Blog di Marco Castellani

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Solo la (tua) vita, convince

Devo ammettere che all’inizio ero anche un poco perplesso, approcciandomi al volume “La vita è l’opera“, una autobiografia di Marco Guzzi, ideatore dei gruppi Darsi Pace (con i quali lo scrivente entrò in contatto ormai diversi anni fa). Essendo dichiarata come autobiografia, il timore di una operazione con una certa dose di connotazione narcisistica, devo dirlo, mi è inizialmente affiorato alla mente. 

Abbiate pazienza, con me. Non avevo ancora capito (e qui mi permetto un gigantesco spoiler) che avevo tra le mani uno dei pochi libri che si possono davvero leggere, adesso.
La faccenda, se vogliamo dirla tutta, è che il sottotitolo – come capisce ogni lettore dopo aver voltato anche un modesto numero di pagine – è fondamentalmente una balla.
Sì care Paoline, stavolta avete barato: giunti al ventunesimo volume della gustosissima collezione Crocevia (le cui variopinte copertine formano adesso una allegra adunanza di colori, nello scaffale), chissà come mai, ma l’avete fatta sporca. Il sottotitolo, una biografia è chiaramente una deviazione dalla verità, non ci sono scuse. 

Una felice deviazione, dovrei aggiungere a questo punto. Una sperticata sottovalutazione, nel complesso.
Perché è ben di più di una biografia, ed al contempo (come vi dicevo poco fa) è l’unico modo possibile, adesso, per ragionare su alcuni temi importanti, mantenendo alto l’interesse di chi legge. 

Perché l’autobiografia è così avvincente, adesso? Perché proprio adesso, in questi tempi estremi, abbiamo bisogno di testimoni, non appena di incontrare verità disincarnate. Il fatto che tutto l’argomentare sia innestato su una vita reale, che sia non appena proclamato ma vissuto, rende le cose più vere, le rende potenzialmente vivibili anche per noi. Le rende esattamente, una proposta per noi.

Quello che disse Luigi Giussani già negli anni Novanta parlando ad un gruppo di responsabili del suo movimento, risuona oggi di una attualità quasi sconcertante, «Il grande problema del mondo di oggi non è più una teorizzazione interrogativa, ma una domanda esistenziale. Non: “Chi ha ragione?”, ma: “Come si fa a vivere?”».

La cosa stupefacente, per me, è capire come questa frase oggi, proprio in questi giorni, si possa prendere alla lettera, anzi che lo si possa fare soprattutto oggi: sì oggi, barricati in rifugi domestici per il virus, chiusi in ambienti fisici (e spesso mentali) ristretti, desiderosi quanto mai di una finestra di apertura, di un punto di fuga che però non sia una diversione sterile, ma sia piuttosto un radicamento, forte, in cose che contano, in poche grandi cose (per dirla ancora con Giussani). Ma per carità, in un modo vivo e fresco, di nuovo finalmente vivibile, gustabile, direi quasi spalmabile sulla pelle. Respirabile, se volete. Insomma, molto concreto. 

In fondo è la rassicurazione robusta e lieta, del si può vivere così che ci serve, in questo periodo. Non ci serve veramente altro. Dice Guzzi in un altro testo (e lui sa che mi piace da matti), che noi esseri umani “non abbiamo bisogno di molto altro, ma solo di infinita consolazione” (per il dettaglio, si trova adesso all’apertura del volume “Facebook, il profilo dell’Uomo di Dio”). Ed allora, facciamola corta. Basta con i discorsi. Solo di questo abbiamo bisogno. Infinita consolazione. Di verità disincarnate ed astratte, di speculazioni intorno ai massimi sistemi davvero non sappiamo più cosa farne. 

Non sappiamo che farne perché non ci sono utili, non ci aiutano più, perché ormai la nostra coscienza moderna, la nostra potenziale consapevolezza – ci piaccia o no – è oltre l’asfittica disamina di torti e ragioni, di istruzioni per l’uso della vita che non abbiano sangue e carne, dentro. E’ inevitabilmente, storicamente oltre, e nessun ritorno indietro è più tollerabile. Soprattutto ora, che siamo stanchi di giochetti dialettici, che i giochetti dialettici sono fragorosamente saltati in aria, spazzati via finalmente, da questa infausta ed inattesa emergenza sanitaria.
E per inciso, se dopo, si tornasse come nulla fosse, alla contrapposizione dualistica di torti e ragioni, al combattimento fragoroso ed inutile delle mille opinioni, rimbalzate da un pagina di giornale ai social e viceversa, beh avremmo davvero perso una occasione. Che è presente, senz’altro presente, pur in mezzo a tanta sofferenza. 

Che poi se vogliamo, non c’è che da riscoprirla questa verità, in fondo non c’è da inventarsi nulla. 

Perché questo è anche il centro del messaggio cristiano, come evidenziato nel libro: nessuna verità disincarnata, la verità è una Persona. Lo ripetiamo da millenni, ma forse non l’abbiamo ancora ben capito, nel complesso. Meglio, non abbiamo assaporato tutta la aerea, sconfinata benefica larghezza ed inedita spaziosità di questa posizione, sempre nuova. Ma addentrandosi nel testo, questo si può anche non capire chiaramente, o non capire subito, e il fascino ti raggiunge ugualmente. Non ci sono ulteriori concetti da mandare a memoria, ci sono – Deo gratias! – cose che accadono.
Non è appena chi ha ragione che ci interessa, ma come si fa a vivere, perché la faccenda è questa, nel periodo presente, ogni sistema astratto che ci appagava tanto (in apparenza), è semplicemente saltato. Così è un aggancio biografico che appena ci può interessare, adesso. Così questo libro – e certamente altri, sullo stesso registro – oggi ci interessa particolarmente. O meglio, solo questo tipo di libri oggi si può realmente leggere, come saggio. 

Certo ci sono i romanzi, un buon romanzo attraversa i tempi ed è fruibile in ogni situazione. Ma come saggio, ecco, siamo qui, questo è ciò che è possibile leggere. Nessuna trattazione formale oggi regge. Questa sì, perché una vita è lo specchio di mille vite, ogni vita è una proposta alla nostra vita. 

