Blog di Marco Castellani

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Vivaldi, si ripete

Sì Vivaldi, ma non Antonio, il celebre musicista. Quello che con entusiasmo oserei dire dadaista Franco Battiato citò nel celebre verso nel quale gli preferiva l’uva passa. No, questa volta intendo appena parlare del browser. Quel programmino che usiamo per navigare su Internet, ovvero quel programmino interagendo con il quale passiamo ormai anche diverse ore della giornata. Quella finestra sul mondo, ora potremmo dire sull’Universo. Quella che ci consente di osservare i panorami di Marte, o vederci da lontanissimo. Quella che stai guardando ora, insomma. Un tempo si chiamava Mosaic, ed era cosa sconosciuta ai più. Ah, quanto tempo. Cioè, pochi anni che sembrano moltissimi. Del resto, si sa che il tempo è relativo, la fisica stessa ce lo dice.

Il browser Vivaldi, con il tema Library di Wellingtonkling

Ormai di tempo (qualsiasi cosa sia davvero) ne è passato un po’ da quando ho parlato di Vivaldi. Tempo passato, in parte, per esplorare meglio anche altri blasonati concorrenti. Sono infatti reduce da un periodo di utilizzo – anche entusiastico, in certi momenti – di Brave, un altro browser basato su Chrome con alcune interessanti caratteristiche: prima di tutte, quella di rimborsare gli utenti per il tempo speso sui diversi siti, con una criptovaluta apposita, il Basic Attention Token (BAT). Di più, provando a sostituire le pubblicità del web con un proprio circuito di promozioni, con delle garanzie specifiche di non tracciabilità e privacy. Ma questa faccenda (che ha pregi e difetti) potrebbe senz’altro essere argomento di un altro post.

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Due milioni per Hubble…

Sarebbe impresa difficilissima, quella di chi volesse esagerare sulla portata che ha avuto – e sta ancora avendo – il Telescopio Spaziale Hubble per la moderna visione del cosmo. Sono veramente innumerevoli, infatti, le cose che Hubble ci ha aiutato a comprendere, in tutti questi anni di onorato servizio: un insieme di ricadute scientifiche che spaziano dalle stelle a noi più prossime fino ai più remoti quasar, in una mole di dati che ancora attendono per buona parte di essere compiutamente ed accuratamente esaminati, e che ancora aspettano pazientemente l’estrazione di tutte le informazioni ivi contenute.

In diverse occasioni in questo blog ci siamo occupati delle scoperte di Hubble, alcune davvero mirabolanti. Stavolta perciò vorrei tentare un discorso più generale: Invece di parlare di cosa ha trovato Hubble, vorrei volgere un attimo lo sguardo su di lui, su questo fantastico telescopio spaziale. E mentre lui lassù impiegava sapientemente il tempo ad osservare altri mondi, su come intanto sia cambiato il nostro. E profondamente.

Nebulosa Carina

Una suggestiva immagine della Nebulosa Carina vista da Hubble (Crediti: NASA, ESA, and the Hubble SM4 ERO Team)

Consideriamo soltanto che Hubble viene lanciato nel 1990 (con un ritardo sulla data prevista di diversi anni, anche in seguito al terribile disastro del Challenger). E’ interessante analizzare questa storia dal punto di vista delle comunicazioni: il lancio infatti precede di pochissimo la nascita di quella innovazione relazionale che avrebbe cambiato completamente il nostro mondo: la nascita di Internet possiamo infatti datarla al 1991, anno in cui Tim Berners-Lee definisce il protocollo HTTP. Questa è la base teorica di partenza per lo sviluppo di sistemi testuali distribuiti, ovvero, quello che ci voleva per riempire le nuove connessioni di rete di contenuti. In poche parole, nasce il web, anche se all’inizio avrà diffusione lenta e ci vorrà molto tempo prima che le persone comuni si accorgano che qualcosa è cambiato.

