Blog di Marco Castellani

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Osservatorio e cielo stellato

Davvero suggestivo questo scatto che mostra un ben noto osservatorio astronomico davanti ad un meraviglioso cielo stellato. Abilissimo il fotografo, devo dire.

Sapreste dire di quale osservatorio si tratta? Attenzione, non è facile…

Certo, soltanto che questo famoso osservatorio fatichereste a trovarlo… perché non esiste. Almeno nel mondo reale. Esiste nel mondo dell’intelligenza artificiale, perché l’immagine è stata realizzata con Bing Creator (ora già vedo il vostro dubbio… tranquilli, le altre immagini di questo sito sono vere o comunque se non lo sono, è sempre indicato). Va da sè, che non è stato scomodato nessun fotografo per realizzare questa foto.

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Scrivere, di altri mondi

Troppo allettante per non partecipare. Il workshop si tiene a Roma presso l’Università di Tor Vergata, organizzato da Laura Marcelli e Marco Casolino per conto della sezione INFN di Tor Vergata e del Dipartimento di Fisica del medesimo ateneo. Il titolo già la dice lunga, Le Prospettive dello Spazio 2: Alla ricerca di nuove forme di vita. Così recita il programma di questa edizione (che rimane disponibile online): Questa seconda giornata di studio – rivolta alla diffusione della cultura scientifica ed aperta al pubblico – è incentrata sulle domande relative a possibili altre forme di vita ed intelligenze e sulle risposte esaminate sotto il profilo della ricerca scientifica, di quello filosofico, religioso, non escludendo la speculazione nell’ambito del fantastico.

Disegno di Davide Calandrini @davidecalandrini 


Tiro un sospiro di sollievo. Finalmente! Di studi “di settore” ne abbiamo a iosa – siamo una società che produce studi specialistici in grande quantità – mentre non pochi avvertono la mancanza di momenti di vero confronto, di impollinazione reciproca, di scambio di idee e di esperienze. Occasioni nelle quali esporsi a risultati e questioni aperte, alla ricerca di punti di consonanza… [Continua a leggere sul portale EduINAF]

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Gli scampati

L’occasione è troppo ghiotta per lasciarla svaporare. Un invito ad intervenire in una presentazione di un libro, d’altra parte, è sempre una cosa interessante. Ancora di più quando il testo, per quanto opera di fantasia (un romanzo) presenta nella trama diversi agganci con temi scientifici quanto mai presenti nel dibattito pubblico, come quello della vita nel cosmo.

Foto di gruppo dopo la presentazione del libro.
Da sinistra, Gioacchino De Chirico, Mario Caprara, Marco Castellani

Incontro Mario Caprara, autore de Gli scampati (2022, edito da Bordeaux), proprio all’entrata della fiera. Domenica mattina, ci troviamo alla Nuvola di Roma, zona EUR, per l’ultima giornata di Più Libri Più Liberi, la fiera nazionale della piccola e media editoria. Giornalista, già autore di alcuni saggi, come Delitti e luoghi di Roma Criminale (Newton Compton, 2016) e Destra estrema e criminale (Newton Compton, 2009) Mario Caprara è alla sua prima prova narrativa. Dopo i saluti, entro subito in dialogo sui temi del suo intrigante romanzo: del resto sono tanti gli argomenti sui quali sarebbe bello soffermarsi, proprio dal punto di vista scientifico. Ci sarebbe da ragionare per settimane, e sarebbe anche interessante farlo… [Continua a leggere sul portale EduINAF]

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L’urgenza della verità

C’è qualcosa che è diventato insostenibile, in questo prolungato tempo di Covid. La polarizzazione di pareri ed opinioni ci spinge sempre di più a radicalizzarci, in quella che sembra diventata (solo) una guerra tra bande. Più passa il tempo, tra dati di ricoverati, ammalati, decessi, più questo fenomeno mi pare che aumenti. Un passatempo universale, la vera distrazione di massa. Per questo, insostenibile.

