Lorenzo è sulla soglia di una scoperta straordinaria, una scoperta che promette di rivoluzionare l’astronomia per gli anni a venire. Unendo il quadro cosmologico consolidato con le più recenti acquisizioni delle geometrie non euclidee, scopre una connessione feconda che può portare ad un risultato senza precedenti. Tuttavia non viene compreso dal suo ambiente scientifico ed anzi deve lottare con il suo superiore che vorrebbe destinarlo ad altre ricerche.
Vive questo particolare momento della sua storia professionale mentre si trova nel mezzo di una crisi matrimoniale, che sta raggiungendo forse il punto di rottura. Potrebbe compiere un balzo avanti straordinario sul piano conoscitivo, se solo trovasse il modo di poter verificare la sua intuizione. Nel contempo, sta rischiando un annichilimento completo sul piano affettivo. Le due problematiche risulteranno assai più legate di quanto lo stesso Lorenzo avrebbe potuto supporre. È un cambio di atteggiamento verso il reale, una maggiore compromissione con la vita, che permetterà ad entrambe le situazioni di raggiungere uno sbocco inaspettato, di fluire verso un compimento reso in precedenza impossibile o comunque difficile da una attitudine troppo intellettuale. Una maggiore immersione nel flusso della vita porterà a Lorenzo un rifiorire di inattesa fecondità.
Il racconto Venti passi rappresenta il mio contributo al Carnevale della Matematica #69 dal tema “Macchine matematiche antiche e moderne”.
Daniela aveva questo, nel cuore. Voleva smettere di rimanere nella pioggia, voleva essere amata. Davvero. Quasi due anni ormai che lei restava nella pioggia. Alla sua amica del cuore, Amanda, lo diceva così. Quando lei le chiedeva, arrivata in ufficio, “come stai”, lei rispondeva in questo modo. Ormai era uno standard, una consuetudine tra loro, come un gioco.
“Come stai?”
“Sono nella pioggia”
E poi magari sorrideva. Perché Daniela aveva un sorriso contagioso e non le importava troppo di nasconderlo, sorrideva anche quando era nella pioggia…
Passeggiavamo nel viale alberato. Lei non piangeva più, anche se il suo volto era ancora segnato dalle righe sottili delle lacrime versate.
“Non è vero, non è più così. Lo sai. Ora, lo sai” , disse Laura.
Non risposi. Assorbivo l’aria, le sensazioni. Il suono dei miei passi. Aspettavo di appoggiarmi su un terreno più semplice, ricercavo un piano di stabilità interiore più definito.
Erano ancora raggi serpeggianti di tensione sul suo viso, ad apparire. Velocemente poi si diradavano. Osservavo, preferivo aspettare.
Osservavo, preferivo aspettare…
Non so. Non so dirti, Laura. Lo dissi o lo pensai, non ricordo. Lo sentivo.
“E’ una cosa passata. Lo sai”, disse lei di nuovo.
C’era una barriera che non cadeva, un qualcosa che non si schiudeva. Camminavamo, in silenzio. Non ero preoccupato: c’era solo da attendere. Non si poteva forzare, non si poteva forzare nulla.
Le cose grandi e le cose piccole si mischiavano. I moti dell’animo erano importanti, come gli alberi maestosi sotto i quali camminavamo. Il microcosmo delle sensazioni variava in alta frequenza ad ogni nostro passo.
Lei fece il passo più coraggioso. E la situazione si appoggiò nel suo punto di stabilità, nello stesso istante. Si fermò, appoggiò il viso sul mio petto. Respiravo il profumo dei suoi capelli biondi.
“Il resto non conta nulla. Io ti voglio bene. Io ti amo”, mi disse guardandomi.
Niente, nessuno, era più femminile di Laura, in quel momento. In quel brevissimo fondamentale momento, nel lungo viale alberato.
Assai volentieri ospitiamo la presentazione integrale della professoressa Carla Ribichini (I.C. Comprensivo “Marcello Corradini”, Roma), contenuta nel volume di racconti per ragazzi “Anita e le stelle” (Arsenio Edizioni, Euro 14) in uscita in questi giorni, già disponibile su Ibs.it.
