Categoria: bisogno
A parte gli scherzi, qui c’è qualcosa.
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Lei, la copertina… |
C’è qualcosa in questo album Start, che non permette che lo si metta via con troppa facilità. C’è qualcosa nella musica e nelle parole, che mi fa pensare, che mostra un punto di valore. Che mi ci fa tornare.
Anche, che mi fa rivedere alcuni giudizi forse frettolosi, forse impazienti, forse involontariamente saccenti, che avevo formulato e per i quali mi tenevo abbastanza lontano da Luciano Ligabue. Non ne sapevo forse abbastanza, tutto qui. Che poi, appunto, nessuno sa mai tutto di qualcuno. Ma anche, direi, o meglio potrebbe dire lui (come infatti davvero dice, anzi come davvero canta, sempre nella stessa canzone) hai mai conosciuto qualche d’uno che ti conosca?
E bravo. C’è infatti questa zona, questa zona grigia, che è tra me e te, tra me e chiunque, che è la frantumazione, la sconfessione del mito della conoscenza completa l’uno dell’altro (dell’altra). Che poi a pensarci bene, è anche lì dove naufraga il mito persistente e luminescente, che ci sia una persona che mi può salvare. Incidentalmente, questo ammette l’unica scappatoia di una persona con la maiuscola, ovvero una Persona: allora è chiaro – crediamoci oppure no – comunque è chiaro che si riapre la discussione. Oppure, che i rapporti con le persone siano fondati e resi fragranti e colorati e profumati (d’accordo, quando accade) dal rapporto, dal tentativo di rapporto, dall’implorazione di rapporto, di conforto, con una Persona. Sempre con la maiuscola.
Così una canzone appena, mi riporta a tutto questo, con un realismo che avverto sano, semplice e coinvolgente. Mi riporta al fatto inequivocabile che nessuno può conoscermi completamente, e che il mio tenacissimo sogno in questo senso appena questo, un sogno magico. E forse un sogno comodo, artefatto. Che mi evita la fatica, che mi vorrebbe far bypassare ogni lavoro su di me, che ultimamente mi riporta bambino, nella ricerca di una figura materna che possa soddisfare e addirittura prevenire ogni mia necessità, ogni mio desiderio.
Bellissimo, sarebbe bellissimo, certo. Però penso, così rientrerei in caduta libera in me stesso, totalmente irrimediabilmente in me stesso. Così non mi muoverei, non andrei verso l’esterno, non proverei a fare, a costruire, a rischiarmi in niente. Per dire, non starei scrivendo, adesso. Nessuno scrive, da dentro la pancia della sua mamma. Del resto, a parte l’oggettiva difficoltà dell’impresa: non ne vedrebbe la necessità.
Che poi, il rapporto con le persone, per quanto non compia in sé, è fondamentale, ugualmente.
Ho bisogno di te
Che hai bisogno di me
Per cambiare il tuo mondo
Hai bisogno di me
Che ho bisogno di te
Per cambiare il mio mondo
Il mondo (mio, tuo) non lo cambio da solo. Ho bisogno di te. Devo uscire dal mio mondo, per venirti a cercare, per cambiare il mio mondo, e il tuo. In altri termini: la completezza a cui anelo, non la trovo organizzando le mie cose, ragionando chiuso sulle mie cose. C’è una incompletezza originaria, che mi spinge verso fuori. Non posso rimanere chiuso, devo aprire i confini, aprire i miei porti, rischiarmi nella relazione. Non è bene che l’uomo sia solo, dice Genesi 2,18.
Va beh, che poi fin qui si sarebbe parlato appena delle prima canzone di questo Start. Che probabilmente non è neanche la più bella canzone dell’album. Album, va detto, che mostra (davvero) una certa finezza psicologica in Quello che mi fa la guerra. Che ha delle gemme delicate e intime come Vita morte e miracoli, che ha… Beh non è escluso che non se ne riparli, anche qui.
Non adesso, che sono già andato un po’ lungo. Forse, nel tempo davanti, però.
Eccoci. Eccoci ad Abacab.
Di Abacab si potrebbe parlare per intere stagioni. La prima cosa è… ma come ha fatto? Come ha fatto Phil Collins, o meglio come hanno fatto i Genesis (c’è molto lavoro di squadra), a tirar fuori una cosa del genere? Il gioco di risposta tra chitarra e tastiera è sublime. La linea di basso è deliziosamente implacabile, sottolinea bene l’urgenza e il senso di perentorietà. Parte proprio con il basso che scandisce, scandisce inesorabile. Un primo messaggio: come dire, qui non si sta scherzando. E infatti è così. Non è un pezzo di intrattenimento: qui si fa sul serio. La coda strumentale poi è purissima meditazione per formazione rock. Una sequenza di note semplice, semplicissima, quasi un gioco di bimbi. Eppure incredibilmente efficace.
