Riscoprire e ripercorrere l’umano dentro ogni byte, ogni “quanto” di informazione. Tracciare una storia, lavorando per frammenti, ma con passione. Perché tutto quel che interessa, sempre e di nuovo, tutto quello che davvero interessa, è appena questo: una storia. Umana.
Questa è una foto – sempre bella ma già molto vista, a dire il vero – di un campo profondo di galassie vista con il Telescopio Spaziale James Webb. Vanta un bel primato, perché è la prima immagine in assoluto che è stata mostrata al grande pubblico, per questo strabiliante telescopio spaziale.
Nel dettaglio, ritrae l’ammasso di galassie Smacs 0723 ed è l’immagine dell’universo nell’infrarosso alla risoluzione più elevata di sempre. Colpisce, prima di tutto, la varietà estrema di galassie, quasi straripante da questa immagine. Il messaggio che ci tocca è straordinariamente chiaro: per l’universo moderno, la varietà è la norma, non c’è più niente di uniforme, omologato. Non esiste galassia, o addirittura stella – a guardarla bene – che sia davvero uguale ad un’altra.
C’è qualcosa che spesso non convince negli spot di Apple, almeno secondo me. Voglio dire, tecnicamente sono fatti molto bene, sono fatti da gente che li sa realizzare. Su questo, nulla da dire.
Ma se ragiono sul messaggio che mi vogliono mandare, spesso trovo un disallineamento dalla realtà, uno sfasamento sottile, mi imbatto in qualcosa che insomma non mi torna. Oggi, come nel recente passato.
Prendiamo quello che sta girando abbastanza in televisione, in questi caldi giorni estivi (quello che trovo in rete, per la verità, è una versione un po’ diversa da quello che ho visto più volte in televisione, ma il concetto è lo stesso).
Riprendo le parole del sito iphoneitalia, nell’articolo che descrive lo spot
Nel video, telecamere di sicurezza sono rappresentate come fastidiosi uccelli e pipistrelli che sorvolano gli utenti mentre navigano sul web, simboleggiando i tracker dei siti. La maggior parte dello spot si concentra su utenti non iPhone, ma verso la fine, un utente iPhone apre Safari e tutte le inquietanti telecamere esplodono in aria, sottolineando la sicurezza del browser Apple.
Uno dei sottoprodotti più interessanti di tutta la bagarre che c’è stata (e ancora c’è) in seguito all’acquisizione di Twitter da parte di Elion Musk, con tutto il casino derivato anche dalle mosse incongrue del noto miliardario (come Paolo Attivissimo ha gustosamente documentato nel suo podcast, alcuni giorni fa), è che molta gente ha cominciato, come dire, a guardarsi intorno.
Sì, a cercare di capire se ci sono alternative praticabili a Twitter, per esempio. Sarebbe peraltro legittimo dubitare di una piattaforma finita in mano ad una persona che, in appena un giorno, ha licenziato metà dei dipendenti, si è mosso in modo randomico per cui si è fatta grande confusione con i famosi “bollini blu” di autenticazione, e infine – chicca delle chicche, probabilmente – ha affidato ad un sondaggio online una cosa tanto delicata quanto il ritorno su Twitter di Donald Trump.
Per inciso, sull’esito (di poco) favorevole al rientro di Donald (che peraltro ha dettograzie ma anche no) Elion si è affrettato ad affermare Vox Populi Vox Dei. Peccato che però tale conclusione – nel caso di Twitter almeno – sia parecchio discutibile, come altri hanno subito evidenziato.
Dietro a tante realizzazioni tecniche ci sono delle storie, e spesso sono proprio queste le cose più importanti. Quello che ci colpisce veramente è il “fattore umano”, quello che ci spinge a esplorare lo spazio o ammirare la complessità di un prodotto tecnologico, è sempre l’umano che scorgiamo dietro e dentro tutto questo.
Dopo averla letta – proprio per l’emergere limpido del “fattore umano” che ricerco – ho deciso che valeva proprio la pena. Vi invito a leggerla (in originale o nella presente traduzione), anche se lunga: rivela come pochi altri documenti – credo – come dietro ogni tecnica e tecnologia realmente degna di interesse, vi sia sempre l’uomo, le sue passioni, le sue paure, le sue speranze. Soprattutto, il suo irriducibile desiderio di costruire qualcosa che rimane.
Benvenuti a questa edizione della nostra serie Tools for Thought, in cui intervistiamo fondatori che hanno la missione di aiutarci a pensare meglio e a realizzare le loro ambizioni intellettuali e creative. Kazuki Nakayashiki è il cofondatore di Glasp, un social web clipper che consente agli utenti di condividere le proprie sottolineature e note mentre leggono, senza dover passare dal web a un’app per prendere appunti.
In questa intervista abbiamo parlato della natura dell’eredità umana, del problema dell’isolamento della conoscenza, della ripetizione dilazionata, della gestione sociale della conoscenza e dell’intelligenza collettiva, dell’apprendimento in pubblico, dell’impatto della responsabilità sociale sulla acquisizione di appunti e altro ancora. Buona lettura!
Ciao Kazuki, grazie mille per aver accettato questa intervista. Glasp è l’acronimo di “Greatest Legacy Accumulated as Shared Proof” (la più grande eredità accumulata come risorsa condivisa): puoi dirci qualcosa di più sul suo significato?