«A volte mi sento brillare come una stella che non vive in cielo, vive sulla terra e brilla anche di giorno. È facile sentirsi una stella, basta amare la vita e sentire dentro la vera stella che vuoi essere. Dentro tutti siamo stelle.»
Così Davide, in modo semplice e commovente, racconta la sua esperienza dopo la lettura del racconto di Marco CastellaniLa bambina e il quasar.
Gli alunni della scuola media “P.M. Corradini” di Roma hanno partecipato al progetto Educare narrando… tra Scienza e Poesia e hanno compreso che raccontare una storia non è pratica oziosa, ma strumento per educare e risvegliare i cuori. Lasciar parlare la voce delle storie è importante perché le storie mettono in movimento la vita interiore, soprattutto quando è denutrita, spaventata e messa alle strette, come spesso lo è la vita dei nostri giovani.
Unire lo studio metodico e rigoroso dello scienziato allo stupore e alla meraviglia del poeta è l’azione coraggiosa di Marco Castellani. I momenti fondamentali del suo prezioso lavoro: ricerca e conoscenza, restituzione e servizio, sono stati per noi strumenti di apprendimenti significativi. La sua passione per l’universo e il suo amore per l’uomo che lo abita lo hanno spinto a donarci una scienza nuova. Lo scienziato illuminato sa che la conoscenza da sola non basta, ed ecco allora che, tra le righe dei suoi racconti, si affaccia una scienza che si rende disponibile e comprensibile e si mette a disposizione di tutti attraverso emozioni e ritmi narrativi.
L’autore, scienziato e poeta, ha voluto divulgare la scienza in modo nuovo, l’ha liberata dalle sue catene. Una scienza non più prigioniera, ma dettata dal cuore ha reso comprensibili i concetti più astratti e complessi; l’intimo colloquio che l’autore è riuscito a stabilire tra scienza e poesia è stato la chiave segreta per conoscere il mistero della vita.
I racconti sono stati una finestra aperta sul cielo. La curiosità e lo stupore della protagonista e la sua forte determinazione alla conoscenza, hanno aperto un varco e spalancato le porte dell’universo; la classe si è trasformata in un vero e proprio osservatorio e i ragazzi, che generalmente hanno lo sguardo rivolto a terra, hanno alzato gli occhi e, con il naso in su, si sono divertiti a contare le centinaia di migliaia di stelle, hanno assaporato l’armonia perfetta che anima il cosmo. E il cosmo, prima lontano ed oscuro, a poco a poco, si è fatto loro più vicino, i corpi celesti sono entrati nello spazio del loro cuore cambiando il loro universo interiore: tutti hanno conosciuto il cielo sopra e dentro di loro e fatto esperienza del legame profondo che c’è tra gli uomini e le stelle.
Così raccontano Marika e Aurora:
«In un punto sparso dell’universo ci siamo io e le mie possibilità: ogni mia molecola è unica, capiente di speranza e saggezza, voglio incamminarmi, fare un passo in avanti e trovare la mia luce. Vari stadi di conoscenza evoluta mi attendono e le stelle aspettano il mio arrivo.» (Marika)
«Sono una piccola stella che brilla, silenziosa e tranquilla, sempre in evoluzione. L’essere umano è rinchiuso nella parte più buia e triste di sé. Credo che tutti noi siamo stelle e dobbiamo evolverci, uscire da quella profonda oscurità e affrontare la vita nella luce.» (Aurora)
La lettura è stata un’avventura affascinante, ha permesso ai ragazzi di diventare un po’ esploratori, un po’ scienziati, un po’ poeti e conoscere le meraviglie della scienza. L’autore, con umiltà, ha guidato tutti a scoprire la bellezza che dorme nascosta nell’universo e, in modo delicato e discreto, ci ha coinvolti per proteggere e salvare la nostra dimora planetaria. I ragazzi si sono sentiti chiamati a fare la loro parte, hanno lavorato con la serietà di veri scienziati, hanno imparato a guardare il cielo e hanno sentito il desiderio di portare la sua luce, il suo raccoglimento e il suo silenzio sulla terra bisognosa. Queste sono le loro sincere e commoventi promesse:
«Le corde dell’Universo mi avvolgono e mi trascinano in un insolito viaggio. Vedo sfumature di energia potente che galleggiano sulle onde del mare infinito. Le stanze dell’Universo sono aperte e il ragazzo che non vuole sprofondare in un buco nero guarda oltre, ascolta il silenzio delle stelle e della loro pazienza. Sa trovare la giusta direzione, mantenere le promesse e migliorare.» (Marika)
«Ogni volta che appoggio la testa sul cuscino, in quell’istante prima di addormentarmi, vedo in uno specchio la mia immagine rifratta che si tramuta prima in acqua e ancora in aria e quell’aria arriva nel lontano universo. Da lì osservo il mondo e mi sento libera: sono un piccolo anello di una grande catena, sono un piccolo strumento di un’infinita orchestra e di un’infinita armonia. Come ragazza dell’universo prometto che sarò forte e tenace e lo salverò.» (Monica)
«Prometto di trasformare il male delle persone in amore, di piantare il seme della conoscenza, di lasciar giocare la mente con le stelle e di correre con le comete. Come un vecchio saggio prometto di ascoltare il silenzio siderale dell’universo» (Tiziano).
