Blog di Marco Castellani

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A Grosseto, cercando l’umano

Così è andata, come si era detto. Ma anche meglio, molto meglio di come si era pensato. La mattina di venerdì 22 marzo io e Paola siamo saliti in macchina, destinazione Grosseto. Con noi c’era Anita, come previsto. C’era con i libri, c’era nei racconti (le sue chiacchierate con Laura, la mamma astrofisica di professione), c’era nella mia testa con l’idea della sua esistenza, nell’ambito spaziotemporale del fantastico, certo. Un ambito quanto mai impattante sul reale, dunque un ambito – per farla breve – reale. Se infatti – da un punto di vista fisico – ciò che esiste è ciò che manifesta effetti nel presente universo, l’immaginario esiste, c’è poco altro da dire.

Disquisizioni a parte, è stata una giornata piena quella del 22 marzo a Grosseto. Per tutti quanti, sia per gli abitanti dello spazio che chiamiamo reale, sia per quella tipetta dello spazio che ci piace definire immaginario.

La mattina, poco dopo essere arrivati a Grosseto, un paio d’ore a parlare di Anita e la Luna, perché sapete, questa ragazzetta curiosa ha da dire la sua anche sul nostro satellite, ci mancherebbe. E anche su quello, ha tantissime domande. Come tante domande – grazie anche al lavoro preparatorio degli ottimi insegnanti – hanno fatto i ragazzi della scuola media Madonna delle Grazie, tanto che nella mattinata non si è parlato appena della Luna, ma del cosmo, dei buchi neri, delle sonde Voyager, del destino dell’universo… e non ci si sarebbe fermati mai!

La curiosità allegra di questi ragazzi, di queste stelle in formazione, del resto, è qualcosa che è di insegnamento per me adulto: il contatto con loro è un mutuo scambio, perché se io posso forse insegnare qualcosa sul cosmo, loro certo insegnano molto su come ritornare a vivere in modo autentico dentro questo cosmo che descrivo loro, cioè con curiosità allegria e voglia di fare. Ed può sembrare buffo che io adulto debba tornare ad impararlo, ad impararlo da loro, ma è così. E sono contento, che sia così. Che salire in cattedra sia anche uno scendere da certi propri inutili piedistalli interiori. Cose che fanno bene, ogni tanto.

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Quel molto di più

Nel suo tredicesimo giorno di viaggio della missione Artemis I (era il 28 novembre del 2022), la navetta Orion ha raggiunto la sua massima distanza dal pianeta dove era stata pensata, progettata ed assemblata. Più di 430.000 chilometri da Terra, sorpassando così il record di distanza per una oggetto progettato per portare umani a bordo (per la più grande distanza in assoluto di un oggetto costruito dall’uomo, bisogna invece rivolgersi verso la Voyager 1, attualmente alla rispettabile distanza di 24,33 miliardi di chilometri da casa, a tutti gli effetti nello spazio interstellare).

Artemis 1, giorno di volo numero 13: Terra e Luna in bella vista…
Crediti: NASAArtemis I

Il record che Orion ha appena sorpassato è quello della missione Apollo 13, che, come sappiamo, rientrò fortunosamente alla base per un guasto, mancando l’obiettivo di toccare la Luna ma riportando a casa sani e salvi tutti gli astronauti.

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Brillamenti d’ottobre

Possiamo chiamarli così, proprio, brillamenti d’ottobre. Infatti proprio all’inizio di questo mese il Sole ha rilasciato improvvisamente una grande quantità di energia, puntualmente rilevata dalla sonda Solar Dynamic Observatory. Si è trattato di un brillamento di classe X1 (il numero indica la forza del fenomeno, un brillamento di classe X1 ha una intensità circa dimezzata rispetto ad uno di classe X2).

La nostra stella. vista dal Solar Dynamics Observatory
Credit: NASA/SDO

I brillamenti solari sono capaci di influenzare le comunicazioni radio, le reti elettriche e i segnali di navigazione, dunque vanno studiati accuratamente.

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Lo sguardo di Anita sulle stelle

Arrivati su Amazon verso la fine di agosto, sono gli altri racconti che non avevano trovato posto nel primo volume, Anita e le stelle, pubblicato nel 2019. E direi subito che il tempo è servito, perché questi altri sei, sono stati esaminati anche da alcune persone del Gruppo Storie dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, diventando proprio oggetto di lavoro. Sono così arrivati diversi suggerimenti per migliorare i racconti, alcuni dei quali implementati nel volume che ora potete leggere.

Così spero che lo sguardo di Anita sulle stelle si sia fatto più penetrante, più fresco e più vivo. Almeno di un poco. Forse Anita, la conoscete già. Magari alcuni di voi la conoscono, almeno un po’. Anita è una ragazzetta molto vispa e curiosa, che si fa un sacco di domande (come tutte le persone della sua età). Fatto sta che lei ha una mamma che è astrofisica di mestiere, e dunque le può rispondere anche a domande sull’inizio del cosmo, sul Big Bang, sugli alieni, sulla forma della nostra Galassia, e su tante altre cose del cielo che, in effetti, destano la curiosità di tutti.