Ma ci siamo, qualcosa ormai sta cambiando. Così, mentre Hubble osserva le più lontane galassie (sopratutto dopo aver risolto il problema dell’aberrazione sferica di cui soffriva all’inizio), il mondo sotto di lui, il nostro mondo, inizia a sperimentare un nuovo ed inedito modo di sentirsi connesso, un nuovo modo di far circolare le informazioni. Una nuova umanità si trova affacciata su uno strato di bit che piano piano ricopre il pianeta, lo percorre da parte a parte.

Oso dirlo, una umanità nuova, perché lo stesso strumento – con le sue potenzialità – chiama ad una evoluzione della specie che lo ha inventato. La capacità estrema di comunicare richiede sia un nuovo atteggiamento relazionale, che contenuti validi e condivisi che possano essere trasmessi efficacemente e con profitto. L’evoluzione dell’uomo è più lenta di quella delle macchine, lo sappiamo. Ma i tempi forse sono maturi perché veramente si possa piano piano far germogliare un modello di uomo anch’esso davvero proficuamente inserito in una rete di relazioni.

E tra queste relazioni c’è sicuramente la comunicazione scientifica. Ma non si pensi qui a semplice divulgazione. La rete che è cresciuta mentre Hubble volava, quella rete che usiamo tutti tanto che ci sembra quasi più preziosa dell’acqua, ci consente di rendere finalmente la scienza una avventura partecipata da un ampissimo numero di persone, a volte (come nei progetti ZooUniverse, di cui ci siamo occupati diverse volte), stemperando perfino il confine – un tempo drasticamente netto – tra chi fa scienza e chi ne viene semplicemente informato. Quel confine prima così deterministicamente tracciato, ora si fa invece morbido, labile, quantisticamente indistinto: non c’è un vero confine, il confine dipende dall’osservatore. Dipende da come tu ti poni davanti a questo mare di potenzialità.

Non è una visione romantica, è la pura realtà. Ormai basta un computer connesso a rete, per seguire, a volte in tempo reale, le esplorazioni di ambienti tra i più remoti ed inaccessibili. Esaminare accuratamente immagini di Marte, o infilarsi tra gli anelli di Saturno. Le risorse alle quali poter accedere – alcune di grandissima qualità – sono ormai sterminate, lo sappiamo: ed è sufficiente coltivare un poco di curiosità per cadere facilmente in tragitti di scoperta impensabili quando Hubble iniziò il suo volo.

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Ed è da pochissimo che la pagina Facebook ufficiale di Hubble si è trovata a festeggiare il superamento dei due milioni di iscritti (mentre scrivo siamo a quota 2.005.015 per la precisione, quando leggerete sarà certo di più). Un risultato che, per un satellite lanciato prima che qualsiasi persona si immaginasse appena qualcosa come un social network, è assolutamente lusinghiero e anche testimone di come – pur da lassù – si sia inserito proficuamente nella grande rete. Diffondendo così un po’ della magia di quello che ha osservato per anni, e sta osservando, ponendolo delicatamente sotto i nostri occhi.

Auguri Hubble! Ti dobbiamo proprio tantissimo, lo sai.

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Gaia e lo Zoo: quando la scienza (ri)diventa possibile

Siamo decisamente in epoca di Big Science: la ricerca spaziale è dominata da grandi progetti che sono frutto della collaborazione di molte persone, disperse sovente su tutto il pianeta. Un esempio eclatante – solo uno tra i tanti – è la missione GAIA, da poco entrata in piena attività, destinata a fare un censimento di una porzione di Via Lattea di dimensioni mai viste prima: un catalogo accurato di miliardo di stelle.

Gaia è un progetto ESA, ovvero Agenzia Spaziale Europea, ed è un caso emblematico di quello che si può intendere per Big Science: è un satellite al quale si lavora da anni, da molti anni prima del lancio, e si sta lavorando alacremente tuttora: rifinendo continuamente le procedure di analisi e riduzione dati, verificando le condizioni della sonda, digerendo i primi dati che sta inviando a Terra, etc. 

