Ancora da bambino, ricordo come fossi sicurissimo che domande come “quanto è grande l’universo” oppure appunto “quando è nato” non appartenessero all’ambito dell’indagine scientifica, né vi sarebbero mai potute appartenere, semplicemente perché strutturalmente  refrattarie ad ogni indagine empirica.

Mi sbagliavo. E mi sbagliavo di grosso.

La storia della scienza ha dimostrato, in pochissimi anni, come domande che erano rimaste – praticamente da sempre – appannaggio del mito o della religione, abbiano inaspettatamente trovato una risposta compiutamente scientifica. Ovvero, falsificabile, perfezionabile, verificabile a piacere. Ha spazzato via in pochi decenni convinzioni ed architetture di pensiero (come quella dell’universo stazionario) che duravano da millenni interi, che hanno permeato il sentire di generazioni e generazioni.

Piuttosto impressionante. Una rivoluzione più epocale del modo di concepire il cosmo, forse non è pensabile, in tutta la storia umana. Ed avviene, praticamente, adesso.
Non i nostri nonni, non i nostri padri. Non gli antichi, o gli uomini del secolo scorso. No. Siamo esattamente noi – voi che avete l’ardire di leggere queste righe (altra cosa incredibile, a pensarci) – nel punto preciso di svolta della storia umana, nel punto esattissimo in cui l’universo si osserva e “dice qualcosa” su di sé. Prende coscienza, in un certo senso. Perché noi, perché siamo nati adesso? Viene il capogiro a cercare di capirlo, a cercare soltanto di figurarcelo.
C’è un’altra cosa, ancora più generale, che si innesta sorprendentemente bene in questa catena di evidenze. Non solo la storia dell’uomo sulla Terra è in furiosa accelerazione, ma anche, come abbiamo scoperto da pochissimi anni (e che peraltro è valso un premio Nobel a tre tizi di nome Saul Perlmutter, Brian Schimdt e Adam Reiss), l’universo stesso è impegnato – a livello globale – in una espansione accelerata, che pare non conosce né fatica né ostacoli.
Fino a pochissimi anni fa si pensava piuttosto ad un Universo in fase più o meno di rallentamento, che si sarebbe prima o poi avviato verso una progressiva contrazione, avendo ormai esaurito la spinta iniziale (perdonatemi la grossolanità di questa sintesi, ma per capirci). I dati, come spesso accade, si sono fatti largo prima di tutto forzando la mente degli stessi scienziati, increduli di fronte a quanto essi stessi stavano scoprendo.
Il quadro attuale, in estrema sintesi, è questo: una (ancora) misteriosa energia, agisce spingendo ogni cosa lontana da ogni altra, accelerando a ritmo furibondo questa espansione già impressionante.
E dunque. Perché scopriamo solo adesso (e di conseguenza, lo”viviamo” solo adesso) il fatto che l’intero universo sia in accelerazione? Pensiamo ancora che sia casuale?

Non sono esattamente sicuro che le cose che scopriamo attraverso la scienza – come quelle che elaboriamo attraverso l’arte e le altre discipline che definiscono la consapevolezza del tempo presente – non abbiano un preciso significato per noi, qui ed ora. Non ci aiutino a definire un compito, un lavoro (che c’entra perfino con il motivo per cui siamo nati, oserei dire). 

Allora, dobbiamo proprio farlo questo lavoro quotidiano, dobbiamo innestare queste considerazioni cosmologiche proprio ed esattamente nella percezione di vita dell’uomo di oggi, nella sua carne, nel suo stesso respiro. Anche per questo la scienza è patrimonio comune, anche per questo la scienza è importante. Per tutti, ma proprio per tutti.

Perché un cosmo che ci parla (e che di nuovo, magari, si fa raccontare), con il quale recuperiamo un atteggiamento di relazione, è il segno di un ritrovato (benedetto) desiderio di camminare verso l’unità di noi stessi, è un segno – strano ma vero – di un possibile ritorno verso un maggior equilibrio mentale e una compiuta apertura della coscienza.