L’uomo ha un assoluto e urgente bisogno di essere introdotto alla Scienza e comprendere il mondo in cui vive, da sempre si è sentito misteriosamente attratto dalla potentissima energia che continuamente piove dal cielo, da sempre ha percepito una forza primordiale strettamente connaturata con la sua vita; eppure, di fronte all’immensità del creato, ha provato paura e solitudine; avvicinarsi all’astrofisica e conoscere l’universo è per lui un’esperienza importante e necessaria.
L’astrofisico Marco Castellani ci ha dato l’opportunità di interagire con la Scienza e, con la leggerezza del poeta, ci ha permesso di ascoltare la voce dell’universo; in modo stimolante e coinvolgente, ci ha ricordato che l’universo ha bisogno di ognuno di noi, della nostra consapevolezza e del nostro lavoro; i suoi racconti sono stati un sofisticato e potente telescopio grazie al quale abbiamo compiuto un vero e proprio viaggio planetario.
Alla fine del viaggio le distanze si sono sorprendentemente annullate: scienza e poesia, cielo e terra, abissi e altitudini, esseri umani e stelle, tutto strettamente connesso, legato e unito. Ci siamo sentiti finalmente meno soli, abbiamo subito il fascino delle stelle e capito di essere a casa, innamorati del nostro immenso cielo, quello sopra di noi e quello dentro di noi.
«Ho visto pianeti conosciuti, narrati con amore ho ascoltato le loro storie, assaporato le loro verità mi sono accorta di essere tutt’uno con l’universo e che l’universo è in me.» (Daniela)
A volte sono le cose più minute che ti fermano. Anche un titolo. Sopratutto un titolo. Di solito dall’impasse non si esce pensando. Non si sbuca fuori a botte di riflessioni.
Come in tutto, del resto.
Più uno pensa ad un dato problema più ci si incarta dentro, usualmente: vi si incellofana ben bene. Le situazioni si stratificano, si crostificano, si congelano. Più uno pensa più perpetua la condizione presente, impedendo ad altre forze di entrare in campo. Forze che possono agire più efficacemente profittando del nostro abbandono. Abbandono: non certo nel nostro affannoso disaminare tutti i lati di una situazione, i pro e contro di una decisione.
Lasciare andare, lasciare scorrere. Permettere che qualcos’altro entri in campo. Togliersi dal posto di guida, mettersi a guardare la propria vita dal lato passeggero. Smettere di cercare di guidare, per un po’. Non ti impicciare più della tua vita che non sono affari tuoi cantava De Gregori molti anni fa, con felice intuizione
Sento che questo è vero anche ed in particolare per loro, per le cose dell’anima.
Tutte le volte che facciamo progetti per allontanarci dai disagi, puntualmente li rinforziamo. Pensare a una vita futura migliore di quella che stiamo vivendo, ci rende più incerti, fragili, impotenti. Si possono passare anni a compiangersi, a dirsi che il benessere verrà solo quando le cose cambieranno, quando le persone intorno a noi ci tratteranno meglio. Niente di più falso! Non è l’esterno a farci star male, ma il fatto che non ci affidiamo al nostro interno, che sa benissimo cosa fare per noi stessi e dove condurci.– Raffaele Morelli
Così le cose si sistemano e si allineano quando uno finalmente, stremato, lascia. Quando molla. Quando fa un passo indietro, e lascia agire, non pensa più di fare, stabilire, sistemare. Allora, solo allora l’imprevisto può entrare in campo.