Gaia è sopratutto una sfida esaltante – sia sotto l’aspetto tecnologico quanto sotto quello squisitamente scientifico – che promette di portare avanti veloce la nostra concezione di come è fatta la Via Lattea, ma pure di come si formano ed evolvono galassie simili a questa (e sono tante), e quindi, in qualche modo, di come si sviluppa e si evolve l’universo.

A livello di percezione comune, tuttavia, il rischio è che simili enormi progetti possano far sentire più lucidamente del dovuto, la distanza tra questi grandi team e le persone “normali”. Portando all’estremo uno scollamento che rischia di scoraggiare e incutere un timore reverenziale decisamente controproducente, ed anche – in qualche modo – fuori posto. Certo, perché la scienza comunque è un’avventura di tutti, e questi progetti sono comunque finanziati da tutti noi: qui in particolare, da noi cittadini d’europa.

Ma la Big Science è comunque un segno. Che qualcosa è cambiato.

Cerco di spiegare: mi aiuterò con un esempio.

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Un tempo, bastava uno di questi sassi, e una mente aperta e curiosa…

Photo Credit: ouyea… via Compfight cc

Ai tempi di Galileo, per fare scienza di punta, se ci pensate, bastava raccogliere un sasso. Salire su una torre (pendente, anche meglio), osservare come cade. Ragionare. Derivare un’evidenza. Stop. 

Analizziamo la cosa, sotto l’aspetto dei costi e della fattibilità.

Finanziamenti: praticamente zero.

Preparazione: raccogliere un sasso (pochi secondi). 

Attuazione: salire sulla Torre e lasciarlo cadere (da qualche minuto a qualche decina, dipende da quanto si sale in alto e dalle proprie condizioni fisiche).

Tempo di analisi dei dati: pochi secondi.

Come vedete, per un esperimento capace di rivoltare come un calzino il quadro scientifico consolidato al tempo – per cui oggetti di peso diverso cadrebbero a diverse velocità – ed autorevole (Aristotele dopotutto non era l’ultimo arrivato…), è bastata una persona con un po’ di curiosità e una attrezzatura veramente minimale.

Per un’impresa moderna come GAIA lavorano di solito centinaia di persone da molti anni prima che il satellite stesso venga perfino assemblato. Ci vogliono finanziamenti così ingenti che solo un’ente transnazionale tipicamente può affrontare l’impresa. Poi, per giunta, si prevedono anni ed anni per analizzare i risultati, e derivarne le evidenze scientifiche.

E con tutto quanto, non si prevede certo un sovvertimento del quadro della fisica teorica, pari a quello di Galileo! 

GAIA è lontana un milione e mezzo di chilometri, al momento (più o meno). Ma il rischio è che sembri ancora più lontano dai cuori e dalle possibilità delle persone comuni. Che non ne percepiscano l’indubbia carica di entusiasmo che ha permesso a tanti ricercatori di lavorarci e di portarla fino a lì (nel secondo punto largrangiano, per la precisione). 

Insomma, se c’è qualcosa che la scienza moderna ha inavvertitamente “rubato” alle persone, è la sensazione che ognuno possa fare scienza, possa indagare la struttura del mondo semplicemente con gli occhi aperti e la voglia di capire: come è accaduto per millenni. C’è come un senso di “tutto già fatto” che rischia di rubarci la legittima curiosità per il mondo e le sue meraviglie. 

La gente ascolta le imprese scientifiche più mirabolanti, veri sogni che si condensano e prendono sostanza, al telegiornale o nelle trasmissioni specialistiche, e le avverte come cose magari avvincenti ma comunque, nella sostanza, inavvicinabili. 