Grazie mille per avermi invitato. Sono un grande fan dei Ness Labs e sono onorato di essere qui oggi. Innanzitutto, crediamo che una delle attività più nobili sia quella di imparare, sperimentare e trasmettere le proprie conoscenze alle generazioni future. Il presente in cui ci troviamo oggi si fonda su ciò che i nostri predecessori hanno costruito in passato.
Quando si parla di eredità, non si intende necessariamente lasciare un’attività di successo o un sacco di soldi. Certo, è meraviglioso poter lasciare queste cose alle generazioni future, ma non credo che queste siano le eredità più grandi, perché non tutti possono lasciarle.
Credo invece che la più grande eredità sia quella di vivere una vita coraggiosa. È nell’atteggiamento di non farsi scoraggiare dalle difficoltà, di non essere eccessivamente pessimisti e di scommettere sulle possibilità e sulle speranze dell’umanità. E credo che questo significhi consegnare e comporre la nostra conoscenza, la nostra saggezza e la nostra storia per la prossima generazione.
Tuttavia, anche se ci troviamo sulle spalle dei nostri predecessori, non sappiamo come e da chi sia stata accumulata tutta quella conoscenza. Attraverso Glasp, vogliamo mettere le persone in condizione di consegnare, condividere e comporre la più grande eredità possibile. La nostra missione è democratizzare l’accesso all’apprendimento e alle esperienze che le persone hanno raccolto nel corso della loro vita. Così facendo, potremmo essere in grado di aiutare altri che potrebbero tentare di seguire un percorso simile in futuro.
E non mi verrebbe da definirlo diversamente, perché è davvero un eccellente evidenziatore sociale questo strumento. Così lo chiama anche Danilo Ruocco nel suo eccellente articolo (Danilo, giornalista e scrittore è uno degli ancora pochi italiani che ho trovato su Glasp, perché di questo si tratta).
La dinamica è estremamente semplice, ad un primo livello. Si istalla l’estensione per Chrome o derivati (Brave, Vivaldi eccetera) e da quel momento in poi si dispone di un set di evidenziatori, di vari colori, da usare in qualsiasi pagina web per marcare frasi di particolare interesse.
Ciò sta già cambiando il mio modus operandi, che in questi casi consisteva nel salvare la pagina su Pocket e poi andare lì ad evidenziare i passi principali.
Sì Vivaldi, ma non Antonio, il celebre musicista. Quello che con entusiasmo oserei dire dadaista Franco Battiato citò nel celebre verso nel quale gli preferiva l’uva passa. No, questa volta intendo appena parlare del browser. Quel programmino che usiamo per navigare su Internet, ovvero quel programmino interagendo con il quale passiamo ormai anche diverse ore della giornata. Quella finestra sul mondo, ora potremmo dire sull’Universo. Quella che ci consente di osservare i panorami di Marte, o vederci da lontanissimo. Quella che stai guardando ora, insomma. Un tempo si chiamava Mosaic, ed era cosa sconosciuta ai più. Ah, quanto tempo. Cioè, pochi anni che sembrano moltissimi. Del resto, si sa che il tempo è relativo, la fisica stessa ce lo dice.
Ormai di tempo (qualsiasi cosa sia davvero) ne è passato un po’ da quando ho parlato di Vivaldi. Tempo passato, in parte, per esplorare meglio anche altri blasonati concorrenti. Sono infatti reduce da un periodo di utilizzo – anche entusiastico, in certi momenti – di Brave, un altro browser basato su Chrome con alcune interessanti caratteristiche: prima di tutte, quella di rimborsare gli utenti per il tempo speso sui diversi siti, con una criptovaluta apposita, il Basic Attention Token (BAT). Di più, provando a sostituire le pubblicità del web con un proprio circuito di promozioni, con delle garanzie specifiche di non tracciabilità e privacy. Ma questa faccenda (che ha pregi e difetti) potrebbe senz’altro essere argomento di un altro post.
Smart working. Due parole di strettissima attualità, in questo tempo così particolare.
Le ricerche sullo smart working indicano che il lavoro a distanza ha livelli di efficienza simili a quello in presenza, ma ci si interroga meno sugli effetti di lungo periodo di una società sempre più smaterializzata e delocalizzata.
Così scrive Davide Prosperi, Presidente ad interim della Fraternità di Comunione e Liberazione, in un recente articolo apparso sul Corriere della Sera.
La scoperta della possibilità di lavoro agile è senz’altro una bellissima cosa, peraltro avvenuta tardivamente (da noi) e solo sotto l’incalzare dell’emergenza sanitaria. Ma dobbiamo tener presente che la vita è relazione, tutto l’universo è una trama di relazioni, se scendiamo nel regno delle particelle elementari troviamo al fondo di tutto sempre questo, la relazione (e a dirlo non sono certo fisici misticheggianti). Ebbene, elidere la relazione sostituendola con l’azione a distanza, non è un gioco che si può rilanciare indefinitamente. Le conseguenze si pagano. Psicologicamente, prima di tutto.
Si tratta allora, secondo alcuni, di agire in maniera plastica e dinamica, reagendo agli eventi (diffusione del virus, varianti, eccetera) in modo intelligente e flessibile. Cauti e prudenti, certo. Ma anche consapevoli che le chiusure drastiche e i confinamenti prolungati oltremisura risultano sempre più indigesti, dopo mesi e mesi di cultura dell’emergenza. E che i ragazzi, per crescere, hanno bisogno di intessere vere relazioni umane, non di ricadere dietro l’ennesimo schermo luminoso. Anche se su questo venissero proiettati corsi formativi stupendamente ideati, anche se si cercasse (giustamente) di rendere il tutto più interattivo possibile.