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Poltrona

E’ sempre bene, soprattutto quando si ragiona dell’attualità politica, arrivare quanto prima al nucleo reale della faccenda. Dando spazio a quello che pensano i poeti, per esempio.
Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere. (Emily Dickinson)
Ora che un nuovo governo inizia la sua attività, è più che mai importante capire con che parole poter fare amicizia, in che narrazione dimorare. Certo, in politica si danno sempre molte narrazioni, diverse fin dall’inizio, per la tavolozza di parole che vengono adottate per descrivere la stessa cosa, la medesima azione, la identica situazione. E non è un caso. Difatti, ha ragione Emily, non esiste niente al mondo che non abbia tanto potere come la parola. La ragazza ha appuntato una verità assolutamente poetica ed insieme totalmente politica, non c’è che dire.
Un oggetto molto comodo ed anche molto evocato, di questi tempi.
Allora è vero, che ognuno si può avvoltolare nella narrazione che preferisce, in cui (per motivi psicologici, sociali, familiari, di amicizie, di percorsi culturali e spirituali) si sente più a suo agio. Però mi sento di dire, attenzione: questo non è senza limiti, senza confini. Non è tutto un relativismo, un omnia licet. Ci aiuta in questo proprio la poesia, con quel peso di rispetto che da sempre tributa alle parole. Che non possono essere tirate eccessivamente da una parte o dall’altra, senza che la forzatura appaia evidente (se appena, la si voglia vedere).
Un po’, mi ci fa pensare un bell’articolo che apparso ieri sul sito di Avvenire, dal titolo emblematico Si fa presto a dire poltrone. Essendo adombrata fin dal titolo, una questione di linguaggio (ovvero una questione molto più essenziale e viva di quelle in cui indugiamo per pigrizia, quando pensiamo di trattare di fatti) mi sono interessato.  E ne sono contento.
Infatti, mi pare che il toro venga finalmente preso per le corna. Scendendo fino all’uso del linguaggio, alla sua rimodulazione, si affronta la vera sostanza delle cose.

Così gli accordi tra i partiti, su cui si fonda l’esercizio della democrazia, vengono relegati a “inciuci”, i cambi di maggioranza diventano “golpe”, i seggi, gli scranni parlamentari e governativi sono “poltrone”. 

Rimando alla lettura dell’articolo, e intanto mi cimento in una minima considerazione politica. Potrà piacere o non piacere questo nuovo governo (io un po’ spero, per molti motivi), ma dovrebbe essere acclarato che ci si stia muovendo nella piena legittimità costituzionale, che nessuna strana manovra di palazzo abbia attentato alla volontà popolare. Costituzione alla mano (quella che tanti difendevano al sangue prima del referendum, per poi allegramente riporla tra i libri dello scaffale alto, quello che nessuno prende mai), il primo dato dovrebbe essere questo.
Leggo ad esempio (articolo 92) che,

Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri.

Esattamente quello che è successo ora, come era del resto accaduto all’atto di formazione del governo precedente. Tutto secondo Costituzione (le cui parole sono precise, e poeticamente fondanti).
Eppure da una certa parte (gli sconfitti? gli esclusi? ma secondo un normale gioco democratico), si sta tentando – in questi giorni, in queste ore – con sciagurata insistenza, una grossolana rimodulazione del vocabolario descrittivo, uno spostamento inopinato di narrazione. Che trovo assai irritante, proprio perché sleale verso il linguaggio – una cosa che ogni persona appassionata di poesia sente di dover difendere ed amare. 