Ed è un peccato: la scienza è di tutti, deve esserlo. Almeno, io ne sono convinto. E’ un patrimonio potenziale di stupore, di conoscenza e di meraviglia, che è sempre stato dell’uomo, di ogni uomo, e ne ha pieno diritto. Nessuno può rubarlo, nessuno deve. 

Al dunque, siamo destinati a patire questo scollamento tra grande scienza e mondo comune, subirlo come inevitabile? 

Forse no. Ci sono segnali incoraggianti. 

Se la tecnologia – con la sua complessità stratificata crescente – ha allontanato la scienza dai cittadini, la stessa tecnologia forse la può riavvicinare. Può anzi condurli di nuovo protagonisti come non lo potevano essere da molto tempo. Non possiamo che guardare con grande interesse allo sviluppo della citizen science che tipicamente sfrutta le potenzialità e la pervasività di Internet per chiamare il grande pubblico di nuovo all’avventura di fare scienza,  invitandolo a collaborare effettivamente e fattivamente a progetti di primario valore.

In questo la stessa deriva ipertrofica della grande scienza ci aiuta. I dati, volenti o nolenti, stanno diventando talmente abbondanti, che semplicemente gli scienziati non bastano più, per esaminarli e per ricavare dei risultati, delle correlazioni interessanti.

Lo specialismo ad oltranza qui non paga. Bisogna allargare. Bisogna richiamare tutti a questo lavoro, tutti quelli che sono interessati, a prescindere dalla loro specifica preparazione.

Ecco dunque sorgere la citizen science, senza retorica, la vera scienza del cittadino.

Uno dei più importanti e “antichi” esempi, in ambito astronomico, è certamente Galazy Zoo, di cui ci siamo già occupati. Il progetto consente a chiunque abbia a disposizione un computer collegato ad Internet, di lasciare la sua specifica impronta in una impresa scientifica rilevante e di grande importanza, come la classificazione delle galassie. Come ben dice lo “strillo” sul sito,

Per comprendere come si formano le galassie abbiamo bisogno del tuo aiuto a classificarle secondo la loro forma. Se sei veloce potresti essere addirittura la prima persona a vedere le galassie che devi classificare. 

C’è tutto sul sito per mettersi all’opera rapidamente: una procedura di addestramento guidato e la possibilità, appreso il semplice meccanismo, di iniziare a fare vera scienza, praticamente da subito.

Un po’ come fosse tornato Galileo, solo che invece di sasso e piuma (stando all’aneddoto) ci porta un computer ed un browser.

L’effetto è lo stesso: tutti possono – di nuovo – partecipare alla scienza di frontiera.

E i risultati, quelli non mancano (basta scorrere l’elenco di pubblicazioni sul sito). L’ultimo è piuttosto clamoroso: grazie all’ingente lavoro di classificazione, dovuto allo sforzo congiunto di centinaia di migliaia di persone, gli scienziati sono giunti alla conclusione importante che le galassie si sono stabilizzate nella loro forma circa dieci miliardi di anni fa. Ovvero, ben due miliardi di anni prima di quanto si pensasse.

E’ certo un’acquisizione importante: come l’esperimenti di Galileo, smuove un quadro consolidato portando un modo di vedere fresco e “dirompente”. Per di più, reso possibile soltanto per la massiccia partecipazione di entusiasti volontari. 

Certo: non sarà come demolire una teoria aristotelica (d’altronde, quello è già stato fatto).

In ogni caso, non è poco.

E sopratutto, non è per pochi.

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Stavolta usciamo con uno scoop veramente … galattico. Seguiteci e lo scoprirete…

E’ ormai sulla bocca di tutti, il fatto che il colosso Facebook ha acquisito – per una cifra stratosferica – il servizio di messaggistica WhatsUp, molto popolare tra gli utenti di dispositivi mobili. La cosa ha dato, come era da aspettarsi, la stura ad una interminabile serie di resoconti e di analisi, ormai rintracciabili in qualsiasi sito o testata che si occupi anche solo trasversalmente di Internet.