I temi forse li potete intuire, scorrendo i titoli. Ci vuole un grande telescopio?, L’universo conosciuto, La storia del presente universo, Lo scoppio più grande di tutti, Le stelle più vicine a noi, Quando ci visitano gli alieni. Insomma ci sono tanti argomenti di cui parlare, tante occasioni per Anita per fare domande, anche perché ogni domanda in realtà è una richiesta di attenzione ed affetto verso la mamma: attenzione prontamente e limpidamente ripagata, esaudita. C’è uno scambio sottile tra le due donne che va oltre l’astronomia, perché l’astronomia da sola non basta, non serve. Serve se indica altro, appunto.

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Tutti i neutrini di Claudio

Vorrei partire proprio da loro, gli elusivi neutrini. Vorrei partire da loro per arrivare a parlare di poesia. Perché accostare i neutrini alla poesia è ancora qualcosa di particolare, di abbastanza inedito. Crea un cortocircuito mentale particolarmente salubre, per cui alla fine inizio a chiedermi cose nuove, sono almeno un po’ spiazzato, portato fuori dal mio ambiente solito di derivazioni e convenzioni, di usi e convinzioni. Che è poi, mi pare, l’obiettivo primario del dire poetico.

Tecnicamente siamo inondati dai neutrini (ce ne scorrono addosso miliardi ogni secondo), ma è raro che, in questa indicibile e silenziosa moltitudine, qualcuno di loro si fermi con noi per farsi raccontare, divenire oggetto di un dire poetico.

Ho tra le mani l’ultimo libro di Claudio Damiani. Tra le mani, per dire: è sul Kindle, ma per noi fa lo stesso. Il fatto rimane, ed è questo. I neutrini entrano a pieno titolo nella poesia di Claudio, si ritagliano agevolmente un loro posto. Tanto che non percepisco nulla di strano, non avverto smagliature nello spaziotempo, non registro particolari torsioni o tensioni nella rete di connessioni cosmiche.

L’essere è, e tu sei con lui.
Sei tutt’uno con il cielo, con la terra, le piante,
sei tutt’uno con le macchine anche
e coi neutrini sparsi nell’etere.

Da fisico – ma anche (lo confesso) da poeta artigiano, da aspirante poeta minore, se volete – mi viene da esclamare finalmente! Finalmente si fa poesia anche con i neutrini, finalmente si conferisce loro la piena dignità che meritano. Li si fa esistere pienamente. Se una cosa non è oggetto di poesia, di letteratura, non è veramente viva. Vuol dire che non sfiora il nostro centro emozionale, può certamente starsene tra le pagine di astrusi manuali d’astronomia o di fisica, ma non è entrata in vera interazione con le nostre coscienze, con le nostre anime. Impastare il tessuto poetico con i neutrini – farne oggetto di poesia – secondo me li fa vivere davvero.

Claudio Damiani (a destra in foto) insieme con Andrea di Consoli, in maggio a Roma, per una presentazione del libro “Prima di nascere”

E anche noi, scienziati di professione, dobbiamo gioirne: perché fare scienza con le cose morte, veramente, non ci interessa proprio più. La vecchia idea della scienza era quella: particelle, azioni e reazioni, forze e campi, tutto poco interessante, poco umano. La scienza nuova è quella che cerca (e quindi trova) l’umano in tutto, anche nei quasar più lontani. Anche nei neutrini.

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Questo giorno, molto verde

Nemmeno più mi ricordo quando è successo, però è successo. Tutto è partito da lì, da quel giorno, in effetti. Da un pensiero, appena. Poi, sono le cose piccole, nascoste, che hanno più peso sulla vita. Ed in effetti, l’innesco, la cosa in sé, sarebbe proprio piccola, proprio trascurabile.

Un pensiero appena. Ho pensato che sarebbe stato bello scrivere dei racconti, delle poesie, intorno al tema unico di un parco. Sì, un tranquillo parco cittadino, un’oasi quieta e sempre, un intermezzo verde in mezzo ai palazzi, uno spazio di accoglienza nel bel centro delle attività delle persone, dell’essere perpetuamente mobile delle cose. Per la cronaca: abitare in prossimità di un parco, non è estraneo affatto a tutto questo.

Insomma, uno spazio verde come area di scambio, zona salutare di sosta per i pensieri e gli avvenimenti. Anche, terreno neutro, spazio riconciliante. L’ho pensato così, in modo leggero e spontaneo. L’ho pensato quando ancora non ero per niente sicuro che questa cosa di scrivere facesse per me, che la potessi veramente prendere sul serio. L’ho pensato quando pensare a questo mi sembrava nient’altro una giocosa pazzia. L’ho pensato come una cosa fresca, infantile, possibile, interessante. L’ho pensato quando solamente sapevo che scrivere mi piace, mi fa star bene. E nient’altro.