Un libro esattamente per questi tempi, dunque. Sono tempi estremi, in cui solo una verità incarnata, una verità vivente, una verità non di concetti, ma di sangue circolante, ci può prendere.
Perché adesso ogni ulteriore diversione, deviazione, è semplicemente intollerabile. E allora si attraversano i temi eterni della cultura, della fede, della tecnica e dello sviluppo dell’uomo, della felicità e della politica, del matrimonio e della sessualità, della psicologia e del rinnovamento nella Chiesa, della morte e della creatività ma in modo ancora possibile, in modo ancora felicemente, carnale.

Ed è un piccolo ma robusto inno alla gioia quello che ne deriva, capace di ristorare e rincuorare il lettore smarrito di fronte agli eventi, donando un senso e una direzione, ragionevoli e (nonostante tutto) gioiosi, perché alla fine – fatemi dire così – non si tratta della vita di un tizio, che puoi conoscere o meno, puoi aver incontrato o meno. Non si tratta di essere esposti ad altre nozioni, a dotte speculazioni, riguardo la biografia di Marco Guzzi, riguardo i gruppi Darsi Pace, riguardo a questo o quello. Non sono ennesimi appigli perché tu “ti faccia un’idea”, metta un’etichetta alla cosa e passi avanti. 

No, ed è questo il bello. Alla fine capisci che si tratta della tua vita, e l’abilità semplice e potente di chi intervista (Francesco Marabotti) e chi racconta semmai, è sul rimanere ancorati a cose concrete di una vita, che scopri con piacere che riguardano direttamente la tua, di vita.

E la ristorano di una proposta, salutare.

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L’infinito di stelle

Così si chiama la bella canzone che apre l’album (straordinario, epico, mirabolante, destinato a restare) Mina Fossati, ed questo infinito di stelle mi torna in mente, mentre rifletto sui primi capitoli del libro di Amedeo Balbi, L’ultimo orizzonte. Cosa sappiamo dell’universo.  
Sì perché mi sembra proprio questo, mi sembra che ci sono cose a cui praticamente, non pensiamo mai. Nonostante siano cose enormi, siano questioni che definiscono e rinormalizzano la nostra stessa posizione nel mondo. Il modo in cui pensiamo e ci pensiamo, nel (nostro) universo. E non può essere che tutto questo non abbia impatto, in qualche modo –  anche involontario e irriflesso- sulla nostra vita quotidiana, su come ci rapportiamo agli altri, su come carezziamo il cane o nutriamo il gatto, sul modo in cui pensiamo al prodigio della nostra nascita, al mistero della nostra morte.

Le stelle non sono infinite. E per questo, ognuna di loro è speciale…
I primi capitoli del libro di Amedeo, trattano proprio di cosa c’è intorno. La grande questione, se siamo dentro un universo infinito, magari sempre uguale a sé stesso nel tempo e nello spazio (principio cosmologico perfetto, come si dice tra gli addetti ai lavori), oppure se quello che c’è intorno a noi è quantificabile, misurabile, è definito in termini di massa presente, di spazio occupato.
Io direi, davvero, che fa tutta la differenza del mondo. 
Certo oramai lo sappiamo – non ci spendo molte parole – che lo scenario cosmologico oggi comunemente adottato è quello del Big Bang, un “momento iniziale” da cui è derivata ogni cosa del nostro mondo fisico. Il quale, appunto, è finito (anche se non necessariamente limitato) derivando proprio dall’espansione – sia pur accelerata – di quel momento esplosivo (diciamo) al tempo “zero” del nostro universo. Abbiamo ormai accumulato una grande serie di dati che confermano questo scenario: sempre il nostro Amedeo, ne parla in modo interessante in uno dei suoi video.

Ma a parte i dettagli, andando dritto alle implicazioni filosofiche di questa teoria: un tempo iniziale, uno sviluppo, definisce molto limpidamente un prima e un dopo, il che si presenta come una irreversibile infrazione del principio cosmologico perfetto, che pure ha tenuto banco per molto, molto tempo. 

Come descritto nel bel volume di Amedeo, perfino Einstein si oppose al Big Bang: di fatto, perfino un fisico “moderno” come lui affondava le sue convinzioni nell’antico (e tenace) presupposto di un cosmo sempre uguale a sé stesso, in ogni tempo e ogni posizione. Quel presupposto che un universo in espansione (come crediamo sia il nostro) manda completamente a gambe per aria.

E rifletto su come sta cambiando il nostro modo di pensare, come ci stiamo adeguando a quanto ci dice la scienza.  O meglio, al modo in cui il cosmo risponde – oggi – alle nostre domande. Anche se avviene tutto molto, molto velocemente, ci stiamo adeguando. Difatti, non riesco a pensare davvero ad un universo infinito pieno di stelle, mi sfugge proprio, mi sfugge da ogni parte. L’idea di materia infinita è qualcosa che la mia mente non riesce ad afferrare, esulando da ogni esperienza sensibile.

Forse allora il Big Bang con la sua quantità finita di materia ed energia, è una cosa a noi più congeniale. Più ancora di quell’universo non solo illimitato ma anche infinito, pieno di stelle, di un infinito di stelle che propagandosi in ogni direzione sempre uguale a sé stesso, alla fine sfugge completamente ad ogni rappresentazione mentale convincente.

Ma poi se le stelle fossero infinite, sarebbero così tanto preziose? Così belle? Le stelle, le galassie, mi sembrano tanto più mirabili se penso che sono tante, tantissime, ma sempre numerabili.

Nell’infinito di oggetti, ogni oggetto conta zero, alla fine. Di oggetto come lui ce ne sono senza limiti, la sua esistenza è inessenziale. Nel nostro Universo, invece, ogni cosa (sia un essere vivente, una galassia, un pianeta, una luna) conta. In modo infinito, direi. Proprio perché non è l’infinitesimo componente di una serie. Proprio perché è unico. 

Ed essendo unico, arricchisce l’universo in modo specifico.
Un arricchimento di importanza decisiva.
Probabilmente, infinita.