Tuttavia – lo dico con una certa soddisfazione – siamo solo noi, almeno qui in Italia – a poter rivelare ai nostri lettore qual è stato il vero motivo che ha condotto Mark Zuckemberg all’acquisizione di WhatsUp. 

In realtà ne siamo a conoscenza fin dall’inizio, come comprenderete continuando a leggere. Avevamo pensato di tenere nascosta la cosa, ma poi un quotidiano che si occupa di web e società l’ha rivelato (deve esserci stata una soffiata). Lo riportiamo qui sotto: a questo punto non ha senso tenere la notizia ancora segreta, anche perché coinvolge… beh, potete leggere. E’ in inglese ma non troppo difficile…

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In poche parole, Mark non puntava a WhatsUp, ma voleva acquisire il nostro GruppoLocale BAR. Gli abbiamo detto di no (la cifra offerta, tra l’altro era decisamente misera, visto il valore del BAR!) e lui ha ripiegato, per stizza, su WhatsUp. Ma ancora continua a telefonarci, non trova pace… 😉

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Cercando viaggiatori nel tempo. Su Internet

Internet è certamente una delle innovazioni tecnologiche più pervasive e rivoluzionarie dell’era moderna, la cui importanza è difficile sopravvalutare. Tra i tanti usi della rete, però, non mi era mai venuto in mente  – complice la mia fantasia alle volte un po’ dormicchiante – di pensare alla possibilità di usarla per cercare segni di viaggiatori nel tempo…

Si’, per quanto strano (o meglio, eccentrico) possa sembrare, è quello che hanno fatto due ricercatori dal Michigan Technological University, Robert Nemiroff e Teresa Wilson. Precisamente, hanno pensato di utilizzare la sconfinata mole di informazioni nella rete per cercare contenuti che potessero condurci ad evidenze di viaggi temporali.

Qual è l’idea della loro ricerca (per i cui dettagli vi rimando all’articolo originale, in inglese) ? Non sappiamo se i viaggiatori nel tempo – posto che ve ne siano, o ve ne saranno – abbiano il piacere o anche la possibilità fisica di farci sapere della loro esistenza. Però durante il viaggio, potrebbero aver lasciato qualche traccia di loro stessi. Magari utilizzando Internet, perché no (chi resiste al fascino della rete, dopotutto…) ? L’idea di base è dunque di “stanarli” cercando su Internet segni di informazione che rivelino in qualche modo una conoscenza del futuro, normalmente preclusa a chi non si diletta in viaggi temporali (viene chiamata “informazione presciente” dagli autori). Ci si concentra per questo sui viaggiatori che vengono dal futuro, perché ovviamente così è più facile l’indagine. Inoltre gli autori sottolineano – con deciso buon senso – che i viaggi dal passato sono improbabili perché non abbiano notizie di macchine del tempo funzionanti, ad oggi…

L’idea può avere un senso, e se ci pensate è meno bizzarra di quanto possa sembrare (a me sembra divertentissima, in ogni caso). In fin dei conti è abbastanza semplice. Si tratta di individuare dei termini legati ad alcuni episodi di eventi storici e naturali – chiaramente databili – accaduti in “epoca Internet”. Gli autori selezionano al proposito due specifiche ricerche, una per “Comet ISON” e l’altra per “Pope Francis” (non mancano adeguate argomentazioni a supporto degli hashtag selezionati). A questo punto si tratta soltanto (diciamo) di spremere le informazioni nei motori di ricerca e nei principali social network andando a caccia di qualcuno che abbia parlato di Papa Francesco prima della sua salita al soglio pontificio, o abbia citato la Cometa ISON prima che la cometa stessa sia arrivata agli onori della cronaca. Perché potrebbe essere stato solo un viaggiatore nel tempo, magari un poco incauto, a farlo. 