Tanto che non conta più chi sei, in ultima analisi. Conta soltanto da che parte stai. Tu che mi vieni vicino, che mi parli. Tu, che incontro in caffetteria sul luogo di lavoro, al bar, in un negozio. Tu che sei altro da me. Che puoi dunque veicolare il nuovo, farti ambasciatrice, ambasciatore di quello che io non mi aspetto. Tu, che sei tutto questo (e molto altro, teoricamente lo sappiamo). Ebbene, all’atto pratico, non mi importa tanto di te, mi importa capire subito (senza perdere tempo) in che squadra militi.

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Teresa è all’Harry’s Bar

Me lo scrive sorella Chiara (intesa in senso di parentela), Domani vado a vedere questo, con i ragazzi… così, ammiccante. E intanto mi passa il link. Non lo sapevo. Non ne sapevo proprio niente. Prendo tempo, intanto dico bravissima ma non mi decido. Alla fine però c’è qualcosa, qualcosa che non mi lascia passare oltre, non mi lascia scartare, troppo facilmente.

Va bene ci vado, ci vado. Acchiappo il biglietto in extremis. Un po’ angolato il posto, è quel che rimane, ma va bene lo stesso. In realtà (con il classico senno del poi) sarebbe andata benissimo, non bene. Non mi aspettavo quello che sarebbe successo, non mi aspettavo niente, di ciò che sarebbe successo. Uno non si aspetta mai niente quello che succede, d’altra parte. Non può proprio. Stai alla frontiera, quel che viene non lo calcoli, lo attraversi.

Sì De Andrè, la PFM, carino… E poi, proprio pochi giorni prima, passeggiando in montagna, mi ero riascoltato e riassaporato quel piccolo capolavoro che è Volume 8 riscoprendo molte canzoni che avevo dimenticato. Straordinarie canzoni. De André è un vero artista. Un poeta, per quanto questa espressione sia terribilmente abusata, nel campo della musica. Ma lui, lui lo é. Diamine, andrà pure detto. Ribadito.

Così a Chiara scherzando (ma non troppo) chiedo, ma me la fanno Giugno ’73? E rincarando la dose (è impossibile smorzare il desiderio, è cosa contro natura), e poi Amico fragile? Due canzoni pazzesche, bellissime, contenute in quell’album. Due canzoni (soprattutto la prima) che avevo scordato, avevo totalmente svaporato la loro umanità così spudorata, così toccante.

Così sarà, per la cronaca. Ma anche di più. Sarà molto di più. Perché è un collegamento con il cuore, che si accende. Un tuffo nel passato che ritorna qui, presente e palpitante. Tuffo imprevisto, ma istantaneo. Più che tuffo, spanciata. Accade subito, appena la PFM inizia a toccare gli strumenti, le prime note che si levano in aria. Ti viene addosso qualcosa, frontale.

La PFM nella Cavea dell’Auditorium (foto da cellulare, come si capisce bene…)

Io non so come fanno, non conosco i dettagli di questa magia, ma realmente fanno esplodere la musicalità che c’è nelle canzoni di Fabrizio, senza forzare nulla, senza introdurre niente di estraneo. E’ un lavoro a far venir fuori, non a sovrapporre altro. Esaltano De André, lavorando a far uscire cose che già ci sono, piuttosto che ad inserire elementi arbitrari. E quindi sono bravi, sono bravi proprio. Le canzoni ti investono, sono realmente godibili, gli equilibri tra gli strumenti mi appaiono molto ben lavorati. Fin dalla prima canzone, ogni canzone è una festa, per le orecchie e per il cuore.

Per me è qualcosa di speciale, che esonda potentemente la portata dell’evento. E lo capisco. Il fatto è questo, papà amava De André. Fin da piccolissimo ascoltavo risuonare per l’aria, a casa, queste curiose melodie dal sapore arcaico. E poi una stranissima voce bassa, calma, una voce che mi è sempre sembrata così, come dire, incredibilmente autorevole. Gravida di mistero, lambiva territori sconosciuti, portava odori, sapori di cose lontane ma interessanti, evocava universi appena socchiusi, mondi diversi e sempre umani, umanissimi.

