Siamo decisamente in epoca di Big Science: la ricerca spaziale è dominata da grandi progetti che sono frutto della collaborazione di molte persone, disperse sovente su tutto il pianeta. Un esempio eclatante – solo uno tra i tanti – è la missione GAIA, da poco entrata in piena attività, destinata a fare un censimento di una porzione di Via Lattea di dimensioni mai viste prima: un catalogo accurato di miliardo di stelle.

Gaia è un progetto ESA, ovvero Agenzia Spaziale Europea, ed è un caso emblematico di quello che si può intendere per Big Science: è un satellite al quale si lavora da anni, da molti anni prima del lancio, e si sta lavorando alacremente tuttora: rifinendo continuamente le procedure di analisi e riduzione dati, verificando le condizioni della sonda, digerendo i primi dati che sta inviando a Terra, etc. 

Gaia è sopratutto una sfida esaltante – sia sotto l’aspetto tecnologico quanto sotto quello squisitamente scientifico – che promette di portare avanti veloce la nostra concezione di come è fatta la Via Lattea, ma pure di come si formano ed evolvono galassie simili a questa (e sono tante), e quindi, in qualche modo, di come si sviluppa e si evolve l’universo.

A livello di percezione comune, tuttavia, il rischio è che simili enormi progetti possano far sentire più lucidamente del dovuto, la distanza tra questi grandi team e le persone “normali”. Portando all’estremo uno scollamento che rischia di scoraggiare e incutere un timore reverenziale decisamente controproducente, ed anche – in qualche modo – fuori posto. Certo, perché la scienza comunque è un’avventura di tutti, e questi progetti sono comunque finanziati da tutti noi: qui in particolare, da noi cittadini d’europa.

Ma la Big Science è comunque un segno. Che qualcosa è cambiato.

Cerco di spiegare: mi aiuterò con un esempio.

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Un tempo, bastava uno di questi sassi, e una mente aperta e curiosa…

Photo Credit: ouyea… via Compfight cc

Ai tempi di Galileo, per fare scienza di punta, se ci pensate, bastava raccogliere un sasso. Salire su una torre (pendente, anche meglio), osservare come cade. Ragionare. Derivare un’evidenza. Stop. 

Analizziamo la cosa, sotto l’aspetto dei costi e della fattibilità.

Finanziamenti: praticamente zero.

Preparazione: raccogliere un sasso (pochi secondi). 

Attuazione: salire sulla Torre e lasciarlo cadere (da qualche minuto a qualche decina, dipende da quanto si sale in alto e dalle proprie condizioni fisiche).

Tempo di analisi dei dati: pochi secondi.

Come vedete, per un esperimento capace di rivoltare come un calzino il quadro scientifico consolidato al tempo – per cui oggetti di peso diverso cadrebbero a diverse velocità – ed autorevole (Aristotele dopotutto non era l’ultimo arrivato…), è bastata una persona con un po’ di curiosità e una attrezzatura veramente minimale.

Per un’impresa moderna come GAIA lavorano di solito centinaia di persone da molti anni prima che il satellite stesso venga perfino assemblato. Ci vogliono finanziamenti così ingenti che solo un’ente transnazionale tipicamente può affrontare l’impresa. Poi, per giunta, si prevedono anni ed anni per analizzare i risultati, e derivarne le evidenze scientifiche.

E con tutto quanto, non si prevede certo un sovvertimento del quadro della fisica teorica, pari a quello di Galileo! 

GAIA è lontana un milione e mezzo di chilometri, al momento (più o meno). Ma il rischio è che sembri ancora più lontano dai cuori e dalle possibilità delle persone comuni. Che non ne percepiscano l’indubbia carica di entusiasmo che ha permesso a tanti ricercatori di lavorarci e di portarla fino a lì (nel secondo punto largrangiano, per la precisione). 