E la vita ne sa più di noi, questo ce lo dimentichiamo sempre. La sorpresa viene oltre noi, in qualcosa che non abbiamo pensato. Nella forma che non abbiamo pensato.
Anche nelle piccole cose, lo vedo.Piccole: come in un titolo. Come nel titolo della raccolta di poesie e racconti che inizio ora a pubblicare su Wattpad. Stavolta voglio fare così: prima di tutto pubblicare piano piano le storie e le poesie online (alternate in capitoli pari e dispari), poi eventualmente ragionare sulla pubblicazione in volume.
Questo perché Wattpad mi intriga sufficientemente da suggerirmi questo approccio. E perché mi piace sperimentare, lo ammetto.
Ma il titolo. Appunto. Qualcosa a a che vedere con un parco, che è il vero centro gravitazionale di queste storie, e di queste poesie. Ma non mi soddisfaceva niente, niente di quello che pensavo. Forse appunto perché pensavo. Perché razionalizzavo. Perché – ultimamente – mi sforzavo.
Fino a che, l’altro giorno, accade. Sono nel letto. Mi giro, guardo il comodino. Vi sono appoggiati molti libri, che usualmente sopravvivono in uno splendido spreco di entropia: in breve, si va da Jung a Leopardi passando per le lezioni di fisica di Feymann. Lo stato dei libri varia a seconda dei carotaggi effettuati dagli umani (principalmente, da me). Come in un magna, vengono a volte in superficie strati rimasti per diverse ere geologiche a grandi profondità, e parimenti affondano elementi abituati da tempo alla superficie.
Ecco, poche ore prima c’era stato un tentativo (intrinsecamente semi-disperato, vista l’entità dello sforzo richiesto) di rimettere un po’ di ordine, che aveva provocavo qualche assestamento. Appunto.
Dicevamo. Mi giro, guardo il comodino. Ora c’è il libretto di poesie di una amica, Carla Cenci. Che ha guadagnato la superficie da poco, appunto. E che adesso mi guarda (intendo, il libro). Mi aspetta. Mi vuole dire qualcosa (ma io ancora non lo so). Lo guardo pigramente. Senza volere, mi faccio invadere passivamente dal titolo, Lo scombinio di un giorno molto verde.
… di un giorno molto verde….
Ecco. Un giorno molto verde.
Ma sì. Un giorno molto verde!
D’improvviso ogni cosa trova posto. E come è già accaduto per In pieno volo, il titolo stesso si sistema sul materiale scritto, lo vivifica, lo rende più appetibile, mi fa venire voglia di tornarci a lavorare. DI sistemarlo davvero.
Tutti segni che è quello giusto.
Carla non se ne avrà a male se le rubo tre quarti del suo titolo. Il fatto è che si adatta perfettamente. Sai quando provi mille vestiti e non te ne va bene uno? Troppo lungo, troppo stretto, basta, sono stufa, andiamo via… Poi qualcuno dice no aspetta prova questo E tu provi sfiduciata e stanca, proprio per dare fiducia alla tua amica e … BAM!
E’ perfetto.
Perfetto.
Come cucito intorno a te, su misura, proprio.
Allora il titolo è così, a posto. E’ un giorno, un giorno appena. Infatti. Vissuto attraverso tante storie, tanti scampoli di storie, che avvengono nelle case, negli ambienti che circondano il parco. Che si nutrono del suo verde, che vi si appoggiano. Che – inconsapevolmente – lo respirano.
E’ quel verde, scandito alle varie ore del giorno dai versi, che si introducono tra i vari racconti, quel verde. E’ lui il protagonista. Quel verde che dà un respiro in più, assicura un punto di fuga, una possibilità di respiro più ampio, più fondo. Una ultima cordiale amicizia, tra uomini. Che vivono. Che vivono perché – con tutta la loro sfavillante fragilità – la vivono.
E’ un progetto antico e nuovo.