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Le cose semplici

Non è un libro che si legge in un fine settimana, questo di Luca Doninelli. Ci vuole di più, parecchio di più, per attraversare da capo a piedi Le cose semplici. E’ un libro che richiama potentemente il valore della lettura. E non potrebbe essere altrimenti, con le sue 836 pagine (io non me ne sono troppo accorto, perché ho affrontato la versione Kindle, ma tant’è). 
E attenzione, vi avverto che non azzarderò una recensione vera e propria, ne sarei assolutamente intimidito. Ce ne sono, di recensioni, e a quelle senz’altro rimando. Io voglio annotare solo qualche impressione, soggettiva, umbratile, provvisoria. Però, sincera. 
Non è troppo facile, perché questo è un libro che esonda da tutte le parti. Del resto, ogni opera propriamente artistica ha questo di bello, non si lascia facilmente incasellare, definire. Ci si trova infatti davanti ad una sostanziale, salutare impotenza, visto che il linguaggio ordinario non è in grado di scavare a fondo, esaurire il materiale, definire con precisione. Perché il linguaggio ordinario, i principi ordinari di comprensione, di non contraddizione, di logica e perimetrica delimitazione, non funzionano più, vanno del tutto fuori giri. E questo è un bene, vuol dire che ci troviamo di fronte a qualcosa che merita. La mediocrità, infatti, è sempre facilmente definibile dal linguaggio normale, perché lei stessa non ha quel di più che trascende tale linguaggio. Qui è diverso, sostanzialmente diverso. 
Che poi la trama già è difficile, da definire in poche parole. E’ in sostanza la storia di una ricostruzione, potremmo dire. Sì, una lenta e fiduciosa opera di ricostruzione del tessuto sociale, di costruzione nuova di una possibilità di futuro, di una rinnovata architettura di speranza. 
Si ricostruisce, dopo il quasi azzeramento di una civiltà che non crede, non spera, non rischia, e perciò si rattrappisce, si ritira, si dissecca. Lascia il campo al nulla, nella misura in cui non ama, non palpita d’amore, non mette al centro l’innamoramento, la domanda inesausta del cuore di essere compiuto, felice. 
E difatti, non per caso, l’opera di (ri)costruzione viene di pari passo con lo sviluppo di una storia d’amore, di una storia che attraversa il tempo come ogni vera storia d’amore è chiamata a fare, che stende un tessuto connettivo di comprensibilità sulla devastazione sociale nella quale si snoda, che si impasta degli umori e delle debolezze dei protagonisti. Così è la storia di Chantal con Dodò, una storia intorno alla cui irresistibile verità anche le circostanze più avverse si arrendono, si aprono e si armonizzano, naturalmente senza elidere quella chiamata alla pazienza e al sacrificio che è così tipica – ci piaccia o no – delle cose semplici, delle cose vere. 
Fatemelo dire. Già leggerlo, è una avventura. Al giorno d’oggi, abituati al frazionamento di gesti, pensieri, azioni e decisioni, in un microcosmo sottile e mutevole di piccolissimi universi da consumare nell’istante, affrontare i tempi lunghi di un libro così, è una sfida. Un libro così è una lotta. Non si domina, infatti, ma si viene di fatto (piano piano) dominati. Non si racconta, ma si viene raccontati. Se però ci si arrende: questa resa è necessaria per entrare nell’opera. Solo con questa resa è possibile entrarvi. Un libro così, ti dice io ti devo raccontare, devo anche raccontarti, ma tu devi fare silenzio prima di tutto. Ed è una lotta, una vera lotta perché tu no, d’impulso tu non vorresti affatto fare silenzio, infatti tu sei pieno di cose da fare e di tante opinioni e giudizi da elargire, di situazioni da sistemare e sei normalmente pieno di fretta di far tutto questo, ma un libro così ti dice intanto ed innanzitutto, siediti e aspetta. 

Dunque l’avventura è aprirsi, fare silenzio, ascoltare. E la voce del narratore è solida, consistente. Mantiene quello che promette (e un libro di più di ottocento pagine promette molto, ed è impegnativo poi mantenere). Ci sono momenti che vai avanti a fatica, momenti in cui proprio lasceresti perdere, ti chiedi anche perché hai iniziato un libro così. Io mi sono anche fermato e ho letto altri libri, per non posticiparli troppo, cosa che forse non si dovrebbe fare. Ma poi ho ripreso. E ho trovato momenti assolutamente puri, limpidi, momenti di dialoghi fulminanti e frasi che ti stordiscono, proprio ti stordiscono, per quell’accento alla struttura luminosa del reale, che non lo capisci a fondo ma quando lo trovi, se lo trovi, ti ci attacchi tanto è bello, importante, definitivo. 
E in fondo questo libro parla soltanto d’amore. Ma è ovvio. Non sarebbe tollerabile un viaggio per centinaia di pagine, se non parlassero d’amore. Nessuno sano di mente, potrebbe sopportarlo. E di Parigi. Il racconto dell’innamoramento tra Dodò e Chantal è anche il racconto di una dolcissima Parigi, narrata con morbidissima precisione, fino ai crocicchi delle strade, fino al dettaglio più minuto, importante perché investito di una storia d’amore, che dona a tutto una dignità incredibile, che restituisce a tutto la sua specifica dignità d’esistenza. Nell’esperienza di un grande amore tutto ciò che accade diventa avvenimento nel suo ambito diceva Romano Guardini
Che poi, una storia d’amore che non contempli Parigi, in qualche modo anche remoto anche celato anche indiretto, non è credibile, non è vera. Ma questo libro mi richiama e mi ricorda, in una fitta trama di rimandi anche sottesi, lievissimi ma tenaci, un grande capolavoro come I promessi sposi. Che infatti, non a caso, vengono citati nel romanzo. Il manoscritto manzoniano è sostituito da una serie di quaderni. E la peste qui è, in chiave moderna, questo disfacimento nichilista della trama del reale. Identica è la chiamata all’opera di ricostruzione, in fondo. Identica l’urgenza, morale nel senso opposto a moralistico, ovvero nel richiamo alla necessità della gioia. 
In fondo questo libro parla solo d’amore, appunto. E di Parigi. E di Dio. Sì perché è anche una lunga e articolata lotta (nel senso di Giobbe) con Dio, con l’urgenza di capire come e perché Lui incontra la nostra storia, di cedere alla prospettiva pazza e sconvolgente di un Amore, totale. 
Dunque alla fin fine il libro parla di una cosa soltanto. Per questo in fondo le cose sono semplici, anche in una articolazione così lunga. Perché parla di quello che coinvolge il cuore, di quello che lo definisce e prende sul serio la trama profonda dei suoi bisogni, dei suoi desideri. 
Prendere sul serio un bisogno, prendere sul serio la sete di verità e compimento, che risiede nella parte più sacra del cuore umano. Questo distingue l’arte dalla chiacchiera, dal fatuo riempimento di tempo. Da questo, come nel libro, possiamo partire per ricostruire l’umano, in noi e tra di noi. 
Così che le cose tornino semplici, davvero. 