Dopo, ho attraversato tanti momenti, di entusiasmo, di fatica, di stallo. Ho smesso e ho provato a fare altro. Ho smesso e ho provato a non far nulla. Infinite volte. Ho scritto un romanzo (con delle parti un po’ deboli e altre, credo, abbastanza interessanti). Ho messo insieme delle raccolte di poesie, l’ultima si chiama Imparare a guarire. Ho pubblicato poi un libro di racconti divulgativi per ragazzi, Anita e le stelle.

Sì tutto bene, tutto bello. Però intanto questo progetto rimaneva lì, quieto. E aspettava. Non se lo sognava, di farsi da parte definitivamente. Ogni tanto mi interrogava pure, tipo Marco che vogliamo fare di questa cosa? Io ovviamente non rispondevo, oppure adducevo scuse. Della serie, sì sì poi ci penso, vedi ora sto finendo questa cosa, sono molto occupato… Allora aspettava, lui. Con pazienza. Ogni tanto si rifaceva vivo. Sono qui, ti ricordi eh? Che vogliamo fare? E io, ovviamente, procrastinavo. Altre scuse, pretesti, tentativi di dilazione, distrazione. Tutti hanno qualcosa che chiama, in questo modo. Tutti cercano di sfuggire, di prendere tempo. E io non faccio certo eccezione.

Anche, un muro denso di obiezioni: la più tenace è sempre la solita, non sono capace, ma poi chi sono io per scrivere? E comunque, come lo pubblico? In effetti (lasciando perdere il resto, per ora) pubblicare una cosa così non è facilissimo, se non sei famoso. Intanto i mesi, anche gli anni, come loro abitudine, passavano. Venne il momento in cui pensai di usare una piattaforma come Wattpad per pubblicarlo, a puntate. Però un po’ di riflessione, e un po’ di osservazione, mi convinse che Wattpad è ottimo per brevi racconti romantici per adolescenti (lo dico con il massimo rispetto), cosa in cui io purtroppo non sono bravo per nulla, ma poco adatto a questo tipo di progetto, dove ci sono capitoli anche parecchio lunghi e certi momenti sono un poco più introspettivi.

E insomma. Le cose andavano avanti, la vita pure, e un angolo del mio spazio mentale era comunque occupato da questa cosa. Questo progetto, che ne facciamo? Ogni tanto lo riprendevo, alternavo fasi di esaltazione per certe parti, di sconforto per altre.

E niente. Alla fine le parti che mi piacevano hanno prevalso. Certe parti mi corrispondono talmente, che non potevo lasciarlo invecchiare, così incompleto. Mi sono messo a lavorare, riprendendo la lotta anche sui due racconti più lunghi: che mi hanno fatto tribolare e tremolare abbastanza, fino a che non ho sentito un sapore che iniziava a piacermi, anche lì. In generale, l’ampio intervallo del tempo di composizione mi ha aiutato, mi ha condotto a sperimentare stili diversi, a osare in certi punti, a tentare modalità espressive particolari.

Intanto mi veniva l’idea per l’ultimo capitolo, quell’idea così semplice ma così… boh, questa non ve la dico, ma mi piace tanto. Ritengo sia abbastanza originale: perlomeno, io non ricordo di averla incontrata in nessun libro. Però se leggete, non saltate avanti: non si fa, non vale.

Insomma è qui, lo potete trovare su Amazon, per ora in formato ebook, magari tra un po’ anche a stampa. Ma ci pensate. Quante cose possono accadere intorno ad un parco? Quante situazioni sussistono in modo sincrono, simultaneo, avvengono lungo questo incredibile tracciato polifonico multipista che è la vita? Quanti linee d’azione parallele insistono in uno stesso luogo, gravitano in una stessa area? Non lo comprendiamo, non lo percepiamo con la mente lineare, razionale. Questo è logico. Noi ci occupiamo di una cosa alla volta, laddove in uno stesso istante si svolgono infinite storie, si snodano innumerevoli eventi. Dovremmo aprirci un minimo alla irriducibile intelaiatura polifonica del reale, certo: ma è proprio difficile.

Sì, il reale è polifonico, mentre i pensieri sono monofonici, e spesso, purtroppo, anche cacofonici. Quando pensiamo il reale lo riduciamo ad una tessitura monofonica, di cose che si succedono una per una. Ma è una riduzione incredibile, una compressione quasi intollerabile. Il pensiero a volte si rinchiude in sé stesso, fa guerra a tutto ciò che potrebbe modificare il suo procedere a spirale sempre sugli stessi percorsi, il suo ostinarsi al giro del criceto nella ruota. Fa guerra all’ipotesi del nuovo, alla possibilità anche episodica e laterale di una inaspettata felicità. Ecco, le persone in questi racconti, a tratti se ne accorgono, questo loro lo avvertono. Magari non riescono ad uscire a questa consapevolezza, in modo lucido e determinato. Ma si accorgono.