Its an illusion, it’s a game,
Or reflection of someone elses name.
When you wake in the morning,
Wake and find you’re covered in cellophane…
“Ti svegli la mattina e ti scopri incartato nel cellophane…” No, non è il Collins delle canzoncine che ti intrattengono, ti fanno passare piacevolmente quei tre-quattro minuti. E’ il Collins che attinge a piene mani dalla parte profonda di sè. E genera un capolavoro.
Well, there’s a hole in there somewhere.
Yeah, there’s a hole in there somewhere.
Baby, there’s a hole in there somewhere.
Now there’s a hole in there somewhere.
C’è un buco da qualche parte. C’è una mancanza. I conti non tornano. Qui lo dice, finalmente, in modo molto diretto. Ecco, è una canzone sul dramma di una mancanza. Sul dramma contemporaneo. Sul dramma, senza altra aggiunta. Nessuno può chiamarsi fuori, nessuno può ascoltare con sufficienza. No perché il fatto è semplice, ci sei dentro, la linea di basso è la linea del pensiero che si avvita ossessivamente, che cerca di rispondere alla mancanza. Che prova ad organizzarla, a capirla. Ecco perché ti risuona subito addosso, la senti. E nel dolore sei confortato – ecco il potere dell’arte! Perché la mancanza finalmente assume dei contorni, è riconoscibile. Esce da te, finalmente evade dalla tua solitudine. Vedi, non è più soltanto tua. E’ umana. Non è solo tuo questo smisurato bisogno. E’ umano.
Ed ecco, è condiviso.
Baby, there’s a hole in there somewhere.
Eccolo. Intanto, la prima cura, la prima sanità mentale, il primo passo verso un percorso di guarigione, di conversione al positivo, è prenderne atto. Non nasconderselo.
Rispetto alla versione da studio, poi, questa è forse anche più bella: la parte finale della coda è impreziosita da un giro di accordi che porta ad un climax inedito, che si adatta benissimo al contesto. Appena dopo viene il riepilogo del tema principale, e poi la chiusa.
Complessivamente, una vera meraviglia.
Behind the lines e Duchess pescano ancora da quell’album fantastico che è Duke. Che proprio queste versioni dal vivo mi hanno fatto capire quanto fosse fantastico. Ci voleva un Phil Collins in fase matrimoniale problematica per tirare fuori queste perle, questo parlare autentico.
Anche il resto del lavoro è godibile. Ormai siamo tra amici, anche i pezzi più vecchi filano via bene, resi collinsoniani dalla voce e dalla inconfondibile batteria.
Insomma, il mio rispetto per i Genesis post-Peter è cresciuto immensamente, riascoltando questo lavoro. Zoppi, null’altro che zoppi diceva la recensione di And then there where three su un antico numero di Stereoplay (che è stata per anni la mia rivista musical-tecnologica di riferimento). E in un certo senso è vero – magari per quell’album è più vero, lo concedo.
Ma qui questi zoppi volano altissimo. A pensare a quanta musica degli anni ottanta, riascoltata, suona così insopportabilmente velleitaria! Ho provato a riascoltare gli Ultravox, che a suo tempo mi facevano impazzire. No, non riesco più, a parte qualche pezzo. Ora che li vedi alla distanza, lo capisci: molta elettronica, due o tre idee, riciclate un po’ furbamente a tirar fuori il pezzo.
Qui invece te la godi, te la godi proprio…
E poi sono una squadra. Mi fanno pensare ai Beatles, in un certo senso. Compattissimi, nessuno fuori dai ranghi. Nessuno che ti fa sparate individualistiche. Non c’è un assolo di chitarra che sia uno, ad esempio. E anche la batteria di Phil, sempre evidente, è comunque al servizio del gruppo, niente invenzioni estemporanee. Ma va bene così. Tutto è perfettamente funzionale al risultato complessivo.
Perché già dire bene un bisogno, è come accoglierlo.
Perché già accogliere un bisogno, dargli spazio, è come curarlo.
Come esporre la ferita, farla spurgare. Perché possa essere sanata.
Domandare che sia sanata: una semplice domanda, e già filtra la luce, la vedi filtrare.
Perché le regole dell’universo sono queste, perché … la domanda è già un miracolo. È il primo modo della coerenza, del compimento di sé, della propria libertà (Luigi Giussani)