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Viaggio nel Sole…

E’ un piccolo viaggio nel Sole, quello che viene proposto in questo volume. Un viaggio che per chi scrive è iniziato diverso tempo fa, e si è concluso giovedì scorso, con l’uscita del volume in edicola, in connessione con il Corriere della Sera
 
Ora è qui, è solido, è concreto. 
 
E’ bello vederlo, sfogliarlo, pensare che tutto sommato ne è uscito un bel lavoro. Certo, un libro così è un lavoro di squadra, essenzialmente. C’è chi scrive (lo stesso che scrive le righe che ora state leggendo), e sceglie le (tante, tantissime) fotografie. Ma poi c’è chi fa il paziente lavoro di interfaccia con l’editore, e chi cura la grafica, la disposizione delle foto, la revisione del manoscritto, l’impaginazione, e tante altre cose, che sono piccole solo in apparenza.
 
Di questa avventura ne parlo un po’ più diffusamente su GruppoLocale (visto l’argomento astronomico, mi sembrava il posto adatto), ma non mi andava di lasciar passare la cosa senza che sporcasse un po’ di sé anche questo ambiente, che è quello mio più personale, in un certo senso più intimo, anche se aperto al mondo (interessante questa polarità, poi, questo lavoro continuo e non sempre facile, di verità nel raccontarsi davvero e di fiducia nell’aprirsi).
 
Grazie ad Umberto Genovese, per la bella immagine! 
Insomma è bello sfogliare questo libro, ora che è compiuto. Ricordando gli affanni, i momenti di crisi, quelli di esaltazione, e capire che soltanto l’applicazione paziente, l’adesione (tentativamente) umile a quel che c’è da fare, ha reso possibile che un’idea, un sogno, si trasformasse in un pezzo tangibile di realtà.
 
Il volume è l’undicesimo della seria Viaggio nell’Universo e fino ad oggi che scrivo, dovrebbe essere reperibile nelle edicole. Altrimenti almeno per un po’, lo potete trovare dentro il negozio online del Corriere, insieme ovviamente con gli altri volumi. 
 
Più di tutto, questo credo di avere imparato. Che le cose si possono fare, si possono realizzare. Grandi e piccole (che poi, ogni scala è relativa), anche cose piccolissime che nessuno vede, che sono spesso più grandi di tante visibili, per chi le fa, per la sfida che ha dovuto affrontare, le paure e le esitazioni che ha dovuto superare. 
 
Le cose si possono fare, io le riesco a fare (perfino io ci riesco), tanto più ci riesco, quanto imparo a dimorare nella domanda più che nella pretesa. Non è facile, è un lavoro sporco contro l’inclinazione spontanea, contro la continua deriva momentanea – un lavoro a volte aspro, quasi sempre faticoso. Ma a questo regime di frequenza, la risposta arriva, mi sento di dire, arriva sempre. 
A volte nei modi che non mi aspetto, ma arriva.
 
Un’evidenza, a volerla davvero vedere, quasi solare. 

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La casa degli sguardi

A volte ci sono dei suggerimenti a cui sei grato, semplicemente grato. Perché poi non sono semplici suggerimenti, sono delle proposte per incrementare la vita, per aumentarla. Sono spunti che ti aiutano ad essere vivo, un po’ di più. 
Spesso infatti ci diciamo, anche noi fisici ed astrofisici, che tutto è relazione, ma poi ci dimentichiamo che questo ha grandi e profonde ricadute anche nella nostra vita ordinaria. Proprio gli incontri e le connessioni, infatti, rendono questa vita più fonda, più imprevedibile, più meritevole d’essere vissuta. Un po’ più inattesa e lieta, in generale. 

Lo spunto di incontro con questo libro, e con Daniele Mencarelli, che ne è autore (che incontro personalmente al meeting), è quello di un ambiente e  di amici di cui ti fidi. Un suggerimento di lettura che non riesci a buttar via facilmente.

Certo, magari ti chiedi, perché proprio questo libro? Capisci la proposizione dei testi di Giussani (che peraltro, l’hai capito ormai, sono fonte inesauribile di sorpresa), capisci tanto altro (come i classici della narrativa, tesori luminosi dei quali sei grato, ma che in verità ti sorprendono meno, a livello di proposta), nei libri consigliati, ma questo in particolare ti incuriosisce. Un libro di narrativa contemporanea? Deve esserci sotto qualcosa, non può essere semplicemente come tanti altri, un prodotto per l’estate, uno dei tanti lanci editoriali che strizzano l’occhio ad argomenti facili, a narrazioni di poco impegno. Deve esserci una storia umana, sotto.

Quando chi ti propone qualcosa è per te autorevole, sei persuaso (lo sei, anche se ancora non comprendi) che quel che ti indica è di valore.

Il libro l’ho terminato pochi giorni fa, e sono grato, come dicevo, semplicemente grato. E’ una storia umana che tocca il cuore in modo profondo, perché Daniele racconta senza infingimenti, senza veli letterari. Mette giù la realtà così com’è, senza proporsi di abbellirla. All’inizio ti spiazza, totalmente. I suoi problemi di dipendenze, i rapporti con i genitori, soprattutto il nulla che attanaglia, non lascia respiro. Il senso del tempo che porta via tutto, da cui non si può scappare – se non apparentemente, con uno stordimento dei sensi, con una smemoratezza chimica od alcolica, che però riporta invariabilmente al punto iniziale. Ed anzi, nel tempo, accresce il disagio, la confusione. E allarga drammaticamente la confusione, lo stordimento, il cupio dissolvi, proprio alle persone a cui più si tiene.

E’ una situazione drammatica, quella da cui parte il libro. Tutto questo è raccontato così, in modo diretto. Senza abbellimenti, senza scansare gli aspetti più penosi e dolorosi.  E nel contempo, senza usare una sola parola più di quelle necessarie.