Antico nella sua iniziale concezione. Nel tempo, arricchito, maturato. E’ passato un romanzo, delle poesie. Intanto ha respirato: ha respirato la stessa pazienza del parco, affondato nella terra il suo seme perché crescesse. E l’ora della sua maturazione si avvicinava. Ve lo dico: ogni volta che passavo nel parco – quasi ogni volta- mi tornava alla mente. Quando passavo vicino a quell balcone, che per me è quello di Carla (quadro secondo) sempre mi veniva in mente. Mi veniva in mente del progetto da terminare, da finire.
Ora viene piano piano alla luce, finalmente. E perciò stesso è nuovo.
Appena questo, la cronaca di un giorno molto verde.
Passeggiando nel parco sotto casa, mentre intorno la primavera era esplosa. Limpida, incontrollata, totale primavera. Passando in un campo di fiori gialli mi è venuta in mente una frase. Ha cominciato a ricircolare nella testa, a fertilizzare le cellule cerebrali. Sì, poteva essere uno spunto per un racconto? Sì, sì. Poteva. E un omaggio (rispettoso, deferente) a Joyce, il grandissimo.
Giallo è il colore ed era quello ed era il colore della mia maglia e della tua magia. Ed eri tu. E intorno erano tutti fiori gialli sai non avevo mica pensato uscendo da casa che avrei trovato tutto quel giallo. Cioè quel giallo che era spuntato in mezzo al verde come lo conoscevo. L’avresti detto mica. Spuntato in una notte, o magari invece nella mattina mentre io ancora ero lì che ancora pensavo se tu venissi o non venissi oggi da me. Così quando i miei occhi si sono affacciati a tutto quel giallo hanno chiamato su il cuore ed ecco in pratica, ecco, è stato appena come se il mio cuore si fosse improvvisamente allargato e improvvisamente tutto appagato…. (leggi tutto)
Mi è venuto in mente l’altro giorno, mentre accompagnavo Paola in giro per negozi. Sì, perché non scrivere un racconto per Natale? Beh c’erano davanti appena un paio di giorni, avrei dovuto mettermi al lavoro subito. Ma cosa scrivere? Di una cosa ero sicuro, non volevo affrontare il Natale in senso diretto, enunciativo. Volevo come toccarlo di striscio, come sorprendere una sua intersezione nella vita ordinaria.
Crediti: Marina Salomone su Flickr
Perdonatemi, ma lo dico: in un certo senso mi sembra vi siano in giro troppe parole, sul Natale. Come cristiano avverto un disagio, come un rischio che le parole scorrano in una strada bella larga ma superficiale, senza il “rischio” che possano entrare dentro a muovere qualcosa, senza che inducano all’avventura del significato.
Come disse Luigi Giussani nel 1987, “ciò che manca non è tanto la ripetizione verbale o culturale dell’annuncio. L’uomo di oggi attende forse inconsapevolmente l’esperienza dell’incontro con persone per le quali il fatto di Cristo è realtà così presente che la vita loro è cambiata. È un impatto umano che può scuotere l’uomo di oggi: un avvenimento che sia eco dell’avvenimento iniziale, quando Gesù alzò gli occhi e disse: “Zaccheo, scendi subito, vengo a casa tua”
Allora volevo manifestare questo, come qualcosa che accade quasi di nascosto. Qualcosa che è per tutti, indipendentemente da quello che uno crede o spera, perché sempre può essere sorpreso. Anzi spesso chi si figura di essere a posto dal punto di vista spirituale (come se fosse una questione di avere una tessera, e non fosse la vertigine dell’apertura del cuore!) è proprio l’ultimo disposto a farsi sorprendere.
Così il Natale credo ci sia nel mio racconto, come apertura e possibilità. Lo lascio alla vostra lettura, insieme con i miei auguri: spero che vi piaccia e vogliate accettarlo come il mio piccolo regalo per il Santo Natale 2012.
Vuol dire nascita.