Fateci caso, certi esponenti politici in questi giorni, mettono e metteranno sempre la parola (piuttosto impropria, per scrannipoltrone e la parola (semplicemente orribile) inciucio in ogni loro considerazione politica. L’intento è palese: generare irritazione e scontento. Ed è un brutto intento, secondo me. Tra l’altro, pochissimo poetico, anzi per nulla. Sia perché l’obiettivo della poesia, e di ogni agire poetico, è diametralmente opposto, essendo teso verso una modulazione di sentimento positivo e costruttivo (questa è la poesia, niente può cambiarla, grazie al cielo: tesa ed appesa ad una vibrazione positiva del mistero del reale). Sia perché sleale con quell’arma potentissima che sono le parole. Che vanno sempre usate con rispetto, pena la degradazione della qualità di pensiero e dunque di vita.
Vuol dire che non si può criticare questo governo (o altri governi)?
Certamente non vuol dire questo, anzi. Si può criticare ferocemente, aspramente, in modo sanguigno. Da destra, da sinistra, si può e probabilmente si deve. Sempre però – attenzione – tramite l’uso proprio delle parole. L’idea qui è di non riposare su luoghi comuni, tristi quanto (come dicevamo) scorretti. Insomma, se si vuole opporsi, si faccia per bene, lavorando di fino, limando le giuste parole, incontrando con la fatica del pensiero nuovo l’intersezione con i fatti, riscontrando e delineando scenari alternativi, costruendo narrazioni potenti e differenti. Sempre spiazzanti, mai adeguandosi al pensiero pigro, alle parole usate ed abusate. Abusare delle parole è un crimine, vuol dire far del male alle gente. 
Una narrazione politica deve essere un po’ come una buona poesia: deve rispettare le parole (il profondo mistero che esse veicolano), e deve sempre sorprendere, almeno un po’.
Altrimenti, ci possiamo davvero mettere in poltrona (quella vera), e farci un sano sonnellino. In attesa, speriamo bene, di tempi migliori.

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Confine

Ecco una parola che è tempo di aggiungere al mio personale vocabolario, questo progetto in lenta progressiva formazione. Confine. Il confine è interpretabile in una varietà infinita di modi, in tantissime situazioni. La prima cosa che mi viene in mente, è che il confine ha una fondamentale funzione positiva, di identificazione. Separando me stesso dal resto del mondo, io inizio a esistere, io esisto in quando entità separata dal resto del mondo, in prima istanza. Devo però comprendere questa separazione, devo ragionarci bene affinché non mi porti fuori strada, non mi faccia impantanare nella angosciosa illusione dell’autonomia, per citare una frase significativa di Don Giussani. 
In realtà è in una certa polarità dinamica del confine si gioca tutta la partita. Perché un confine ci vuole, è una buona cosa, e questo va detto. Vi immaginate una cellula senza membrana cellulare per esempio? Come farebbe semplicemente ad esistere? Dunque una separazione, che è in realtà una convocazione, una chiamata all’esistenza. Esisto in un luogo specifico, un luogo definito. Esisto perché non sono tutto il resto, sono qui. E il rischio sarebbe quello di rimanere a questo esisto, come fosse qualcosa di compiuto, di definitivo, di acclarato.
Non è così. Ed eccola la polarità dinamica, affascinantissima, di questa parola. Il confine è felicemente contraddittorio, perché esiste, in qualche misura, proprio per essere violato. Le barriere esistono per essere superate. Infrante. Io esisto perché mi impegno coscientemente in una violazione perpetua dei confini, in una continua disgragazione del sovranismo latente che un certo pensiero in bassa frequenza mi vorrebbe far adottare, come difesa preventiva, come atto implicito di calcolata ostilità verso il mondo. Invece, coltivare la fiducia è aprire i confini, forzarli, allargarli, vedere cosa accade nel passaggio (tentativamente regolato, certo) di merci e persone, anche e soprattutto attraverso i miei confini. 

Del resto, se rimango nei miei confini, se chiudo i porti all’arrivo del nuovo, dell’inatteso, all’inizio mi sento al sicuro. Di primo acchito, al primo impatto, mi può anche sembrare una gran buona idea, una ottima idea. Però alla fine mi stufo, mi annoio. Mi deprimo. Il sovranismo eccessivo di me stesso mi porta alla depressione. Capisco che sto remando contro il flusso dell’universo, così facendo. Sottraendomi da questa dinamica di scambio, mi sto impoverendo. Sono nato per contaminarmi, per ibridarmi, per rischiarmi nel confronto dialogico. Io esisto e acquisto sapore, consistenza, in quanto decido volontariamente per l’apertura dei mie porti, verso l’esterno.

