Non la conoscevo, Adriana. Non l’ho mai incontrata, nemmeno da lontano. Eppure era da tempo qualcosa di mio. Intendo, la sua musica era diventata mia, nel tempo. E nel cammino. Nel cammino che lei ha fatto e io, tra cadute e riprese, allontanamenti e ritorni, provo a fare. Sono ancora qui che provo, e le sue melodie mi risuonano dentro come argini sicuri dove incanalare le emozioni, il desiderio del bello, del vero, il desiderio di essere a casa, di essere amati e protetti ed accuditi. Il desiderio di un perché, soprattutto.

Nelle assemblee cantavamo Povera Voce e mi è sempre apparso un canto semplice e bello, limpido e chiaro. Non c’è una parola di troppo, non c’è un pretesto per non camminare, per non camminare in queste parole e dunque iniziare – o riprendere – il cammino personale.

Scrivo ora su Adriana Mascagni, a poche ore dall’inizio della celebrazione dei suoi funerali. Scrivo di una persona che si è fatta strada nel mio cuore con la sua arte, è entrata con la persuasività della sua musica, delle sue parole.

Banale dirlo, forse. O ridirlo. Ma il potere dell’arte è questo, di colpo una persona che non hai mai visto ti entra dentro in modo prepotente e perentorio, attraverso il canale dell’arte, perché tu e lei, tu e lui, siete entrati in risonanza per un tema musicale, per delle parole, per un dipinto. Improvvisamente ecco che ti importa. Quello che fa questa persona, ciò che produce, diventa importante per la tua vita. Se (per dire) sei un astronomo, ti occupi della Luna e delle stelle, ecco che Luna e stelle sono nel suo canto, sono il suo canto. L’arte vera è gentile e viene a parlarti nel linguaggio che tu conosci: lo fa lei tutto il lavoro per collegarsi con te. Tu devi solo aprire gli occhi, le orecchie.

Nel bel messaggio di Davide Prosperi di ieri compare una citazione stupenda di Luigi Giussani, riguardo il canto:

Chi non è toccato da un concerto di archi, come si può essere insensibili dinanzi ai colori di una sonata per pianoforte? Sembra il massimo. Eppure, quando sento la voce umana… Non so se capita anche a voi: ma è ancora di più, e di più non si può. Davvero, non esiste un servizio alla comunità paragonabile al canto.

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L’artista entra nella tua vita con il suo materiale e poi che farne di tutto questo, decidi tu. Non mette alcun freno alla tua libertà. Il servizio alla comunità è reale, penso, se si gioca ultimamente in una possibilità offerta specificamente ad ogni persona: la proposta arriva così al singolo. Come dire, ti propongo questo, tu cosa ci fai? Come la tua creatività incontra la mia, cosa vi costruisce intorno?

Al proposito, ieri mi è tornata in mente una cosa. Nel mio (finora) unico romanzo, Il ritorno, avevo scelto di intervallare la narrazione con dei brani di canzoni – italiane e straniere, antiche e moderne, le più varie – che inquadrassero il momento narrativo e allo stesso tempo ne suggerissero una lettura più profonda. Un’idea che è piaciuta e personalmente ritengo che funzioni, almeno in questo caso.

Ebbene, nella parte finale, l’ultimo capitolo dal titolo Roma Caput Mundi (che è anche un omaggio alla mia città), rientrano due citazioni della canzone Povera Voce. Non era esattamente preventivato, è uscito così, scrivendo. Proprio verso la fine, la chiusa, la risoluzione dove entra luce, entra una possibilità di luce, di pace. Affidarsi nella luce e nella pace, anche nelle ombre affidarsi. Con tutta la propria imperfezione, affidarsi.

Ecco qui la parte con il mio omaggio ad Adriana (nessun clamoroso spoiler se un domani dovreste leggerlo).

Allora il tempo che passa forse poteva – pensai – forse poteva essere una cosa dalla quale non fuggire, ma da accettare, senza paura. Forse era un percorso bello fare, insieme. Forse le cose dovevano andare così, non si deve tendere per forza ad un passato mitizzato. Forse si può rientrare nel presente. Vivere il presente, insieme. Ma è possibile solo se si può davvero ricominciare, sempre.

Povera voce, di un uomo che non c’è…

Avevo una paura fottuta di perdere l’attimo, anche, di rientrare in una vita d’abitudine. Volevo con tutto il cuore che questa epifania d’un mattino romano fosse qualcosa di permanente, durevole. Anch’essa, robusta. In quell’attimo Arianna mi strinse la mano di più, come per fugare i miei dubbi.

“Mi daresti un bacio, adesso?” sussurrò.

“Qui?” dissi.

“Sì, qui e adesso! Sbrigati, stupido!” disse lei ridendo.

La nostra voce, canta con un perché…

Così ci baciammo vicino alla fontana della piazza, come due diciottenni, incuranti di tutta la gente che ci passava accanto. Capii solo allora cosa vuol dire. Abbracciare una donna, una donna cresciuta, matura. Una donna, impregnata di vita vissuta, non una acerba ragazzina. Impregnata della vita fin nelle pieghe più nascoste. E’ una cosa incredibile, tutti dovrebbero farne esperienza. Adesso volevo lei, desideravo lei al presente, lei vicino a me.

Ti ringrazio Adriana perché sei entrata dolcemente nella parte finale di questa piccola storia, ti ho portata con me e ti ho depositata lì, in quel momento luminoso in Roma dove avviene una cosa intima e grande, dove la mente esce dai suoi oziosi circoli e ricircoli in forza di una decisione presa. In forza di un perché la nostra mente si fa chiara, la nostra voce si fa limpida. Tante volte si fugge, tantissime. L’uomo che non c’è ci è tristemente familiare, in tanti spazi di giornata ed in tanti giorni dell’anno. Ma non è un problema. E siamo anche fragilissimi, debolissimi, ma che importa?

Importa poter cantare, riprendere a cantare, con un perché.

Ciao Adriana, fai buon viaggio.
E grazie, di cuore.

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