Lo confesso. Io ci credo che Daniele è un poeta. Non ho ancora letto molto di lui, a parte questo libro, ma ci credo totalmente. Perché solo un poeta ha questo profondo rispetto per le parole, per quello che dicono, che indicano. Solo un poeta le usa con verità ma con misura, senza indugiare negli effetti di coloriture eccessive o senza farsi tentare da sbiadimenti moralistici. Le usa per la profondità che loro hanno, insomma le rispetta, come già si diceva. Una per una.

Solo un poeta, insomma,  parla con questa verità.

La storia che racconta Daniele, scopertamente e dichiaratamente autobiografica, è come una salita dantesca dalle tenebre alla luce, una storia della quale preferisco lasciarne fuori i dettagli per non guastare a nessuno l’esperienza della lettura. La cosa che mi preme notare, è che il passaggio avviene in modo graduale, non trascurando niente, non censurando nulla. Parte anzi da una visione sincera di sé, fuori da ogni infingimento. Solo una presa di coscienza integrale di quello che si é, senza scandalo e senza belle intenzioni, può mettere in moto. Ma certo, non basta.

Due cose fondamentali che mi arrivano dal libro, devo ancora dire. Due cose rendono infatti possibile questo cammino, rendono praticabile, lavorabile, questo percorso.

Una è il valore dell’amicizia (che letteralmente, può salvare la vita). Davide è l’amico poeta che concretamente fornisce l’appoggio per Daniele, gli rende concreta la possibilità di un percorso di uscita da una condizione insostenibile, orientata alla vittoria del nulla, all’autodistruzione. L’amicizia entra in campo come opposizione profonda e radicata, a questa deriva. Come offerta di una relazione che sfida il nulla, ne smentisce la suggestione, lo sfianca. Ma questo è il primo passo. E non è tanto il fatto concreto, l’opportunità specifica (l’offerta di un lavoro presso l’Ospedale Bambino Gesù, in questo caso), ma il fatto profondissimo che scende nel cuore, di sentirsi guardati, sentirsi amati. Essere guardato infatti è il primissimo passo, che consente a Daniele di ripensarsi come esistente, e di poter scommettere su una positività del reale, che pure a volte sembra drammaticamente nascondersi.

L’altro è la percezione di evidenza, appunto, di questa positività, che non rimane appesa ad una teoria o ad uno sforzo volontaristico perché si riesca a vedere, ma si palesa lei stessa, in una inedita ed inattesa  bellezza.  Qui arriviamo al punto, all’architrave del libro. Non sono discorsi, non sono prediche, non sono elencazioni di valori morali che potranno salvare Daniele, che potranno salvare ciascuno di noi. E’ piuttosto la percezione potente della bellezza, come uno squarcio di luce che entra fino nelle circostanze più penose, vi entra e le illumina di una nuova possibilità.

L’episodio della suora che viene sorpresa mentre sorride e scherza con un bambino orribilmente (per Daniele, per tutti noi) malformato, è il vero punto di deflagrazione interna, di uno scoppio sotterraneo ma devastante, potentissimo, ingestibile. L’evidenza di una bellezza che muove la anziana suora a comportarsi in questo modo, è in un certo senso terribile. Nel senso che non ti lascia in pace, non ti dà tregua, ti accende dentro l’esigenza di spiegarti, di rispondere a quello che hai visto. Di fartene un modello, diremmo noi scienziati. Ma nessuno modello riduzionista riesce a tenere, nessuna ipotesi a decostruire rimane salda, quando chi vive è costretto, è ricondotto, ad ammettere la verità, l’accento di verità – e quindi di bellezza – di quanto ha visto, con i suoi occhi.

Vivendo nella carne, appunto. Non sono discorsi, ideologie, strategie ed utopie a sollevare Daniele, a sollevare ognuno di noi dai suoi stati più bassi, da donargli nuova libertà nelle sue dipendenze. E’ il tocco concretissimo del reale che lo viene a trovare, con quell’evidenza lancinante di un altro fattore che a questo punto entra, deve entrare, nella sua e nostra concezione del mondo, dei rapporti tra le persone, del destino ultimo del cosmo fin nelle sue più lontane stelle. Si tratta di non abiurare mai più a questa concretezza: «Noi non vogliamo Cristo solo, vogliamo anche gli alberi, la donna, tutte le creature!» diceva don Giussani.

Ed è davvero una occasione concretissima che fornisce a Daniele quel punto di appoggio che rende di nuovo la sua vita plastica, modificabile, lavorabile. E che insieme gli insinua quel gusto necessario per intraprendere l’opera, che è fatica e sacrificio, come per tutti noi, in qualsiasi condizione ci troviamo.

In quel gusto di costruzione i nostri limiti non sono più scogli insuperabili, si ammorbidiscono essi stessi, e si crea piano piano la sensazione di poter scorgere un percorso, che non censura, non dimentica nulla, non insiste sulla debolezza ma scommette sul potere della vita, su questa luce che affiora sul volto di una suora di più di ottant’anni che abbraccia e sorride a ciò di cui noi siamo spaventati. Da lì si inizia a vedere la realtà con occhi nuovi, e a questa nuova visione la realtà risponde, in un percorso che – non a caso – apre a Daniele la strada per realizzare la propria vocazione, donando la risposta operativa alla domanda più profonda, io perché sono qui? che è sotto alla domanda pressante perché questo dolore? che accompagna tante pagine del libro.

C’è bisogno di vedere, di vedere accadere cose così, di leggere libri così, per non squalificare la nostra vita giocandocela in modo opaco o spento. E per ritornare a domandare davvero, a domandare la gioia piena: perché domandarla non è sconveniente, non è fuori luogo, ma è proprio questa domanda (a volte sussurrata, a volte urlata) il luogo dove poter dimorare, dove poter tornare a dimorare.

Non bisogna nemmeno essere capaci di sorridere, se talvolta non ne siamo capaci. Piuttosto, occorre avere occhi aperti per vedere il sorriso aprirsi sincero sul volto di un’altro quando – per fortuna o piuttosto per grazia – ancora accade, davanti a noi.  

