Certe volte guardo il cielo i suoi misteri le sue stelle Ma sono troppe le notti passate senza te Per cercare di contarle
Esperienza recente, per molti di noi. D’estate infatti è più facile avere occasione di guardare il cielo, lontano dai centri urbani, dove il buio è ancora degno di tale nome. E di scoprirlo, quasi inaspettatamente, pieno di stelle. Il che porta, sovente, a risultati imprevedibili. Perché magari si attivano misteriosi collegamenti interni, perché le stelle dicono qualcosa per ognuno.
Biagio Antonacci, nella canzone il cui incipit apre anche questo articolo, amalgama abilmente misteri e stelle del cielo con il sapore delle notti trascorse senza la sua stella, senza la persona amata. Con minima spesa di parole, con attraente sbrigatività poetica: edificando un tunnel, una efficace scorciatoia tra spazio esterno e spazio interiore. Un’abbondanza di misteri e di stelle, mescolata insieme ad una mancanza? Un composto decisamente agrodolce. Mi torna alla mente una strofa lapidaria di Saffo… [Continua a leggere sul portale EduINAF]
Tornato ieri a sera, dalla piccola tournée di due giorni, due incontri con tante persone, per raccontare le novità del cielo. Due incontri per declinare il titolo che mi era stato assegnato, suggestivo ed impegnativo al medesimo tempo: L’universo elegante mostra la sua danza di futuro.
Come per anni precedenti, ho raccolto l’invito cordiale di Gianluigi Nicola, presidente della Associazione Italiana Teihard de Chardin, a venire a raccontare, la sera di sabato 21 a Diano Marina e la mattina del 22 presso il Monastero di San Biagio, a Mondovì.
Sono state due occasioni per fare il punto sulle scoperte astronomiche degli ultimi cinque anni, comprendendo così come l’indagine del cielo – come il cielo stesso, del resto – è in fase di espansione accelerata, così che perfino durante gli anni del COVID si sono susseguite una serie di scoperte straordinarie, come di esplorazioni mai tentate prima.
In una manciatina di mesi, infatti, siamo andati a prender sassi sugli asteroidi, abbiamo lanciato nello spazio un telescopio gigante, abbiamo forse capito perché l’universo non si è azzerato subito dopo la sua nascita in un megascontro tra materia e antimateria, abbiamo indagato il sottosuolo di Marte ma ci abbiamo anche svolazzato sopra, con il primo drone planetario, abbiamo ascoltato il mormorio del tappeto di onde gravitazionali che pervade lo spazio, abbiamo trovato acido ribonucleico aggrappato stretto sopra un asteroide, abbiamo riallacciato i contatti con una sonda lontana ventiquattro miliardi di chilometri alla quale si era guastato il computer … e si potrebbe continuare. Ma avete compreso già.
Lo scriveva già Luigi Giussani negli anni Ottanta, nel celebre testo Il senso religioso (forse uno dei suoi testi più moderni, ancora leggibilissimo adesso):
L’atteggiamento scientifico – nel senso proprio del termine – già sappiamo che non potrà esaurire l’attenzione all’esperienza. Proprio per “esperienza” viviamo moduli e fenomeni che non si riducono all’ambito fisico-chimico.
C’è infatti un’idea di scienza, quel senso proprio appunto, che ormai avvertiamo subito come parziale. Perché appunto, non esaurisce l’attenzione all’esperienza. Da questa attenzione, credo, bisogna ripartire per recuperare l’umano, che è l’unica cosa che ancora – in questo clima pazzesco di distruzione e devastazione, in questo teatro di guerra planetaria – davvero l’unica cosa che ci può ancora interessare.
Ma attenzione. Qui l’unione di Terra e Cielo deve subito entrare in gioco, per non ricadere in ennesime parzialità. Qui la cosmologia interiore e quella esteriore devono unirsi, anzi si rende necessario intraprendere un percorso, dalla prima alla seconda (e ritorno). Attivare, riattivare, questo salutare ricircolo.
Perché tutta questa crudeltà planetaria che i telegiornali ci portano in casa ogni sera (nociva anche a subirla, tanto che sarebbe meglio spegnere e fare meditazione), si nutre del vecchio modello riduzionistico, e cresce sulla dimenticanza di Sè, della propria regalità.
L’essere umano, con i piedi ben piantati a terra, ha sempre alzato gli occhi verso il cielo, sia alla ricerca dei confini fisici dell’universo, sia alla ricerca di dimensioni altre. Ma qual è l’attuale visione scientifica del cosmo, dell’uomo e delle relazioni, anche simboliche, tra questi due universi? E quanto ci stiamo dimenticando di essere ponte tra Terra e Cielo, tra infinitamente piccolo e infinitamente grande?