Ecco, allora la faccenda è riprendersi il pensiero luminoso, aperto e felicemente incompleto, limpidamente provvisorio. In questo libro provo a sporcare le parole che uso, a sporcarle di questa polifonia di vita, di questa felice imperfetta incompletezza delle situazioni. La parola che non si sporca di niente, non tira su umori odori e sapori, come una buona pasta tira su il sugo, non vale nulla. E basta, insomma. Non ce ne facciamo nulla di cose troppo terse, troppo pulite.

Credo di aver chiaro cosa volevo raccontarvi, dopotutto. Desideravo che anche le storie più affastellate, complicate, si affacciassero ad un margine di speranza, all’apertura infinitamente interessante della possibilità, del fatto che niente è detto, che l’universo è in movimento accelerato, che nessuna situazione è statica. Volevo dirlo innanzitutto a me, e dirmelo nella unica maniera in cui so parlare a me stesso, nella maniera che mi riesce meglio, scrivendo.

A volte poi, mentre me lo dico, un altra, un altro, intercetta il mio discorso, lo trova interessante. E questo è veramente bello. Qualcosa che ha a che fare con ciò che pomposamente si chiama arte ed è accessibile, nella sua magnanimità, non solo ai conclamati grandi artisti ma a tutti noi nella misura in cui ci rendiamo disponibili a lasciare che un po’ di noi stessi venga usato da altri, senza che noi si detenga il controllo, si reclami il copyright emozionale.

Diciamocelo tutto, la sfida è questa. Tu, scrittore, vorresti avere questo controllo, dici tante belle parole ma vorresti controllare come la gente usa quello che scrivi, vorresti dire la tua, spiegare, evidenziare, manifestare, fare il critico di te stesso. Chiaro, il tuo ego spinge in questa direzione. Ma è un lasciar andare che ci vuole, un lasciare andare che è necessario. In questo caso, un ammettere che il ruolo del lettore è altrettanto creativo e inventa cose e le fa vivere tra le tue parole, che tu nemmeno hai idea. Nel caso migliore, il lettore fa l’amore con le tue parole, in un modo che tu non te lo immagini nemmeno. Le parole sono tue, ma le connessione che attivano, sono personalissime, sono di chi ti legge.

E che sia così, l’ho capito anche nell’ultimo giro di revisione, che è stato supportato da amiche ed amici. Che mi hanno arricchito e istruito, così che gli ultimi aggiustamenti, si può dire, sono stati fatti, insieme. E insieme si va più lontano, anche nella scrittura.

Questo è un fatto, incontestabilmente. E come si dice in un racconto di questo libro, un solo fatto, sorpassa mille pensieri.

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Il teatro dei sogni

In questo blog non ho mai veramente trattato del mio rapporto con i libri di Andrea De Carlo, non ho mai espresso il mio amore viscerale per la sua scrittura. Forse perché è un argomento troppo impegnativo, forse dovrei scrivere troppe parole, dovrei tentare qualcosa di eccessivo, sovrastante, ingombrante.

Del resto un vero amore è sempre eccessivo, è felicemente eccessivo, esorbita allegramente e spensieratamente dagli accorti (triti e ritriti) bilanciamenti di buon senso e ragionevolezza. Che diamine. Il vero amore è sempre intrinsecamente rivoluzionario, irrompe nel mondo non con un quieto vivere ma con la prospettiva irresistibile di cambiarlo, con la speranza robusta e inestirpabile di cambiarlo in meglio.

Allora penso, ci salveranno (in caso) persone innamorate, mica quelle addette alle infinite noiose microscopiche variazioni del ciò che è opportuno, o peggio del ciò che è doveroso. Mai più saggezza mai più cantava Ivano Fossati, pronunciando probabilmente una parola definitiva al proposito, alla quale tornare almeno una volta ogni tanto. Sono i sogni quelli che muovono il mondo, ci piaccia o no: rinunciando a sognare, il nulla avanza, il mondo sprofonda nella tristissima pretesa di sapere qualcosa di sé, e di gestirla.

Comunque. C’è la parola sogni nel titolo di questo libro, e non per caso. Perché è un libro di denuncia e di sogno insieme, e le due polarità si intrecciano in modo mirabile, grazie alla perizia di Andrea (questo è saper scrivere, sissignore).

C’è la denuncia, nel libro. Anzi, la radiografia molto precisa ed insieme ironica e quasi divertita (come deve essere, in un romanzo) dei meccanismi interni di due formazioni politiche molto popolari in questo tempo: non è molto difficile indovinare qual è il riferimento preciso per il Movimento Rivolgimento e per l’Unione Nazionale. Non è difficile proprio perché nel romanzo si percorrono le modalità di esistenza ed espressione che abbiamo imparato essere proprie di quelle compagini, con una freschezza d’attualità veramente notevole.