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La vera stella che vuoi essere

Assai volentieri ospitiamo la presentazione integrale della professoressa Carla Ribichini (I.C. Comprensivo “Marcello Corradini”, Roma), contenuta nel volume di racconti per ragazzi “Anita e le stelle” (Arsenio Edizioni, Euro 14) in uscita in questi giorni, già disponibile su Ibs.it.
 

«A volte  mi  sento  brillare  come  una  stella  che  non  vive  in  cielo,  vive sulla  terra  e  brilla  anche  di  giorno.  È  facile  sentirsi  una  stella,  basta amare  la  vita  e  sentire  dentro  la  vera  stella  che  vuoi  essere.  Dentro tutti  siamo  stelle.»  

 
Così  Davide,  in  modo  semplice  e  commovente,  racconta  la  sua  esperienza  dopo  la  lettura  del  racconto  di  Marco  Castellani La bambina e il quasar
 
Gli  alunni  della  scuola  media  “P.M.  Corradini”  di  Roma  hanno partecipato  al  progetto  Educare  narrando… tra  Scienza e Poesia e hanno  compreso  che  raccontare  una  storia  non  è  pratica  oziosa,  ma strumento  per  educare  e  risvegliare  i  cuori.  Lasciar  parlare  la  voce delle  storie  è  importante  perché  le  storie  mettono  in  movimento  la vita  interiore,  soprattutto  quando  è  denutrita,  spaventata  e  messa  alle strette,  come  spesso  lo  è  la  vita  dei  nostri  giovani. 
 
 
Unire  lo  studio  metodico  e  rigoroso  dello  scienziato  allo  stupore e  alla  meraviglia  del  poeta  è  l’azione  coraggiosa  di  Marco  Castellani. I  momenti fondamentali  del  suo  prezioso  lavoro:  ricerca  e  conoscenza, restituzione  e  servizio,  sono  stati  per  noi  strumenti  di  apprendimenti significativi.  La  sua  passione  per  l’universo  e  il  suo  amore  per  l’uomo che  lo  abita  lo  hanno  spinto  a  donarci  una  scienza  nuova.  Lo  scienziato  illuminato  sa  che  la  conoscenza  da  sola  non  basta,  ed  ecco  allora  che,  tra  le  righe  dei  suoi  racconti,  si  affaccia  una  scienza  che  si rende  disponibile  e  comprensibile  e  si  mette  a  disposizione  di  tutti  attraverso  emozioni  e  ritmi  narrativi.  

L’autore,  scienziato  e  poeta,  ha voluto  divulgare  la  scienza  in  modo  nuovo,  l’ha  liberata  dalle  sue  catene.  Una  scienza  non  più  prigioniera,  ma  dettata  dal  cuore  ha  reso comprensibili  i  concetti  più  astratti  e  complessi;  l’intimo  colloquio  che l’autore  è  riuscito  a  stabilire  tra  scienza  e  poesia  è  stato  la  chiave  segreta  per  conoscere  il  mistero  della  vita.  
 
I  racconti  sono  stati  una  finestra  aperta  sul  cielo.  La  curiosità  e  lo  stupore  della  protagonista  e la  sua  forte  determinazione  alla  conoscenza,  hanno  aperto  un  varco e  spalancato  le  porte  dell’universo;  la  classe  si  è  trasformata  in  un vero  e  proprio  osservatorio  e  i  ragazzi,  che  generalmente  hanno  lo sguardo  rivolto  a  terra,  hanno  alzato  gli  occhi  e,  con  il  naso  in  su,  si sono  divertiti  a  contare  le  centinaia  di  migliaia  di  stelle,  hanno  assaporato  l’armonia  perfetta  che  anima  il  cosmo.  E  il  cosmo,  prima  lontano  ed  oscuro,  a  poco  a  poco,  si  è  fatto  loro  più  vicino,  i  corpi  celesti  sono  entrati  nello  spazio  del  loro  cuore  cambiando  il  loro  universo interiore:  tutti  hanno  conosciuto  il  cielo  sopra  e  dentro  di  loro  e  fatto esperienza  del  legame  profondo  che  c’è  tra  gli  uomini  e  le  stelle. 
 
Così  raccontano  Marika  e  Aurora 

«In  un  punto  sparso  dell’universo  ci  siamo  io  e  le  mie  possibilità:  ogni  mia  molecola  è  unica,  capiente  di  speranza  e  saggezza,  voglio  incamminarmi,  fare  un  passo in  avanti  e  trovare  la  mia  luce.  Vari  stadi  di  conoscenza  evoluta  mi attendono  e  le  stelle  aspettano  il  mio  arrivo.»  (Marika) 

«Sono  una  piccola  stella  che  brilla,  silenziosa  e  tranquilla,  sempre in  evoluzione.  L’essere  umano  è  rinchiuso  nella  parte  più  buia  e  triste di  sé.  Credo  che  tutti  noi  siamo  stelle  e  dobbiamo  evolverci,  uscire  da quella  profonda  oscurità  e  affrontare  la  vita  nella  luce.»  (Aurora) 

La  lettura  è  stata  un’avventura  affascinante,  ha  permesso  ai  ragazzi  di  diventare  un  po’  esploratori,  un  po’  scienziati,  un  po’  poeti  e conoscere  le  meraviglie  della  scienza.  L’autore,  con  umiltà,  ha  guidato  tutti  a  scoprire  la  bellezza  che  dorme  nascosta  nell’universo  e, in  modo  delicato  e  discreto,  ci  ha  coinvolti  per  proteggere  e  salvare la  nostra  dimora  planetaria.  I  ragazzi  si  sono  sentiti  chiamati  a  fare la  loro  parte,  hanno  lavorato  con  la  serietà  di  veri  scienziati,  hanno imparato  a  guardare  il  cielo  e  hanno  sentito  il  desiderio  di  portare  la sua  luce,  il  suo  raccoglimento  e  il  suo  silenzio  sulla  terra  bisognosa. Queste  sono  le  loro  sincere  e  commoventi  promesse:  

«Le  corde  dell’Universo  mi  avvolgono  e  mi  trascinano  in  un  insolito  viaggio. Vedo  sfumature  di  energia  potente  che  galleggiano  sulle  onde  del mare  infinito.  Le  stanze  dell’Universo  sono  aperte  e  il  ragazzo  che non vuole  sprofondare  in  un  buco  nero  guarda  oltre,  ascolta  il  silenzio delle  stelle  e  della  loro  pazienza.  Sa  trovare  la  giusta  direzione, mantenere  le  promesse  e  migliorare.»  (Marika) 