La ricerca viene eseguita attraverso Google, Bing, Facebook, Google+, Twitter. Purtroppo (o per fortuna, non saprei bene…) nessuna traccia di viaggiatori temporali viene rilevata. Gli autori tengono comunque a precisare che è la più estesa ricerca di questo genere mai condotta, e ci dicono anche che il fatto che non si trovino segni di viaggiatori temporali, non mette una parola conclusiva sulla loro inesistenza. Chissà, potrebbero non aver voluto lasciar traccia… oppure potrebbero non averne la possibilità, per qualcuno di quei vincoli di consistenza tra eventi passati o eventi futuri.

Insomma, la versione breve è che il problema è ancora aperto, e potete pensarla come volete riguardo i viaggi nel tempo. Tra l’altro anche il celebre fisico Stephen Hawking ci aveva provato, con la geniale trovate di indire un Time Traveller’s Party… mandando gli inviti soltanto il giorno dopo. Il video mostra quanta gente è venuta, ma non voglio anticipavi nulla, guardatelo che dura poco… 

A parte questo, c’è  un interessante sottoprodotto dell’indagine, ed è una valutazione della efficacia dei vari motori di ricerca e della capacità di trovare delle informazioni nei social network. Sorprendentemente, si è ancora lungi dall’avere una affidabilità completa, notano gli autori. Tra tutti, è Twitter che sembra cavarsela meglio, a livello di completezza di informazioni riportate a seguito di ricerche. Dunque attenti ai cinguettii in cui si danno i risultati delle partite di domenica prossima, se li trovate, contattate gli autori dell’articolo…. 🙂

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Tutti i fan di Cassini…!

Osservate bene l’immagine qui sotto. Ha una struttura ed una genesi veramente peculiare, ma in un senso non immediatamente evidente. Per capirlo bisogna descriverne un po’ la storia: è una storia spiccatemente collaborativa, che riguarda persone sparse in tutto il globo, per più di quaranta paesi diversi. Come avviene spesso al giorno d’oggi, il veicolo di contatto è stato Internet. L’occasione si è avuta il giorno 19 del mese di luglio, quando la sonda Cassini si è girata indietro, verso Terra, per acquisire una foto – molto da lontano – del suo pianeta di origine. Là dove tutta la sua storia ebbe inizio.

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Un incredibile mosaico della Terra… da vedere da vicino! (Crediti: NASA, JPL-Caltech, Cassini Project, Denizens of Earth)

Ora, bisogna dire che le immagini della Terra prese dallo spazio esterno non sono affatto comuni, anzi sono davvero rare. Per la precisione, abbiamo soltanto due immagini della Terra “vista da fuori”. La prima – e la più lontana – risulta quella acquisita 23 anni fa dalla sonda Voyager 1, alla rispettabile distanza di sei miliardi di chilometri da “casa”: è il famoso pale blu dot, il “puntino blu” diventato famoso perché legato al nome del famoso astronomo e divulgatore Carl Sagan (che ebbe l’idea di far girare la sonda verso Terra per scattare la foto del nostro pianeta). La seconda è quella scattata dalla sonda Cassini nel 2006, da una distanza di circa un miliardo e mezzo di chilometri. A queste appunto si è appena aggiunta quella presa da Cassini in questa occasione.

Come una forma di tributo da parte delle persone sulla Terra, la missione ha montato un gigantesco collage composto da immagini pervenuta via Twitter, Facebook, Flickr, Google+ ed anche con la più tradizionale posta elettronica, disponendo sullo sfondo una immagine del nostro pianeta. Volete sorridere? Provate a guardare il dettaglio delle singole immagini (potrebbe metterci un po’ per caricarsi, dopotutto è un file da 28MB): quante persone che salutano la sonda! Chi potrebbe ancora dire che lo studio del cielo non interessa alla “gente comune” ?