Non è automatico, deve essere una mia decisione, riesaminata e rilanciata ogni istante. Devo inserirlo come punto centrale del mio personale contratto di governo (di me stesso). Niente in tutto questo è automatico: è questo il bello.

In me stesso ci sono infinite sollecitazioni a varcare i miei confini. Ce l’ho incorporate, in pratica. E’ fin troppo ovvio pensare all’ambito affettivo, ma vale la pena vederlo in questa luce. Sì, perché il rapporto d’amore è una violazione consensuale di confini, in fondo. Confini emotivi e confini fisici, anche. Nel rapporto sessuale, i confini stessi dei corpi vengono rinegoziati, rimodulati, almeno per un certo lasso di tempo. Lo dice benissimo il secondo capitolo di Genesi, e non si può dire con miglior poetica precisione, i due saranno una carne sola. Ovvero, qui i confini non sono nemmeno più negoziati, sono proprio aboliti, in un atto totale di fiducia, di abbandono. Rinuncio deliberatamente a mantenere un preciso controllo su come e quanto sono invaso, come o quanto invado: evado la logica sempre un po’ mercantile dello scambio, e mi abbandono. C’è un inizio di indicazione preziosa, anche: salendo in frequenza, progredendo nell’intensità del vivere, i confini si sfaldano, si stemperano. Svaniscono, idealmente. La gioia è vera quando è sconfinata, appunto.

In effetti, l’intero rapporto tra uomo e donna, che è frequentazione, assistenza mutua e convivenza, è affascinante anche solo a pensarlo, perché è una rinegoziazione quotidiana di confini, dei confini di due persone che accettano questa curiosa infrazione costante che a volte costa fatica, ma che viene accolta con la percezione luminosa di un mutuo vantaggio.

E’ una questione di sguardo, anche. Come guardo a me stesso e al resto. Si capisce: se mi percepisco unito al resto, alla fine tutto è mio, è parzialmente mio. Leggo come secondo alcuni studiosi il significato etimologico di Europa è ampio sguardo. Non so se è vero, ma è bellissimo. L’ampio sguardo mi rende disponibile verso un intreccio con entità diverse da me, in un interscambio delicato, difficile ma bello come un bacio. Il piccolo sguardo, al contrario, mi fa ricadere nel sovranismo spiccolo dove i veri governanti al potere sono i miei piccoli interessi, interessi poco interessanti alla fine. Anche se difficili da mettere in discussione, perché piuttosto refrattari al dibattito interno.

Lo sappiamo bene: è un combattimento, tenere le frontiere aperte. Perché la percezione del bene non è immediata, non è banale. La frontiera può essere varcata anche con cattive intenzioni. Aprendo la mia frontiera posso anche venire ferito, violato, umiliato, distrutto. Percepire che è un valore il rischio consapevole e accorto dell’apertura della frontiera, è materia di un mio personale lavoro.  Dire che l’altro è un bene per me implica – almeno come anelito – una volontà di riscatto dagli egoismi e dai particolarismi che tanto spesso mi incastrano. Ed è un lavoro anche questo (ma un bel lavoro).

Nessun sogno bellissimo ha dei confini, se ci fate caso.

Quindi il confine è una membrana che esiste per essere instancabilmente lacerata, come una ferita continuamente riaperta.

Quella ferita aperta, che ci mantiene vivi.