«Ogni  volta  che  appoggio  la  testa  sul  cuscino,  in  quell’istante prima  di  addormentarmi,  vedo  in  uno  specchio  la  mia  immagine  rifratta  che  si  tramuta  prima  in  acqua  e  ancora  in  aria  e  quell’aria  arriva  nel  lontano  universo.  Da  lì  osservo  il  mondo  e  mi  sento  libera: sono  un  piccolo  anello  di  una  grande  catena,  sono  un  piccolo  strumento  di  un’infinita  orchestra  e  di  un’infinita  armonia.  Come  ragazza dell’universo  prometto  che  sarò  forte  e  tenace  e  lo  salverò.»  (Monica) 

«Prometto  di  trasformare  il  male  delle  persone  in  amore,  di  piantare  il  seme  della  conoscenza,  di  lasciar  giocare  la  mente  con  le stelle  e  di  correre  con  le  comete.  Come  un  vecchio  saggio  prometto di  ascoltare  il  silenzio  siderale  dell’universo»  (Tiziano). 

L’uomo  ha un assoluto  e  urgente  bisogno  di  essere  introdotto  alla Scienza  e  comprendere  il  mondo  in  cui  vive,  da  sempre  si  è  sentito misteriosamente  attratto  dalla  potentissima  energia  che  continuamente  piove  dal  cielo,  da  sempre  ha  percepito  una  forza  primordiale strettamente  connaturata  con  la  sua  vita;  eppure,  di  fronte  all’immensità  del  creato,  ha  provato  paura  e  solitudine;  avvicinarsi  all’astrofisica  e  conoscere  l’universo  è  per  lui  un’esperienza  importante e  necessaria. 
 
L’astrofisico  Marco  Castellani  ci  ha  dato  l’opportunità  di  interagire  con  la  Scienza  e,  con  la  leggerezza  del  poeta,  ci  ha  permesso  di ascoltare  la  voce  dell’universo;  in  modo  stimolante  e  coinvolgente,  ci ha  ricordato  che  l’universo  ha  bisogno  di  ognuno  di  noi,  della  nostra consapevolezza  e  del  nostro  lavoro;  i  suoi  racconti  sono  stati  un  sofisticato  e  potente  telescopio  grazie  al  quale  abbiamo  compiuto  un vero  e  proprio  viaggio  planetario. 
 
Alla  fine  del  viaggio  le  distanze  si  sono  sorprendentemente  annullate:  scienza  e  poesia,  cielo  e  terra,  abissi  e  altitudini,  esseri  umani e  stelle,  tutto  strettamente  connesso,  legato  e  unito.  Ci  siamo  sentiti finalmente  meno  soli,  abbiamo  subito  il  fascino  delle  stelle  e  capito di  essere  a  casa,  innamorati  del  nostro  immenso  cielo,  quello  sopra di  noi  e  quello  dentro  di  noi. 

«Ho  visto  pianeti  conosciuti, 
narrati  con  amore 
ho  ascoltato  le  loro  storie, 
assaporato  le  loro  verità 
mi  sono  accorta  di  essere  tutt’uno  con  l’universo 
e  che  l’universo  è  in  me.» (Daniela)

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Roma, somiglia anche a me

Roma mi somiglia Roma mi somiglia by Serena Maffia
My rating: 4 of 5 stars

Mi è piaciuto. La poesia della Maffia è sanguigna, pulsionale, apparentemente delicata con degli affondi inattesi, luminosi, completamente carnali. Roma è diffusa in tutta questa raccolta poetica, che gioca con i mille ritmi del cuore, e l’innamoramento è sempre del corpo e della città, di un corpo e una citta, definita, determinata, storica e luminosa. Non c’è separazione tra privato e sociale, tra spazi intimi e angoli e piazze cittadine, c’è appena un comune sentire, un soffio di sottile gioia che comprende e non separa, mette insieme e lascia fiorire. Poesia leggera, che non pretende e non spaventa, e per questo, poesia (di nuovo) possibile compagna di vita.

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Ecco, ogni tanto ci penso. Lasciare traccia di quanto si legge, anche questo è un compito. Qualcosa che aiuta a fare un cammino, ad uscire dalla distrazione, dalla omologazione. Che è la stessa cosa. Il cammino che abbiamo davanti è di esprimere la nostra personalità, di macchiare il mondo di noi stessi, dei nostri personalissimi umori, odori. Siamo unici, e ogni tragitto di letture – anche – ci rimette davanti alla nostra unicità.  Come reagiamo a quanto troviamo scritto, come interagiamo con le parole pensate, dette, scritte da altri? 
E la poesia, specialmente la poesia, non è alla fine una semplice faccenda di interazione, di intersezione, tra chi scrive e chi legge? Ogni libro di poesia che trovo, che apro, non è per me la possibilità di arricchire la parola scritta, facendola vibrare dei miei stessi personali autostati, impregnandola di vita, della mia vita? La poesia grande, quella vera, assorbe la vita degli altri, è aperta ad ogni vita, la fa risuonare e la esalta. La mia vita passa dentro i versi di qualcun’altra, do qualcun’altro, e mi ritorna più colorata. 
Come Roma. Lei, lei davvero si fa teatro attivo delle emozioni di chi la percorre; le assorbe, le custodisce, le impreziosisce delicatamente e le ritorna più dense, arricchite di una qualità speciale. Personale, soprattutto. Roma non ha tempo da sprecare (e nemmeno tu, nemmeno io), per rimanere anonima, spersonalizzata, disincarnata o astratta. No, per niente. Invedce, Roma avvia un dialogo speciale ed unico con ognuno. Così che lo posso dire, alla fine. O già all’inizio, già al primo scorcio di infinito domestico. Roma mi somiglia, infatti. 
Somiglia anche a me. 

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Una scuola che guarisce

Il post sul blog della scuola recita proprio così, c’è una scuola che diventa ogni giorno poesia. Ed è forse la cosa più bella, e al contempo più concreta, più solida, più antiretorica che si possa affermare, sull’educazion. Perché la poesia ha questo in comune con ciò che ci appare normalmente “con i piedi per terra”, cioè con la scienza: è estremamente concreta. In fondo, poeti e scienziati fanno lo stesso mestiere, è ormai assodato. Sarà forse per questo, mi chiedo, che c’è chi prova a farli… entrambi? 

