Non è un libro che si legge in un fine settimana, questo di Luca Doninelli. Ci vuole di più, parecchio di più, per attraversare da capo a piedi Le cose semplici. E’ un libro che richiama potentemente il valore della lettura. E non potrebbe essere altrimenti, con le sue 836 pagine (io non me ne sono troppo accorto, perché ho affrontato la versione Kindle, ma tant’è). 
E attenzione, vi avverto che non azzarderò una recensione vera e propria, ne sarei assolutamente intimidito. Ce ne sono, di recensioni, e a quelle senz’altro rimando. Io voglio annotare solo qualche impressione, soggettiva, umbratile, provvisoria. Però, sincera. 
Non è troppo facile, perché questo è un libro che esonda da tutte le parti. Del resto, ogni opera propriamente artistica ha questo di bello, non si lascia facilmente incasellare, definire. Ci si trova infatti davanti ad una sostanziale, salutare impotenza, visto che il linguaggio ordinario non è in grado di scavare a fondo, esaurire il materiale, definire con precisione. Perché il linguaggio ordinario, i principi ordinari di comprensione, di non contraddizione, di logica e perimetrica delimitazione, non funzionano più, vanno del tutto fuori giri. E questo è un bene, vuol dire che ci troviamo di fronte a qualcosa che merita. La mediocrità, infatti, è sempre facilmente definibile dal linguaggio normale, perché lei stessa non ha quel di più che trascende tale linguaggio. Qui è diverso, sostanzialmente diverso. 
Che poi la trama già è difficile, da definire in poche parole. E’ in sostanza la storia di una ricostruzione, potremmo dire. Sì, una lenta e fiduciosa opera di ricostruzione del tessuto sociale, di costruzione nuova di una possibilità di futuro, di una rinnovata architettura di speranza. 
Si ricostruisce, dopo il quasi azzeramento di una civiltà che non crede, non spera, non rischia, e perciò si rattrappisce, si ritira, si dissecca. Lascia il campo al nulla, nella misura in cui non ama, non palpita d’amore, non mette al centro l’innamoramento, la domanda inesausta del cuore di essere compiuto, felice. 
E difatti, non per caso, l’opera di (ri)costruzione viene di pari passo con lo sviluppo di una storia d’amore, di una storia che attraversa il tempo come ogni vera storia d’amore è chiamata a fare, che stende un tessuto connettivo di comprensibilità sulla devastazione sociale nella quale si snoda, che si impasta degli umori e delle debolezze dei protagonisti. Così è la storia di Chantal con Dodò, una storia intorno alla cui irresistibile verità anche le circostanze più avverse si arrendono, si aprono e si armonizzano, naturalmente senza elidere quella chiamata alla pazienza e al sacrificio che è così tipica – ci piaccia o no – delle cose semplici, delle cose vere. 
Fatemelo dire. Già leggerlo, è una avventura. Al giorno d’oggi, abituati al frazionamento di gesti, pensieri, azioni e decisioni, in un microcosmo sottile e mutevole di piccolissimi universi da consumare nell’istante, affrontare i tempi lunghi di un libro così, è una sfida. Un libro così è una lotta. Non si domina, infatti, ma si viene di fatto (piano piano) dominati. Non si racconta, ma si viene raccontati. Se però ci si arrende: questa resa è necessaria per entrare nell’opera. Solo con questa resa è possibile entrarvi. Un libro così, ti dice io ti devo raccontare, devo anche raccontarti, ma tu devi fare silenzio prima di tutto. Ed è una lotta, una vera lotta perché tu no, d’impulso tu non vorresti affatto fare silenzio, infatti tu sei pieno di cose da fare e di tante opinioni e giudizi da elargire, di situazioni da sistemare e sei normalmente pieno di fretta di far tutto questo, ma un libro così ti dice intanto ed innanzitutto, siediti e aspetta. 

Dunque l’avventura è aprirsi, fare silenzio, ascoltare. E la voce del narratore è solida, consistente. Mantiene quello che promette (e un libro di più di ottocento pagine promette molto, ed è impegnativo poi mantenere). Ci sono momenti che vai avanti a fatica, momenti in cui proprio lasceresti perdere, ti chiedi anche perché hai iniziato un libro così. Io mi sono anche fermato e ho letto altri libri, per non posticiparli troppo, cosa che forse non si dovrebbe fare. Ma poi ho ripreso. E ho trovato momenti assolutamente puri, limpidi, momenti di dialoghi fulminanti e frasi che ti stordiscono, proprio ti stordiscono, per quell’accento alla struttura luminosa del reale, che non lo capisci a fondo ma quando lo trovi, se lo trovi, ti ci attacchi tanto è bello, importante, definitivo. 
E in fondo questo libro parla soltanto d’amore. Ma è ovvio. Non sarebbe tollerabile un viaggio per centinaia di pagine, se non parlassero d’amore. Nessuno sano di mente, potrebbe sopportarlo. E di Parigi. Il racconto dell’innamoramento tra Dodò e Chantal è anche il racconto di una dolcissima Parigi, narrata con morbidissima precisione, fino ai crocicchi delle strade, fino al dettaglio più minuto, importante perché investito di una storia d’amore, che dona a tutto una dignità incredibile, che restituisce a tutto la sua specifica dignità d’esistenza. Nell’esperienza di un grande amore tutto ciò che accade diventa avvenimento nel suo ambito diceva Romano Guardini
Che poi, una storia d’amore che non contempli Parigi, in qualche modo anche remoto anche celato anche indiretto, non è credibile, non è vera. Ma questo libro mi richiama e mi ricorda, in una fitta trama di rimandi anche sottesi, lievissimi ma tenaci, un grande capolavoro come I promessi sposi. Che infatti, non a caso, vengono citati nel romanzo. Il manoscritto manzoniano è sostituito da una serie di quaderni. E la peste qui è, in chiave moderna, questo disfacimento nichilista della trama del reale. Identica è la chiamata all’opera di ricostruzione, in fondo. Identica l’urgenza, morale nel senso opposto a moralistico, ovvero nel richiamo alla necessità della gioia. 
In fondo questo libro parla solo d’amore, appunto. E di Parigi. E di Dio. Sì perché è anche una lunga e articolata lotta (nel senso di Giobbe) con Dio, con l’urgenza di capire come e perché Lui incontra la nostra storia, di cedere alla prospettiva pazza e sconvolgente di un Amore, totale. 
Dunque alla fin fine il libro parla di una cosa soltanto. Per questo in fondo le cose sono semplici, anche in una articolazione così lunga. Perché parla di quello che coinvolge il cuore, di quello che lo definisce e prende sul serio la trama profonda dei suoi bisogni, dei suoi desideri. 
Prendere sul serio un bisogno, prendere sul serio la sete di verità e compimento, che risiede nella parte più sacra del cuore umano. Questo distingue l’arte dalla chiacchiera, dal fatuo riempimento di tempo. Da questo, come nel libro, possiamo partire per ricostruire l’umano, in noi e tra di noi. 
Così che le cose tornino semplici, davvero. 

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