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Ragionamento

Siamo strani, siamo umani. Siamo universi sempre diversi. Un approccio logico-razionale tra due persone, comunque, porta rapidamente ad un attrito, una frizione, una consunzione, come due ingranaggi che girano a regime diverso e si volessero mettere in connessione. Tale approccio porta in realtà allo stesso stress delle strutture anche nel rapporto di una persona con sé stessa, come sappiamo. Siamo, mi pare, in una epoca di ipertrofia della logica, che viene applicata spesso fuori dal suo specifico campo d’azione. 
Sarà perché la logica è in un certo senso, falsamente rassicurante. Ci fa sentire padroni della situazione, ci fa sentire in pieno controllo. E’ una cosa che possiamo dominare, e sembra lì apposta, per fare chiarezza. Tipo, enucleare i termini di un problema, descriverne i contorni, per poi operare in maniera logica e razionale, verso una soluzione (o mitigazione del problema). Dividere, sezionare, scansionare, enucleare all’infinito, per comprendere, o per risolvere. 

E’ un abbaglio della ragione, fondamentalmente. Una sua hybris, abbastanza perniciosa. Nella sua ansia risolutiva, si scorda di tutto un mondo attorno, che però non può essere escluso senza alterare e avvelenare il contesto, il campo da gioco. Si scorda – per dire – dell’esistenza delle stelle. 

Ci siamo molto abituati a diffidare di tutto tranne che del ragionamento, che invece a volte è proprio l’ultima cosa alla quale ricorrere per affrontare i problemi. Avete presente quella sensazione che tanto più ragioniamo su una certa circostanza, tanto più ci impantaniamo?

Forse perché il ragionamento ci illude di tenere presente tutto, e ponderare tutto. Mentre in realtà ha fatto fuori dal suo stesso moto iniziale quella salutare pratica di affidamento ad una forza più grande e benevolente, che spesso – a parole – diciamo pure di considerare, o di onorare (chiamatela Dio, o Essere, o Vita, o in qualsiasi modo vi risuoni di più). O più semplicemente,  se volete, a qualcosa che non cade nella nostra orbita di analisi, al momento.

Alla base del ragionamento c’è infatti un assioma, un postulato, quello segretamente prometeico che dice “bene, ora vediamo come io posso risolvere questo problema”. Come tale esclude appunto un qualsiasi affidamento a qualcosa che sia esorbitante dalla mia cognizione razionale. Ed esclude dunque qualsiasi sorpresa.  Come dire, “poche chiacchiere, quando si arriva veramente ai problemi, me la devo vedere da solo”. 

Dunque in un certo senso, un approccio totalmente razionalistico ad un dato problema è prima di tutto e subito una mozione di sfiducia. 

Come appunta  Etty Hillesum nel suo Diario,

Dammi pace e fiducia. Fà che ogni mia giornata sia qualcosa di più che le mille preoccupazioni per la sopravvivenza quotidiana. E tutte le nostre ansie per il cibo, i vestiti, il freddo, la salute, non sono altrettante mozioni di sfiducia nei tuoi confronti, mio Dio? 

Certo non è facile, lasciarsi andare, provare ad affidarsi, mollare la presa (per me, ad esempio, è francamente difficilissimo). Ma non per questo dobbiamo desistere, anzi forse dobbiamo lavorare di più e con più allegra determinazione a lasciare, ad abbandonarci ad un flusso più grande e più saggio di noi. 
Certo, non ci riusciamo subito. 
Ma fare delle prove di abbandono, magari anche spezzare la catena perversa di ragionamenti, la proliferazione di pensieri, con qualche minuto di meditazione, o di lettura profonda? Perché no? O comunque, appena, sapere che a volte la soluzione non viene dai pensieri – per quanto la mente ci suggerisca di pensare più a fondo se non troviamo soluzione. Paradossalmente, una buona cosa potrebbe essere quella di accogliere la situazione presente, rinunciando – almeno per un po’ – alla idea, alla pretesa di cambiarla, o di cambiarci. Onorare la situazione presente, accettandola
Senza tanti ragionamenti. 