Insomma, se c’è qualcosa che la scienza moderna ha inavvertitamente “rubato” alle persone, è la sensazione che ognuno possa fare scienza, possa indagare la struttura del mondo semplicemente con gli occhi aperti e la voglia di capire: come è accaduto per millenni. C’è come un senso di “tutto già fatto” che rischia di rubarci la legittima curiosità per il mondo e le sue meraviglie. 

La gente ascolta le imprese scientifiche più mirabolanti, veri sogni che si condensano e prendono sostanza, al telegiornale o nelle trasmissioni specialistiche, e le avverte come cose magari avvincenti ma comunque, nella sostanza, inavvicinabili. 

Ed è un peccato: la scienza è di tutti, deve esserlo. Almeno, io ne sono convinto. E’ un patrimonio potenziale di stupore, di conoscenza e di meraviglia, che è sempre stato dell’uomo, di ogni uomo, e ne ha pieno diritto. Nessuno può rubarlo, nessuno deve. 

Al dunque, siamo destinati a patire questo scollamento tra grande scienza e mondo comune, subirlo come inevitabile? 

Forse no. Ci sono segnali incoraggianti. 

Se la tecnologia – con la sua complessità stratificata crescente – ha allontanato la scienza dai cittadini, la stessa tecnologia forse la può riavvicinare. Può anzi condurli di nuovo protagonisti come non lo potevano essere da molto tempo. Non possiamo che guardare con grande interesse allo sviluppo della citizen science che tipicamente sfrutta le potenzialità e la pervasività di Internet per chiamare il grande pubblico di nuovo all’avventura di fare scienza,  invitandolo a collaborare effettivamente e fattivamente a progetti di primario valore.

In questo la stessa deriva ipertrofica della grande scienza ci aiuta. I dati, volenti o nolenti, stanno diventando talmente abbondanti, che semplicemente gli scienziati non bastano più, per esaminarli e per ricavare dei risultati, delle correlazioni interessanti.

Lo specialismo ad oltranza qui non paga. Bisogna allargare. Bisogna richiamare tutti a questo lavoro, tutti quelli che sono interessati, a prescindere dalla loro specifica preparazione.

Ecco dunque sorgere la citizen science, senza retorica, la vera scienza del cittadino.

Uno dei più importanti e “antichi” esempi, in ambito astronomico, è certamente Galazy Zoo, di cui ci siamo già occupati. Il progetto consente a chiunque abbia a disposizione un computer collegato ad Internet, di lasciare la sua specifica impronta in una impresa scientifica rilevante e di grande importanza, come la classificazione delle galassie. Come ben dice lo “strillo” sul sito,

Per comprendere come si formano le galassie abbiamo bisogno del tuo aiuto a classificarle secondo la loro forma. Se sei veloce potresti essere addirittura la prima persona a vedere le galassie che devi classificare. 

C’è tutto sul sito per mettersi all’opera rapidamente: una procedura di addestramento guidato e la possibilità, appreso il semplice meccanismo, di iniziare a fare vera scienza, praticamente da subito.

Un po’ come fosse tornato Galileo, solo che invece di sasso e piuma (stando all’aneddoto) ci porta un computer ed un browser.

L’effetto è lo stesso: tutti possono – di nuovo – partecipare alla scienza di frontiera.

E i risultati, quelli non mancano (basta scorrere l’elenco di pubblicazioni sul sito). L’ultimo è piuttosto clamoroso: grazie all’ingente lavoro di classificazione, dovuto allo sforzo congiunto di centinaia di migliaia di persone, gli scienziati sono giunti alla conclusione importante che le galassie si sono stabilizzate nella loro forma circa dieci miliardi di anni fa. Ovvero, ben due miliardi di anni prima di quanto si pensasse.

E’ certo un’acquisizione importante: come l’esperimenti di Galileo, smuove un quadro consolidato portando un modo di vedere fresco e “dirompente”. Per di più, reso possibile soltanto per la massiccia partecipazione di entusiasti volontari. 

Certo: non sarà come demolire una teoria aristotelica (d’altronde, quello è già stato fatto).

In ogni caso, non è poco.

E sopratutto, non è per pochi.

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