C’è anche il sogno, nel libro. La consapevolezza profondamente ristoratrice (oggi più che mai) della necessità di sognare in grande per non far scivolare il mondo nella miseria della mancanza di speranza. Perché alla fine è questo, alla fine è il sogno – la voglia e la capacità di sognare ancora – che fa da spartiacque tra i protagonisti del romanzo. Tra il marchese Guiscardo Guidarini, Agnese e (in parte) l’assessora Annalisa Sarmani e tutti gli altri, sindaci e faccendieri e responsabili di immagine e dirigenti di partiti e cronisti d’assalto e conduttrici televisive di programmi che riverberano il nulla più patinato ed ostinato. La differenza è che i primi ancora sognano, mentre gli altri sono parecchio più impegnati a recitare un ruolo: ruolo che trattengono con i denti sopportando la moderata e misteriosa infelicità, senza farsi più domande, senza pensare di uscire dalla finzione, di gettare la maschera.

Il nuovo, sia la scoperta di un antico teatro o un accenno di consonanza sentimentale, in fondo è accessibile solo ai primi, come solo i primi fanno la storia, mentre gli altri abitano il mondo senza incidere oltre le loro convenienze spicciole. I primi, si noti, non sono eticamente migliori dei secondi se non per questa decisione di tenere aperta la porta, non chiudere i conti, non rinchiudersi nel proprio ruolo (e questo nel romanzo si capisce).

Dunque è una differenza di attitudine, non di casta o di derivazione lavorativa o affettiva o territoriale o sessuale o altro. Per questo è bello, perché il romanzo sembra offrire a tutti questa possibilità. Non è quello che fai, ma come lo fai. Se ti metti ancora a giocare con il tuo ruolo, se ti fai sorprendere e sorprendi, è quello che fa la differenza.

E la trama, la trama non la racconto perché mi pare inutile, si trova già in rete d’altra parte. E anche, per me non è così importante. Dirò solo questo, che il romanzo si impernia sulla scoperta di questo antico teatro, che in realtà è una formidabile cartina di tornasole per svelare i moti dell’intelligenza e del cuore di una serie di persone che, per i più vari motivi, gli ruotano intorno.

Quello che reputo assai più importante, è il modo di scrivere di Andrea, che a mio avviso è totalmente unico. Il modo di far affiorare i sentimenti delle persone, anche. Quel canale privilegiato che parla direttamente con il cuore, quel modo di trasmettere per cui sento una corrispondenza viva e palpitante. Certi modi di accostare le parole e usare la punteggiatura, proprio. Mi accorgo di nuovo, leggendo questo libro, che scrivere è qualcosa di infinitamente morbido, modellabile. La sua scrittura la riconosco d’istinto, non so dire perché, ma la riconosco subito. Almeno nei momenti migliori, De Carlo è completamente inimitabile. Non è questione appena di essere bravo o no, ma di trasmettere su un registro assolutamente unico.

Il senso di umanità dei personaggi, poi. Anche quelli più discutibili, mostrano quel lato umano che li fa sempre e perennemente suscettibili di riscatto: ti accorgi che dipende da loro, appunto. Che anche una cronista d’assalto come la Del Muciaro, per dire, può fare il salto, può affacciarsi alla vita vera, se vuole. E non c’è un giudizio definitivo e chiuso su di lei. Come non c’è sugli altri. Se non appena, in realtà, un poco più incastrati nel ruolo appaiono i personaggi più appaiono potenti – in senso sociale e politico – se non altro perché per loro rivestire la maschera richiede una determinazione maggiore, più serrata e precisamente collimata, che sembra lasciare meno spazio a possibili scantonamenti. Ma anche lì, alla fine c’è una descrizione di atti, un giudizio anche forte e severo, ma aperto. Niente è già scritto, e in un certo senso ogni personaggio si gioca fino in fondo, fino in fondo può scartare di binario, cambiare strada.

Poi c’è il libro che ti piace e quello che ti piace meno, chiaro. Ad esempio il romanzo precedente, Una di Luna, non mi ha catturato davvero, mi è parso (nel complesso) giocato in tono minore, ho avvertito la mancanza di un affresco più grande, di un respiro di possibilità bella. Che qui invece ritrovo, felicemente. E perciò per me questo libro ha il gusto aggiuntivo di un ritorno, di assistere al ritorno di una persona che ti è cara, che ti è cara perché ti regala questo interlacciamento con il cuore, che ti è sommamente prezioso.

Ma quello che mi fa estasiare, su tutto, è la grammatica degli affetti. La descrizione precisa e dolce, dolcemente precisa, dei moti più lievi nel cuore, è qualcosa che mi riconduce di schianto al De Carlo che più ho amato, che amo da pazzi: da quando mi sono imbattuto nella sua penna con I veri nomi, fino al culmine di quel libro assolutamente straordinario e magico che per me rimane Durante.