Alla vigilia di Natale era tutto per aria, completamente in aria. Carla era andata, stavolta lo aveva fatto davvero. Un punto all’orizzonte che non si sarebbe più avvicinato, mai più. Una serie di consuetudini strappate via, di contatti brutalmente interrotti. Con una decisione che brucia via ogni attesa, elude ogni eventuale ritorno. Era la mattina del ventiquattro e Alessandro non aveva risorse diverse dal guardare il tempo fluire via, senza poter intervenire… (leggi tutto il racconto)
Terza ed ultima parte del racconto (Prima parte qui, seconda parte qui)
Roberta la guardò di taglio, con la sensazione di dover risentire di nuovo la stessa spiegazione.
“Beh stavo facendo vedere a Roberta il tragitto fatto fin qui, semplice…” Stefano cercava di tenersi sul vago perché aveva capito che Roberta non avrebbe sopportato una seconda esposizione della intera faccenda, espansa in tutti i suoi molteplici addentellati tecnici.
“Cioè, come fai, scusa? Quello non è il tuo coso… il tuo iPhone?”
“Android! E’ uno smartphone Android!” puntualizzò Stefano con enfasi inconsueta.
“Vabbè insomma per me si somigliano tutti, più o meno”, replicò lei tra l’intimorito e il seccato.
Roberta stette un attimo in silenzio, paventando la tirata “Android è un sistema aperto mentre l’iPhone no etc etc…” che aveva avuto la disavventura di leggere una volta sul suo Facebook. Che due cocomeri…
“… agli alberi!”
Giada stette un attimo in silenzio, giudicandola una mossa necessaria da compiere prima di poter tornare a parlare di cose normali.
Stefano stette un attimo in silenzio, cercando di accettare l’idea che potessero esistere persone che, in apparente possesso delle loro facoltà mentali, fossero in grado di scambiare un iPhone con un dispositivo Android. Ci riuscì solo parzialmente, ma per l’occasione si accontentò.
“Vedi Giada, prima di partire ho lanciato una applicazione che tiene traccia della velocità e della posizione, così ora abbiamo tutti i dati, con tanto di statistiche”
“E scusa, come fa a saperle, tutte queste cose?” si informò lei.
“Beh c’è il GPS, no?” replicò Stefano, quasi fosse l’evidenza universalmente più acclarata.
Il vento muoveva le fronde degli alberi e scompigliava appena le chiome di Giada. Lei pensava se aveva mai saputo che i telefoni avessero il GPS. E se il GPS era proprio quella cosa che usava papà gli anni passati, quando ancora li portava in vacanza in Toscana, per non perdersi nelle stradine verso il mare. Aveva una immagine di tanti anni prima, ancora vivida in memoria: mamma seduta nel sedile affianco, sorrideva mentre papà le piegava la nuova meraviglia tecnologica grazie alla quale non si sarebbero più persi. A mamma non importava molto la tecnica, non l’aveva mai interessata, le importava di più che il papà fosse entusiasta e che le sorridesse. Quanto tempo passato, da allora. Si chiese se papà e mamma avessero approfittato del fatto di essere rimasti soli la domenica, in casa. Chissà se lo facevano ancora, chissà quanto spesso lo facevano, se per abitudine o ancora per vero desiderio. Perché poi le venivano in mente queste cose?
Ma ecco, Stefano la guardava, registrando paziente il suo momento di assenza.
“Giusto, il GPS. Che scema a non averci pensato”, disse Giava recuperando frettolosamente dalla memoria l’ultimo scampolo di conversazione.
“Che fai mi prendi in giro?” disse Stefano e la squadrò perplesso.
“Noo figurati”, rise Giada.
“Ah, mi era parso sai…” replicò Stefano, già più addolcito dal suo sguardo cristallino. E si lanciò euforico in una complessa spiegazione delle carattestiche del programma e del suo utilizzo dei dati raccolti con il Global Positioning System…
Le piaceva farsi spiegare le cose da Stefano. C’era un qualcosa di morbido ed invitante nel poter ascoltare la sua voce senza doversi per forza inserire con domande, commenti. Senza bisogno di essere notata, di essere qualcosa. Era un po’ come scaldarsi vicino al fuoco senza dover fare nulla, se non stare presso il camino.