L’incontro con le seconde classi dell’I.C. Corradini di Roma, sul mio libro Imparare a guarire, non è niente di improvvisato o estemporaneo, ma è il coronamento di un lavoro veramente bello che hanno fatto gli insegnanti – la professoressa Carla Ribichini e le sue colleghe – in un arco ormai di diversi mesi, direi con allegra costanza. Lavoro molto radicato e concreto, che abbiamo riportato in varie sedi, tra cui il blog della sezione educativa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica.

Lo penso, questo lavoro, come qualcosa che cresce, che irrobustisce, che accende una piccola ma consistente luce di speranza: per questo ha valore, direi oltre le nostre piccole persone. Per questo è importante. Per questo, ancora, sconfessa e fa esplodere – direi dall’interno – tante analisi anche giustificate, ma in fondo (mi pare) inutilmente e pericolosamente rinunciatarie, che vengono fatte quotidianamente sullo stato dell’educazione in Italia. 

C’è davvero una scuola diversa, una scuola visionaria e bella, che rispetta ed onora le emozioni e per questo cerca di farle crescere e germogliare su un terreno sano, colorato, morbido. Cerca di aiutare i ragazzi a guarire, a fiorire nella loro splendida unicità. Non certo massificando, omologando, preparando al mondo del consumo: no, niente di tutto questo. Lo fa, piuttosto, entrando a piccoli passi nella diversità meravigliosa di ognuno di loro, custodendola e onorandola con intelligente amorevolezza, accompagnandola con delicata sensibilità: premessa indispensabile perché possa fiorire, nel tempo, al suo tempo. 
Per questo ci si serve utilmente anche della poesia, delle poesie. Il mio sincero riconoscimento va dunque ai professori dell’Istituto Corradini che hanno visto nel mio recente libro uno strumento di lavoro, leggendovi delle potenzialità d’utilizzo che io stesso non avevo affatto messo a fuoco con tale limpidezza. Per questo,  ci siamo ritrovati, mercoledì 31 di ottobre, insieme ai ragazzi, agli insegnanti e ai genitori interessati, per celebrare insieme questo lavoro che è intrinsecamente poetico, in radice.

Si tratta, in fondo, di imparare a guarire tutti insieme, facendo appoggio sul nostro stare insieme – non in senso volontaristico, ma per esercitarci in una mutua comprensione, una feconda reciproca  compassione. Con noi, per radicarci al compito ed insieme al territorio (siamo ai bordi di Roma, al confine dell’Impero), graditissimi ospiti alcune persone dell’associazione Frascati Poesia tra cui Rita Seccareccia.

Ed è stata, veramente, una celebrazione, o se volete, una festa. Questo è il carattere, sempre perso ma sempre da ricercare, dell’uomo nascente, che è magari debolissimo in tutto ma forte in questo desiderio di luce, pace ed integrità. Forte, in questo inesausto anelito di rinascere fuori da ogni menzogna e ogni roboante retorica, per un pensiero nuovo che sia, innanzitutto, un respiro profondo, un respiro fiorito, che lo redime perpetuamente e redime perpetuamente ogni cosa intorno. Già credere in questa possibilità, crederci davvero, è invitare l’universo ad ordinarsi in tale senso:  è una cosa attiva e rivoluzionaria insieme. 
L’incontro si è svolto tra lettura delle poesie del libro, impreziosite dalle emozioni e dalle impressioni che avevano suscitato nei ragazzi, e musiche e danza, in un alternarsi lieto che chiama molto concretamente all’unità di ogni espressione artistica. Soprattutto, vivendo questo evento, mi era chiaro il potere di guarigione, la carica terapeutica di tutto quanto stava avvenendo. In queste occasioni mi diviene proprio lampante. Ero in un posto, in un angolo di spaziotempo, dove i ragazzi possono – insieme agli adulti – depositare amorevolmente i propri crucci, le proprie tensioni di persone in crescita, e celebrare il dono di essere vivi, in fondo. Farlo in modo consapevole, non distratto come ci propone la società del consumo. Farlo in modo vivo da donne e uomini vivi, quali siamo. Questo angolo di spaziotempo diventava così improvvisamente e dolcemente il centro, il luogo dove le cose vengono in luce, vengono (ri)create, diventano nuove.
Per questo la poesia. di tutto questo la parola, in Questo Universo, è un vettore, un enzima formidabile. Infatti questo Universo ama farsi raccontare, e molti doni si ricevono – io penso – per questa nostra disponibilità al racconto, alla parola.

Come scrivono bene i ragazzi, con profondissimo intuito, la parola poetica è questo strumento quasi taumaturgico, che compie mille e mille meraviglie, che si pone come ponte sopra il razionalismo esasperato da una parte e le tentazioni dell’irrazionale, dall’altra. Proponendo un percorso sano di ragionevolezza, sano e morbido, sano e sorridente.
Tutto è avvenuto nella tranquilla familiarità di un ambiente che fa dell’accoglienza la sua cifra più evidente, almeno per il sottoscritto. E se queste impressioni che registro sembrano enfatiche, non è per una tensione retorica, ma è perché io al Corradini mi sento a casa, devo dirlo. E non c’è protagonismo o affermazione o esibizione di talento o simili sterili situazioni. Affatto, direi. C’è un senso piacevole di officina, un senso d’essere tutti – appena – lavoranti in quest’opera, che ci sorpassa e ci trascende. 
E ci trascende alla grande, ma con allegria, offrendocene anche a noi, di quell’allegria sottile e profonda – così diversa da quella forzata della civiltà della distrazione – che rimane dentro, rimane sotto, in fondo al cuore, e che lo alimenta, nei giorni dell’autunno dove freddo e pioggia non fanno più dimenticare a lungo che c’è il sole a cui riscaldarci, comunque. 
Sì, c’è il sole di quest’opera comune, che aiuta noi adulti e aiuta i ragazzi, forse appena un po’ (ed è moltissimo) nell’opera di costruzione e di perpetua, rinnovata e rinnovante, guarigione.

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