Abbiamo già visto qualcosa di questo ammasso, nel recente passato, ma ora entriamo proprio – per così dire – nel suo cuore. Il cuore, cioè, dell’ammasso giovane di stelle chiamato NGC 1333. Distante da noi appena mille anni: un’inezia, dal punto di vista astronomico.
Il Telescopio Spaziale James Webb lo scruta attentamente, con l’idea interessante di identificare piccole stelle nane brune e pianeti liberamente vaganti per la nube stessa.
E quando miro in cielo arder le stelle; Dico fra me pensando: A che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo Infinito seren? che vuol dir questa Solitudine immensa? ed io che sono?
Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia è stato composto da Giacomo Leopardi quasi due secoli fa (tra il 1829 ed il 1830). Ancora oggi è attuale, bruciante. Davvero brucianti ed immortali sono le domande che si affacciano alla mente del pastore. E di noi tutti, pastori erranti nel cosmo.
A che tante facelle? A che servono tutte queste stelle? Aggiungerei, da astrofisico, a che serve che noi le studiamo? Le due domande, come capirete, vanno insieme, anche nella possibilità di una risposta.
Dopo duecento anni siamo ancora qui, nel punto focale che ha individuato Leopardi. Perché è un punto gravitazionale stabile: eterno, per la razza umana. Il genio poetico indica proprio questi punti di stabilità, parla di cose che rimangono. Ricordo che proprio Leopardi scrisse anche, da giovane (aveva appena quindici anni) una poderosa Storia dell’astronomia dalla sua origine fino all’anno MDCCCXIII.
Più volte ci siamo richiamati alla necessità di pensare un cosmo accogliente, uscendo dall’arcaico (ma perdurante) teatro concettuale che ci descrive un universo freddo, statico, indifferente a noi. Constatata la necessità, dobbiamo ammettere al contempo che non ci viene facile: c’è come una resistenza, una forza di inerzia, che viene esercitata in senso contrario a questo nostro desiderato e fondamentale percorso di liberazione psico-cosmico.
Senza girarci troppo attorno, credo sia lo stesso assetto della società in cui viviamo, che esercita questa resistenza. Il sistema neoliberista (efficacemente definito da Marco Guzzi come “estremizzazione del pensiero economico-liberale che porta alla cancellazione di ogni limite per il mercato e, quindi, di ogni controllo da parte degli stati nazionali nei confronti di entità multinazionali e delle corporations”) – che si espande ormai in uno spazio vuoto, non incontrando più la pressione contrastante di visioni differenti – ha assoluto bisogno di persone che non lo contestino, che si accontentino, che non sia accorgano, soprattutto, di essere re o regine.
Ogni tanto ci torno anche io, a vedere i numeri. Più di tremila i miei post, dal lontano 1997, in questo sito. Molti parlano del cosmo. Ma di che parlavo, mi chiedo, quando parlavo del cosmo? Credo che in fondo, parlassi di me. Credo che, alla fine, non si possa che raccontare la propria storia. Anche se si parla del Sole, delle galassie, dei quasar. Anzi, soprattutto se si parla di loro.
Mi è sempre più difficile andare avanti trascinando il vecchio, logoro paradigma di un cosmo fuori di me drasticamente separato da un cosmo dentro di me, come se circa due metri quadri di sottile rivestimento, definissero un confine non permeabile, non valicabile. Quasi tale esilissimo epitelio separasse drasticamente il mondo in due, con dinamiche inconciliabili, da una parte e dall’altra. Fuori di me, dentro di me.
Fuori dalla pelle, il cosmo. All’interno, il mio essere biologico e (da qualche parte) la coscienza. Mi piace così? Bene, al di là di ogni dissertazione accademica, se insisto a dimorare in questo modo di veder le cose, soffro. Se stacco il mio senso del vivere dalle galassie, se lo penso separato, sento subito che c’è qualcosa che non va. Da quando un oggetto cosmico – fosse anche un remotissimo quasar – entra nei radar della mia consapevolezza, mi dice di esistere, non posso più far finta di nulla. Ogni rimozione, lo so bene, mi fa diventare artificioso.