Come ora è bello stare qui in mezzo al prato. Le cose più belle sono quando uno sta in un posto, in una situazione, pensò Giada. Non quando fa qualcosa, ma quando rimane, accetta di rimanere. Non è l’attività che ci riempie, ci soddisfa. E’ uno stato di passività, invece. Accogliere le cose come sono, prima ancora di elaborare strategie. Ecco, tutto qua: accogliere, amare. Le donne sono favorite, allora: sono loro che accolgono in sè l’uomo adulto, son loro che crescono in sè l’uomo bambino. La loro stessa carne è una festa di accoglienza.
Allora è bello davvero essere una donna.
Questo pensiero le mise addosso una nuova energia, tanto che si permise di interrompere Stefano.
“Ma senti scusa eh…”
“Che c’è, non si capisce?” chiese Stefano, in apparenza seccato di essere stato interrotto mentre elencava tutte le app che si potevano istallare per raccogliere i dati GPS, elaborarli e poi presentarli nei modi più vari.
“Sì sì. Cioè. Un po’. Insomma io volevo capire anche un’altra cosa…”
“Vai spara” fece lui, segretamente compiaciuto da queste due ragazze che ormai lo stavano ad ascoltare da un quarto d’ora buono, dimenticandosi anche il resto della gita.
“Allora, ehm… Senti quesa cosa. Martina ieri ha mandato una foto sul suo… Titter”
“Twitter” puntualizzò Stefano.
“Eh infatti, quello che dicevo io. Però dalla gita, non da casa. Proprio mentre era in gita, insomma. Dice che ha usato il cellulare, dice che si può. Non serve un computer.”
“Ma certo”
“Beh, e come si fa?”
“Dammi il tuo telefonino” ordinò Stefano. Giada obbedì prontamente.
“Uhmm non è proprio un’ultimo modello… Poi se non hai un piano dati sbanchiamo il tuo credito. Aspetta”
Su piano dati Giada immaginò qualcosa come un complotto politico-informatico su scala mondiale. Ma forse era su una falsa pista, si concesse di pensare.
“Ecco facciamo così. Usa il mio, per stavolta”, disse Stefano staccandolo dal supporto della bicletta.
“Prendilo. Fai una foto, come hai fatto l’altra volta, ti ricordi”
“A cosa? A te?”
“NOO! Sennò poi mi vedono tutti. Dove vuoi.. Alla natura… All’albero!”
“Ok, fatta” disse Giada contenta di esibire le sue capacità tecniche, dove possibile.
“Ora clicca su condividi. Ecco, lì a destra. Perfetto.”
Roberta aveva poggiato la bici a terra e si stava avvicinando alla fontana. Stefano invece si era avvicinato a Giada per vedere lo schermo del suo cellulare, ancora ben stretto nelle mani della sua amica. Al contatto della sua spalla, Giada ebbe un brivido inaspettato, che la eccitò e la preoccupò al medesimo tempo. Cercò di non darlo a vedere concentrandosi sul telefono. Ah se Luisa fosse venuta questo non sarebbe successo. Ora non starei così, con queste stupide farfalle nella pancia. Ma perché ha deciso di non venire…
“….stupide e bellissime farfalle colorate…”
Stefano non si era accorto di nulla. O almeno, così sembrava.
“Metti lì la tua password di Twitter. Vai, ora spingi la freccetta. E via. Fatto.”
Sentiva il suo respiro nell’orecchio. Il suo respiro.
“Quella insulsa foto degli alberi? Proprio quella?” si allarmò Giada. Guarda che razza di presentazione delle mie capacità artistiche mando in giro.
“Sì proprio quella!”, rise Stefano. “Perché, c’è qualche problema?”
No se sono vicina a qualcuno come te, non c’è nessun problema. Sono al riparo. Avrebbe voluto dire qualcosa così, ma non lo disse. Però si accorse troppo tardi, dal viso di Stefano, che i suoi occhi dovevano averlo detto lo stesso, aggirando in qualche modo il controllo del cervello.
Poi per un attimo il parco fu pieno di silenzio, di vibrazioni di possibilità, di battiti fondi di cuori. Di attese. Poi per un attimo il parco fu pieno di farfalle, di stupide e bellissime farfalle colorate, su nel prato e giù nella pancia di Giada, giù giù nei fianchi di Stefano.
“Ne volete, di acqua?” Roberta tornò con una borraccia piena e la sua voce allegra e forte.
E con una occasione di distrazione di cui, per diversi motivi, entrambi le furono grati.