I giorni appena trascorsi, lo sappiamo, sono stati magici sotto diversi punti di vista. Rosetta ha fatto meraviglie, certamente. Ma la prima meraviglia, a parer mio, è accaduta proprio qui, sulla Terra. Fateci caso.

Presi come siamo da tante cose da fare, da tanti problemi e perplessità – stretti ancora in una crisi che prima ancora che economica mostra spesso gli indizi di proporzioni più vaste, una crisi (ultimamente) di senso che ci corrode e – come per sopperire ad una qualche mancanza – ci irrigidisce in maniera non necessaria…  esperti e non esperti, siamo stati ugualmente catturati. Siamo stati catturati – dopo tanto tempo – dall’eccitante prospettiva di una avventura comune. Uno scatolone di metallo lanciato nello spazio si è rivelato molto più della somma delle sua parti meccanica (ed elettroniche).

Possiamo vederla così. Nei suoi dieci anni di viaggio la sonda Rosetta preparava pazientemente questo. Covava nell’ombra e nel nascondimento dello spazio, una prospettiva di fioritura cosmica di interesse planetario (il nostro, di pianeta). Qualcosa ha camminato, in questi dieci anni. Seguita con pazienza dai tecnici e dagli scienziati dell’ente spaziale del nostro continente (e con rispetto da quelli americani). Accudita, monitorata, messa a nanna e risvegliata, Rosetta proseguiva verso il suo obiettivo, verso la sua cometa.

Comet 67P on 20 October (A) - NAVCAM

Crediti: ESA/Rosetta/NAVCAM, CC BY-SA 3.0 IGO

Quello che in tanti non pensavamo, quello di cui non ci rendevamo propriamente conto, è che il suo obiettivo era il nostro obiettivo. Quello che il nostro ormai abituale cinismo non calcolava, era che dalla mattina di quel fatidico mercoledì 12 novembre, pur presi in mille cose e diecimila impegni, ci saremmo inaspettamente ricordati che esiste il cielo e che una sonda inviata da noi umani, stava per tentare un’impresa che – già sulla carta – avrebbe fatto tremare i polsi a chiunque.

Diciamo la verità. Rosetta è andata lassù per regalarci un sogno. E il lander Philae ha fatto l’impossibile, per rilanciarlo, con estrema baldanza,  al di là di ogni calcolo di basso cabotaggio. Un sogno molto concreto, come tutti i bei sogni: come i sogni più veri. E’ arrivata lassù e ha fatto ciò che ha fatto, grazie ad una scienza e ad una tecnologia certamente sempre più sofisticata e complessa. Frutto di una necessaria iperspecializzazione tutta moderna, siamo d’accordo. Tuttavia è una scienza che – proprio all’apice della massima complessità – ha mostrato inaspettatamente un volto amico, e si è riversata con grande facilità ed efficacia nell’immaginario di ognuno di noi. La missione di una sonda di metallo su una fredda cometa ha intercettato qualcosa di caldo, di pulsante in ognuno di noi. Perché la complessità ha incontrato il desiderio di comunione e fratellanza umana, la voglia mai sopita di qualcosa di grande a cui partecipare tutti insieme. 

Così è stata come una grande partita, se vogliamo. Con la differenza, importante, che stavolta eravamo tutti dalla stessa parte. E’ stata l’articolazione paziente e realistica di un sogno. Non una guitezza improvvisata, uno scarto di furbizia, un prendere smagato, un gioire senza coltivare.

Affatto.

E’ stato piuttosto un coronamento di una gestazione paziente e senza scosse, perché tutto nasce dalla terra, dalla solidità. Anche dalla sofferenza e dalla frustrazione che una missione così lunga avrà riversato sulle persone che ci lavoravano.

“Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne.” scriveva Emmanuel Muonier (ben prima che si parlasse di sonde spaziali). E così questi giorni emozionanti che abbiamo appena trascorso sono il frutto di una solidità guadagnata nel tempo. Di una sofferenza sopportata, nel tempo. Una solidità che ci ha permesso di sognare. Di aprire le ali, spiegare i nostri pannelli solari, spesso atrofizzati, per riprendere energia.

Quanto vale questa cosa, come monetizzare un entusiasmo e un interesse planetario? Certo la missione ha i suoi costi, che è giusto che vengano discussi e vagliati (senza faziosità). Non sarà inopportuno ricordare che il senso di una impresa di questo genere, al di là delle ricadute tecnologiche importanti per la vita a Terra, ha una portata appunto ben più ampia, probabilmente con un valore ancora più decisivo. Ha il valore intrinsecamente pacifico e pacificatore di una grande impresa comune, di una possibilità rinnovata di poter guardare tutti dalla stessa parte.

La gioia dello staff ESA pochi giorni fa è stata la nostra gioia. Una gioia transnazionale, una gioia fiorita nonostante la crisi e le tensioni, una gioia che ci ha ricordato che noi siamo ben più che la somma dei nostri problemi.

Che noi siamo capaci di infinito.

E ci ha reso possibile  capire che l’uomo è fatto per questo, per grandi imprese. E ogni uomo ha la sua grande impresa da compiere, ogni uomo è in cammino per la verità della sua vita, e lo fa accettando anche la fatica, accettando i suoi dieci (venti, trenta, cento) anni di volo.

Necessari,  perché possa agganciare la sua cometa.

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