Azzardo un piccolo inciso, sulla coscienza. Se ha ragione Federico Faggin1, la coscienza è fondamentale ed irriducibile, ed esiste prima di ciò che chiamiamo materia. E già questo, preso alla lettera, mi farebbe scombinare tutto il quadro. Ma torno subito al mio ragionamento, per non mettere troppa carne al fuoco.
Dentro e fuori, mi domando, insistono le stesse priorità? Forse sì.
Mi sono già occupato di effervescenze solari, ma quando mi sono imbattuto in questo video, non ho potuto evitare di rimanere colpito. Che il Sole sia (per così dire) effervescente è infatti una cosa che sfida il mio paradigma di pensiero ordinario, cioè il modo in cui vedo le cose quando non ci penso. Sì, posso pure aver scritto una monografia sul Sole, ma non c’è affatto problema, mi dimentico uguale.
Un po’ come la faccenda dell’universo in accelerazione, che non mi viene per nulla naturale. Cerco di figurarmela, ma ricado esistenzialmente nella nozione di universo statico, ricado gravitazionalmente in un punto abitato da tanti, con me e prima di me. E’ faticoso andare davvero avanti, ci vuole un bel lavoro di pensiero, di riflessione. Già Jung avvertiva che la cosa più difficile di tutte è essere veramente contemporanei.
Posso pure aver risolto l’equazione di campo di Einstein ed esaminato la legge di Hubble in meticoloso dettaglio, verificando con grande cura i redshift di galassie lontane, ritornano a capire che tutto è in continuo movimento. Ma poi magari torno a casa certe sere, che sembra proprio non si muova nulla, dentro e fuori di me.
L’ho già citata altre volte, ma trovo espressa benissimo questa sorta di inerzia conoscitiva nella canzone Un’idea, del grande Giorgio Gaber
Aveva tante idee Era un uomo d’avanguardia Si vestiva di nuova cultura Cambiava ogni momento Ma quand’era nudo Era un uomo dell’Ottocento
Perché noi siamo così, siamo ancora quasi tutti immersi nell’Ottocento (con il corpo, ma anche con la testa). Cosmo statico, stelle fisse e perfette (non si danno variazioni superficiali su di esse), tutto fermo o impegnato a percorrere splendide circonferenze che si ripetono all’infinito, rendendo dunque inutile il tempo, svuotandolo di senso. Il tempo, inteso come variazione ma anche come progresso. Su questo schema arcaico, retaggio millenario che non vuole cedere, si infrange il nuovo paradigma che la moderna indagine scientifica ci veicola.
L’immagine dell’universo come un orologio è andata in frantumi, e ciò che emerge al suo posto è qualcosa che possiede una natura di gran lunga più olistica, qualcosa che somiglia molto di più a un enorme organismo che non a una macchina.
Tutto questo non può che avere enormi ricadute sul pensiero, ricadute che devono entrare ovunque. Perfino le categorie con cui pensiamo il sacro, ad esempio, devono essere riviste ora dentro il dato cosmologico di un universo in espansione. Se il cosmo cambia, sorge il problema di capire verso dove cambia. Da più parti si avverte come necessaria una nuova alleanza tra metafisica e scienza: non realizzarla, è un danno per entrambe le discipline, ed è un danno sopratutto per l’interiorità della donna e dell’uomo di questo tempo.
Paolo Gamberini, in Deus 2.0, definisce con felice intuizione un significato – tanto cosmologico quanto spirituale – del divenire (un concetto, questo del divenire, inapplicabile al cosmo, già solo per i nostri bisnonni)
Dal disordine il cosmo intero va verso l’ordine in cui nella pienezza sarà realizzata la vita divina che è essenzialmente dare la vita.
E’ molto bello ed utile rendersene conto, perché solo così possiamo fare un vero lavoro su di noi. Altrimenti il grande rischio è di trascorrere la vita in modo irriflessivo, magari dicendo con la bocca tante belle cose sull’universo in espansione ma gravitando al contempo dentro un universo del tutto fuori moda, fuori tempo massimo, ovvero quello statico. In un certo senso io creo il mio mondo, pertanto se io sono convinto di essere dentro un universo statico, in qualche modo ci sono davvero. In qualche modo, per me, l’universo ora non si espande. Accade, accade spesso, di stare in un universo che non si muove.
Un modo privilegiato per lavorare sul necessario svecchiamento delle nostre stesse percezioni è quello di essere aperti ai segnali che giungono dal cosmo. E’ una splendida palestra per rinnovare noi stessi, la ricerca astronomica. Perché sfida costantemente il nostro pensiero stagnante. Non con discorsi, ma con immagini come questa qui sotto.