Lo scrissi ad Andrea, una volta. Scrissi qualcosa come il difetto dei tuoi libri è che finiscono. Per i libri che ti affascinano, c’è questo problema, infatti. Che ti dispiace uscirne. Vedi le pagine che mancano alla fine, le soppesi (o guardi la percentuale di lettura sul Kindle, che si fa implacabilmente sempre più vicina al 100%) e avverti un senso crescente di disagio, di preoccupazione. Cavolo. No, non ti va di uscire. Non ti va di uscirne fuori, ormai. Del resto, è ragionevole. Come, hai vinto le mie difese, le mie diffidenze, hai costruito un castello di parole che mi parla davvero, sento tutti i personaggi del libro, mi metto nelle loro scarpe, soffro ed esulto con loro: i moti del loro cuore diventano i miei, per il magico potere della scrittura. E dopo tutto questo, mi chiedi di lasciare, di uscire?

Istintivamente, faccio resistenza. L’ho sempre fatta, davanti ad un libro che mi catturava. Con De Carlo l’ho fatta spesso. Qui se vogliamo, è esacerbata dal fatto che l’ultimo capitolo è veramente il culmine, è una chiusa geniale di impronta prettamente operistica (e non a caso si svolge in un teatro): i personaggi tutti insieme on stage in una sequenza davvero corale che è il cardine della narrazione ed insieme il momento in cui i nodi si sciolgono e si entra in un finale tanto sorprendente quanto – a pensarci dopo – perfettamente logico.

In questa fase terminale ogni personaggio entra in scena dovendo confrontarsi ormai senza scampo con l’opzione ancora possibile, di uscita in extremis dal nichilismo. È l’ultima possibilità dove ognuno gioca veramente se stesso.

Che sogni avete? Da dove vengono? Dalle pubblicità? Da internet? Oppure non ne avete nessuno? Cosa è successo ai sogni, dove sono andati? Sarà necessaria una catastrofe collettiva, perché si riprenda a sognare? Un blocco del nastro trasportatore che ci trascina a gran velocità verso il nulla?

Nell’intelaiatura delle diverse risposte si costruisce questo finale d’opera, dove l’emozione riprende piena dignità di esistenza e si propone come architrave ragionevole del tessuto del reale. Ripartire dalle emozioni, dall’affetto.

Perché quel che muove l’affetto è vero, è reale. Questo libro mi ha avvinto, tanto che sono ancora lì con i personaggi, passeggio nei luoghi del libro. Vedo quel teatro, e il teatro della vita politica italiana. E posso anche sorriderne, perché alla fine del libro capisco che c’è qualcosa che vola alto sopra tutte le manovre da piccolo cabotaggio, le convenienze spicciole. C’è voglia di fare, di migliorare.

C’è soprattutto qualcosa di lucente che non può morire, perché è profondamente radicato nel cuore di ognuno di noi.

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Una scuola visionaria e bella

Il testo che segue è la mia introduzione al volume “C’era una volta… sei racconti per una nuova educazione” di Carla Ribichini, edito da Universitalia e di recentissima uscita. Il libro è già disponibile su Amazon oppure su IBS.
C’è qualcosa che si muove, nell’educazione. C’è qualcosa che non accetta la stasi, che rigetta la narrazione di universo stazionario come ambito in cui tutto rimane sempre uguale, niente cambia. Ci sono ancora persone disposte a scommettere tenacemente sul cambiamento e sull’educazione. E che investono su progetti, anche di lungo respiro, anche rischiosi. Tutto questo, per esporre i più giovani ad una prospettiva nuova ma oltremodo necessaria, dove si possano sentire accolti come persone e non semplicemente come oggetti, numeri, entità disincarnate, destinate al mero assorbimento di un flusso più o meno articolato di nozioni.

C’è qualcosa che si muove, anche adesso. Scrivo da dentro un tempo sospeso, il tempo della pandemia, l’epoca imprevista di un virus – un microscopico parassita biologico, il COVID 19 – che è riuscito a “congelare” un mondo forse troppo in corsa, forse troppo in fuga da sé stesso. E a metterci davanti alla domanda sul senso del nostro vivere, oltre le corse quotidiane con le quali avevamo anestetizzato, perpetuamente rinviato tale domanda. La domanda di senso, l’unica domanda che restituisce quella speciale dignità dell’essere umano, che si misura con la vastità del cosmo e con il senso dell’esistere, dell’essere di tutte le cose.

I poeti lo sanno, da sempre. E’ utile rivolgersi a loro in questo caso. “Come vivere? – Mi ha scritto qualcuno a cui intendevo fare la stessa domanda. Da capo, allo stesso modo di sempre, come si è visto sopra, non vi sono domande più pressanti delle domande ingenue” scrive Wislawa Szymorska.