Fonte: APOD del 24 agosto 2013

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Omologazione informatica

Ogni tanto ci penso. E’ che chi non ha vissuto il tempo glorioso della sperimentazione probabilmente non può comprendere appieno. C’è stato un tempo nel quale fiorivano diverse piattaforme, si sperimentavano modelli di social network, per ogni paradigma che sembrava farsi strada, vi era tutto un sottobosco di esperimenti più o meno riusciti che avevano i loro sostenitori, e comunque ti facevano capire che c’era ben più di ‘un modo per farlo’. Di modi ce ne erano a decine, ognuno in sana competizione con gli altri.
Ci penso. Penso che Twitter è nato con una struttura così elementare che nessuno gli avrebbe dato mezzo euro di credito. Brevi post di 140 caratteri appena (fatti apposta da poter essere scritti come SMS dal cellulare), nessuna possibilità di commenti, di citazioni di altri. Poi è venuto – dalla comunità degli utenti – il meccanismo della risposta, ottenuto premettendo la “@“ al nome dell’utente al quale si vuol parlare. Poi è stato integrata una dinamica di citazione, di ‘retweet’. Sono arrivati gli hashtag

Oggi Twitter è il paradigma assolutamente imperante per questo tipo di social network. E’ uno standard, non più una particolare realizzazione. E’ come la posta elettronica – non è percepito come un servizio commerciale di un dato fornitore. E’ quel servizio. Basti pensare che quando Benedetto XVI ha aperto il suo microblog, logicamente lo ha fatto su Twitter. Logicamente, realisticamente: perché è “lo” standard per il microblogging (tanto che quest’ultimo termine comincia a perdere di significato, visto che dovrebbe indicare una galassia di servizi per la quale la luce di uno solo offusca tutti gli altri). Onestamente: ogni altra scelta sarebbe sembrata “strana”, non trovate?
Ma prima no. Prima c’erano altre strade, altre vie. Altri modi di vedere il mondo. Ecco, prima c’era Jaiku. Ricordiamocelo. Quando Twitter non aveva ancora nulla, Jaiku aveva messo su un vero sistema di commenti, ad esempio. Non solo. Aveva i gruppi: potevi associarti ad un gruppo con cui condividere un dato interesse, ognuno con il suo forum di discussione. Jaiku inoltre aveva un client per Symbian che – per l’epoca – era davvero un gran bel pezzo di software. L’ho usato sul mio Nokia 73 e vi posso garantire che era splendido. La scommessa per il mercato mobile era stata lanciata. L’alleanza con Nokia (dire Nokia qualche anno fa era come dire iPhone oggi) un’arma formidabile. 
E’ stato un bell’esperimento…  
Poi per qualche motivo la scommessa è stata anche persa. Jaiku è prima stato comprato da Google, poi è defunto. Qaiku – nato sul suo modello – ha subito lo stesso destino. Il mercato è implacabile. E ha leggi a volte imperscrutabili.
Facebook aveva pure i suoi antagonisti. La guerra Facebook – MySpace, chi se la ricorda ora? Chi dice più “cercami su MySpace?”. Senza contare tutti gli altri network che spuntavano come funghi. Bello il periodo che è passato. Ogni giorno c’era una cosa nuova da provare. Fotografie di un passato recente, che sembra già antichissimo. 
Ora il mercato ha scelto. Si è ristretto su Facebook e Twitter (Google+ tenta di entrare in partita, ma non mi è chiaro quanto riesca davvero). Prima era divertente (tanti network con cui giocare, sperimentare) e frustrante (per collegarti con Tizio dovevi registrarti da una parte, con Caio dall’altra…). Ora è efficiente, utile (o inutile), rapido (siamo tutti su Facebook), e… noioso. 
Sì, dal punto di vista tecnico, noioso. Perché abbiamo perso lo stupore e la varietà.  Non abbiamo più che un solo modo di vedere le cose.

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