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Combattente

E’ abbastanza sorprendente capire che ci si può stupire ancora. In effetti è una regola della vita, forse la regola della vita. Quella che manda avanti tutto, comunque. Che ti permetti di respirare, in fondo. Che non ti permette mai di dire i giochi sono chiusi perché lo sai, lo sai che per dirlo devi comunque mentire, dire comunque una cosa che non è nell’ordine delle cose, non lo è affatto. E’ una variazione arbitraria della trama dell’Universo, dei suoi misteriosi campi di forza. Misteriosi, sì, ma nella loro struttura ultima, non tanto nel loro manifestarsi. Su questi, chiunque sia su questa nostra Terra già da un po’, inizia certamente a farsi le sue brave idee.
Così entrare nel nuovo disco di Fiorella Mannoia, Combattente, intanto, scompagina un po’ i miei pensieri pigri, quelli che mi vogliono insegnare a non cercare più lo stupore, che tanto non si trova. Beh, una bella favoletta, perché invece si trova, eccome.

Anche qui, in un disco che già immagini un po’ convenzionale. Beh sì, Fiorella ha cantato tantissime splendide canzoni, ma che vuoi ormai, alla sua età (terribile frasetta), dopo tanti successi…  Il bello di queste cose da finta persona matura è quando vengono spazzate via dalla realtà. Allora sì che uno inizia a prenderci gusto.
Perché già da Combattente, la prima canzone che poi dà in maniera molto discreta ma efficace, la cifra interpretativa di tutto il lavoro (poi si capisce, è un concept album appena un po’ nascosto, ma è evidente), capisci che c’è qualcosa che non torna. Accidenti. Qui rischi di stupirti di nuovo. 

Dopo un paio di ascolti la melodia mi prende, e insieme le parole, perché girano molto bene insieme. E mi sembra che dica qualcosa in modo nuovo, o fresco, qualcosa che mi fa bene risentire, riascoltare.
È una regola che vale in tutto l’universo

Chi non lotta per qualcosa ha già comunque perso

E anche se il mondo può far male
Non ho mai smesso di lottare

Che poi la cosa si fa più radicale. Da vale a cambia, il passaggio non è di poco conto.
È una regola che cambia tutto l’universo

Perché chi lotta per qualcosa non sarà mai perso

Mi risuona. In fondo è l’atteggiamento con il quale affrontiamo le circostanze, le sfide, che le cambia. Ne cambia la stoffa, la qualità, la consistenza. Non so dire come esattamente questo avvenga, ma le cambia, comunque. E’ esperienza comune, è esperienza di tutti. Anche una canzone allora ha valore, ha un valore forte, puntuale. Perché ti conduce i pensieri in questa zona. Li fa uscire dalla regione di circolazione improduttiva, dalla stagnazione. E li muove delicatamente in un una zona lavorabile. 
Capire che il mio atteggiamento influisce sul modo in cui faccio esperienza del mondo, è una nozione preziosa. Qualcosa che devo riprendere e ripercorrere spesso. 
Ed è appena l’inizio. E’ bello che nelle altre canzoni ritrovi comunque il tema accennato da Combattente che ritorna, lo trovi sempre sottotraccia, e ogni tanto riaffiora esplicitamente, a formare una bella coesione dell’esperienza di ascolto. Sarà che sono irrimediabilmente malato dall’aver appassionatamente vissuto l’epoca dei concept album, quelli che andavano negli anni settanta, chissà. Di fatto, l’ascolto di una serie di canzoni – pur belle – che trattano argomenti tra i più disparati, riunite in un album e proposte tutte assieme, mi ha sempre lasciato addosso una sensazione un po’ di non compimento. 
Esatto. Con questo album il pericolo è scongiurato. Hai la sensazione piacevole di rimanere in tema, anzi, di approfondirlo guardandolo da una serie di posizioni diverse, declinandolo in una varietà di situazioni. La cosa acquista gusto, ed interesse.
Al mio orecchio, in ogni canzone c’è almeno un friccico di nuovo. Nelle parole, nella melodia o nell’arrangiamento. C’è sempre un po’ il gusto del non ascoltato, e un accento di verità, che supera l’impressione di mestiere che invece trovo in tanta musica moderna (sto invecchiando, me ne rendo conto, e faccio probabilmente discorsi di chi sta invecchiando… abbiate pazienza, voi che leggete).
Ma la vera chicca del disco, quella che mi fa sobbalzare i pensieri, arruffarli  e scompigliarli per evidente abbondanza di bellezza,  è lì, verso il centro, quasi nascosta. Del resto, anche come inizia, in maniera tutt’altro che roboante, anzi. Con una melodia appena accennata, la voce di Fiorella che quasi indulge sul parlato. E solo dopo un po’ si aggancia alla melodia, che scopro poi efficace, persuasiva. E splendidamente agganciata alle parole. Quelle parole che (una volta tanto) appaiono davvero e compiutamente poetiche. Cioè capaci di sorprenderti in un epifania che – per un istante – spazza via i pensieri ricircolanti e squarcia un velo oltre il quale rimani soltanto in silenzio, in ammirato silenzio. 
Tale è il potere della musica, e delle parole, quando si trova chi lo sappia far sprigionare, far rifulgere.