Il punto di svolta a cui ci chiama quest’epoca, è esattamente questo. Ritornare alla ricerca del senso di tutto, senza la quale ci muoviamo sulla superficie del reale, senza entrare nelle cose veramente. Restiamo prigionieri dell’ego, senza attingere al Sè più profondo, che si nutre di questa ricerca.

C’è qualcosa che si muove, in questo tempo. Che usa di questo tempo per investigare più a fondo, per trasformarlo alchemicamente in un’occasione di crescita umana. Qualcosa in noi ci dice che il dolore non ha l’ultima parola. Il fango può sempre trasformarsi in oro. Tutto serve.

Carla Ribichini è tra chi sceglie di non subire passivamente questo tempo così strano, di non abbassare la soglia del desiderio. Proponendo di vedere questo strano presente come un tempo di raccolta, prima ancora che di pianto. Questo libro è l’appassionata testimonianza del suo lavoro con gli alunni, che fiorisce da questo desiderio indomito. Percorrendone le pagine, scevre di ogni sterile analisi e dense di esperienza umana, possiamo assaggiare frutti davvero gustosi, frutti che ora più che mai devono aiutarci a vivere, a profumare anche queste giornate così strane, trascorse – per molti – nella reclusione domestica, ad immaginare un futuro quando la tentazione sarebbe proprio nella triste rinuncia ad immaginare, a sognare.

Lo fa adesso, Carla, raccogliendo saggiamente i frutti di un lavoro luminoso, che in questo periodo di oscurità rifulge ancora di più, e ci dona speranza. Una speranza che si comunica, si espande per sua natura, e che sono certo raggiungerà intatta i lettori del libro. La speranza non vuole mai rimanere confinata. La speranza è un fenomeno espansivo, è in un certo senso virale, per propria indole. Farci contagiare da essa ci immunizza da una ampia serie di patologie, psichiche e probabilmente anche fisiche. Siamo fatti in questo modo, funzioniamo a speranza.

Vorrei anche far notare come questa sorta di ribellione gioiosa conservi una sua profonda carica sociale e politica. Tornare ad immaginare, ci rende individui molto più solidi e robusti, capaci di riprendere un ruolo di partecipazione attiva nell’agone sociale. In grado cioè di rivendicare un ruolo di protagonisti, e non appena di elettori, o consumatori. Chi immagina, chi sogna, chi lavora per un futuro di inaudita bellezza, non è facilmente controllabile. Lo sappiamo bene, è solo la rassegnazione che ci rende pedine nelle mani dei potenti di turno. L’idea perniciosa che non cambi mai nulla, la ricaduta pesante nel modello di universo stazionario, in senso fisico e psichico. Invece, chi mette le mani in un filone d’oro, chi si nutre ad una prospettiva indomita, ad una speranza che non muore, finisce che il mondo lo cambia davvero. Lo cambia quasi senza volerlo, lo cambia ad ogni respiro, con la sua sola presenza. Lavorare ad un soggetto nuovo nel mondo, un collettore cosmico di speranza e fiducia, è la cosa più rivoluzionaria che possiamo concepire.

L’ambito educativo è certamente quello privilegiato, ed insieme il più sfidante. Conosco molte persone, molti insegnanti, che si rischiano in questo ruolo. Lo fanno quotidianamente, silenziosamente. Senza onori o compensi addizionali. Con semplice passione. Per qualcosa su cui non è sbagliato, una volta tanto, spendere la parola vocazione.

Davanti a questo, allora, il pericolo per noi, è non accorgerci. E’ lasciarci prendere dall’idea appiccicosa e sterile, che tanto non cambia mai niente. Rientrare quieti e rassegnati nel ruolo di spettatori, anonima platea telecontrollata che non attende, non sogna, non spera. Idea pericolosa, falsa e pericolosa. Perché rafforza la stasi, la permanenza in stati di bassa energia, di scarsa creatività, di speranza ridotta. Di vita a freno a mano tirato. Quando l’alternativa, invece, esiste.

L’alternativa va coltivata, come possibilità quotidiana. Questo libro che avete in mano, è vivo e pulsante come un esperimento in corso. Un esperimento che rientra in questo filone virtuoso, significativamente chiamato La Scuola Visionaria.

Come recita il progetto stesso

L’educazione visionaria è quella che sperimenta nuove pratiche, progetta e crea percorsi in cui gli aspetti cognitivi e quelli educativi non sono mai vissuti separatamente, ma si intrecciano continuamente.

L’esperimento ha un tempo e un luogo, come ogni esperimento che si rispetti. Il tempo è quello presente (ma non solo, le radici sono ben sviluppate e si estendono felicemente indietro), il luogo è l’Istituto Comprensivo Corradini (Vermicino, comune di Roma).