Sto parlando de I pensieri di zo, di Fabrizio Moro (fino ad ora per me, perfetto sconosciuto, tanto per richiamare la canzone dell’album che era anche colonna sonora dell’onomimo film).  E visto che pare che su Youtube la canzone non sia facilmente reperibile (immagino, per comprensibili motivi di copyright) qui mi debbo accontentare di riportare il testo, che prendo dal sito di Fiorella.
Anche se, diciamolo: accontentarsi, è un po’ far torto alla canzone, perché ci arriva addosso con un testo assolutamente favoloso. Certo, rende al massimo con la musica, dunque se non l’avete fatto, vi consiglio di cercare di ascoltarla. Vale la pena, ve ne accorgerete. 
Sai quando senti le parole che escono deliziosamente dal sentiero del già detto, che – apparentemente inoffensive – si accostano, si agganciano tra loro in modo da evocarti suggestioni, brandelli di situazioni, persone o momenti di persone, echi di giorni mezzo ricordati (per dirla con l’ottimo Roger).

Ma che belle le sere d’estate
un poì prima di uscire
quando senti che esisti davvero
e non ti sai più gestire

E il cuore beve queste parole e scalpita, riconosce la bellezza, come rispondenza misteriosa al vero delle cose, e se ne nutre. Parrà sembra esagerato per una canzone, ma a pensarci non lo è poi tanto. Specie se siamo convinti che il bello possa prendere dimore dappertutto, sia assolutamente trasversale e non inquadrabile in nessuno schema. Sia sempre un po’ oltre i nostri ragionamenti (compresi quelli che dicono che è oltre, naturalmente). In altre parole, sia ultimamente irriducibile a qualsiasi sua concettualizzazione. 
Io penso così, almeno.
E allora lascio il posto alla possibilità di emozionarmi, quando ascolto I pensieri di zo.

Mi viene da pensare, è come un contraltare più carico di letizia della pur bellissima canzone di Vasco (guarda un po’ stupendamente interpretata dalla Mannoia) che è Sally. E’ di più, è come Sally rivoltata come un guanto da una prospettiva più gioiosa,  ancora possibile, sempre possibile.
Sentire di esistere davvero. Forse qui è racchiuso il senso del tema. Quell’essere combattente non è fine a se stesso, o ad una ribellione sterile, stigmatizzata, già vista, già percorsa. E’ una rivoluzione inedita che ancora ci aspetta, quella che ci porta ad esistere davvero. 

Scriveva Holderlin (citato nel saggio Poesia e Rivoluzione, di Marco Guzzi), già nel 1797,  “Io credo in una rivoluzione futura delle concezioni e delle modalità di rappresentazione, che farà impallidire tutto ciò che finora è stato”.

In effetti, ogni bellezza parla di questo, e niente che ci interessi davvero parla di qualcosa meno di questo. Una rivoluzione tutta da fare, sempre e di nuovo.

Come ormai è chiaro, l’unico motivo rimasto per sentirsi ed essere realmente combattenti.

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