Ed è un esperimento relazionale per sua natura. Coinvolge ed integra altre competenze, chiama altre persone in officina. Io stesso, sono intervenuto diverse volte nel loro pregevole laboratorio, per dialogare di scienza e poesia. Incontrare i ragazzi, ma anche gli insegnanti e i genitori, è stata ogni volta un’avventura luminosa che si rinnovava fresca ad ogni occasione, un modo per comunicare a livello profondo, in un clima di attenzione e di rispetto raramente reperibile altrove.

Da astronomo, il mio mestiere è studiare le stelle e l’universo che le contiene, e mi piace raccontarlo, raccontare quello che scopro e quello che il mio lavoro mi porta a pensare. Devo confessare con stupore che in tutte queste occasioni l’attenzione e il coinvolgimento, sono stati realmente gratificanti. Ragazzi, insegnanti, genitori, nelle diverse occasioni, hanno accolto la proposta e accordato la loro vibrazione essenziale all’idea di ritornare ad imparare, ritornare a pensare ad un universo “morbido”, per imparare a guarire. Perché ogni visione rinnovata dell’uomo e del cosmo, è in realtà una guarigione.

Capisco che c’è del materiale umano formidabile, che non possiamo perdere, disperdere. Ogni persona in formazione è un universo di bellezza che si deve schiudere, deve aprirsi e interagire con altri universi, dispiegare con fiducia il suo profumo, il suo colore unico, irripetibile. Lavorare per questi universi in evoluzione, porsi a servizio di questa crescita, è la cosa più bella.

Ma vorrei aggiungere, non è solo quello.

E’ stata forte in me la sensazione di venire invitato all’opera in un campo che è già stato sapientemente coltivato, pazientemente arato, sistemato. Capisco che c’è un lavoro degli insegnanti, dietro tutto questo, un lavoro non di oggi, ma di tanti giorni, tante occasioni. E certi insegnanti, sono eroi: lottare contro lo scoraggiamento, le difficoltà personali, le condizioni spesso precarie in cui si trovano ad operare. Lottare per donare ai ragazzi qualcosa, una speranza, un riposo nuovo. Qualcosa che si potrebbero portare dentro, per la vita. Riprendere forza ogni giorno, per guardare ogni ragazza, ogni ragazzo, nel modo in cui chiede di essere guardata. Non come numero, non come produttore di (presenti o future) prestazioni, ma come persona. Posso chiamarli eroi, senza retorica.

Ma lo dicono anche i ragazzi (cito dal libro La scuola visionaria, firmato da Carla, che trattiene in modo efficace alcuni preziosi segni dell’opera)

Gli insegnanti sono eroi perché ci trasmettono la sapienza del mondo. Ci insegnano la poesia letteraria e quella corporea che colma il vuoto interiore riempiendolo di gioia. Sono eroi, ma non quel tipo di eroi con la calzamaglia e i super poteri… il loro potere è quello di incantare gli alunni con la voce del cuore. (Ivan)

Ed ancora

Lo studente cerca negli occhi degli insegnanti la certezza che la sua vita sarà perfetta o quasi. Gli insegnati sono balsamo quando nei nostri cuori c’è aria di tempesta, sono gentiluomini che custodiscono la nostra vita e si dedicano a noi con amore (Elisabetta).

Tanto altro si potrebbe estrapolare, ma questo, nel candore delicatissimo e commovente di cui sono capaci solo i ragazzi (e chi realmente torna bambino, facendo proprio il monito evangelico), è già sufficiente per definire uno spazio di azione, ed insieme un senso compiuto a questa opera in corso.

Che è un’opera grandissima, da condurre dunque con grandissima umiltà. Perché si tratta appena di questo, di mettersi a servizio di qualcosa, di un’idea presente, di una presenza, di una bellezza che investe l’uomo e lo rende sempre irriducibile a qualsiasi logica di mercato. Gli regala una rinnovata dignità.

Qui, solo qui, scienza e letteratura si possono incontrare, nella declinazione — anche balbettante — di un nuovo universo, dove l’uomo torna al centro di tutto, riprende possesso di tutto, ma finalmente in modo nuovo. Del resto, “Viviamo immersi in uno sconfinato oceano di energia. Ma questa energia, in definitiva, è nostra non per dominio ma per invocazione” ci dice Thomas Berry

Tutto ritorna nostro, nell’atto in cui apriamo le mani, invochiamo, lasciamo andare. Stiamo imparando un nuovo modo di stare nell’universo, un modo bello e nuovo che abbiamo il compito di trasmettere, a chi fa il cammino della vita, appena dietro a noi.

Perché così tutto torna, può tornare, più umano.

Qualcosa di così bello, per cui vale la pena affrontare il rischio. Per cui vale la pena, dedicare ogni sforzo. Per cui vale la pena, sopportare ogni pena.

Sempre dal libro citato, imparo che una scuola animata da idealismo ed amore visionario esercita un potere che rimane per tutta la vita e la trasforma.

A quale ideale più bello, più santo, potremmo mai pensare di dedicarci?

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