Questo mi ritorna spudoratamente addosso, appena la PFM inizia a suonare. E mi sbatte addosso senza preavviso, il me stesso di tanti anni fa. Subito, subitissimo. Lo so che non sono imparziale, ma il cuore è troppo coinvolto. E poi questi hanno rispetto, per De André, grande rispetto: si sente a pelle. E quindi hanno rispetto per me, per la mia storia. Anche per papà, è chiaro. Lo rispettano. D’accordo, Magari non lo sanno, ma è così.

O forse invece lo sanno. Sì, secondo me lo sanno.

Perché se non lo sapevano, come veniva loro in mente di rifare, nella parte centrale del concerto, gran parte de La Buona Novella? Quel disco, proprio quel disco. Quello che papà ascoltava con religiosa attenzione, quell’unico disco a cui dedicava attenzione totale. Quelle note scarne che mi entravano nella pelle, da bambino, quegli arpeggi semplici e profondi, quelle parole addosso, prima ancora che capissi di cosa parlassero, che storia viva trasportassero.

Sì, quando la ascolto piango. Mi vengono esattamente le lacrime, mi manca papà, anche adesso che scrivo mi si inumidiscono gli occhi. Ma è una mancanza buona, sono lacrime buone, le voglio. Eppure l’emozione – e il senso di nostalgia – è fortissimo. Mi lascio piangere, per un po’ è necessario, non si può fare altro. Accidenti, speriamo solo che non mi veda nessuno. Come fai a spiegare?

E mi ricordo, ancora. Quando da ragazzetto, mi studiavo le note di copertina di quel disco che papà aveva portato a casa. Quello che per lui aveva una importanza tutta particolare. Non era un tipo che ascoltava molta musica “leggera”, papà. Anzi. Però quel disco era un’eccezione, una poderosa eccezione. C’era una nota del gruppo che suonava, si chiamavano I Quelli, e parlava del rapporto con questi testi, e con Fabrizio. Scrivevano qualcosa tipo dopo un po’ siamo andati da Fabrizio incuriositi, a chiedere perché aveva scritto questa cosa... A proposito, per come narra De André la nascita di Cristo (sempre con grande poesia e umanità comunque), rimando alla trattazione di Giovanni Marcotullio che per me è una delle cose più sensate che abbia avuto occasione di leggere, sul tema. Qui non sto valutando l’opera, controversa in alcuni punti, figlia del tempo in certe parti. Sto affondando nei ricordi. Anzi no, sono loro a venire su e inondarmi. Colpa loro.

Bene, quando dal palco avvisano che eseguiranno La Buona Novella in modo diverso da come l’avevano fatta a suo tempo sul disco (e si parla del 1970) , per un momento non comprendo. Subito viene aggiunto a quell’epoca ancora ci chiamavamo I Quelli. Tutto torna. Allora sono loro. Ed è ancora più magico, ancora più magico essere qui.

Ed è tutto particolarmente sbalorditivo, se penso alla casualità che mi ha portato qui, sbalordisco. Ma infatti, nessuna casualità, non è credibile. Non può essere un caso, se sono qui, adesso. Fatevi pure, al proposito i vostri ragionamenti rassicuranti, bilanciati, distaccati. Io non vi seguo. Se sono qui non è un caso, non lo è per niente.

E de André è un gigante, anche nei testi. Non è qualcuno che riveste di parole un motivo musicale, affatto. Le parole non accompagnano, e basta. No, le parole fanno esplodere la musica, la caricano a potenza. Queste cose non le fanno tutti, queste cose le fanno solo i poeti. Fabrizio De André è stato un poeta (anzi è un poeta, perché i poeti non muoiono mai). Sai, sono cose che magari quando ascolti le canzoni da ragazzetto, non te ne accorgi, non te ne accorgi del tutto.

Ora, con i miei cinquantasei anni, me ne accorgo molto di più. E mi commuovo, ancora e di nuovo.

Perché c’è Giugno 73 con il suo bellissimo, paradossale incipit

Tua madre ce l’ha molto con me
perché sono sposato e in più canto,
però canto bene e non so se tua madre
sia altrettanto capace
a vergognarsi di me.

E questi allegri pirati della Premiata Forneria Marconi, fanno anche Amico Fragile, ovviamente (ma è logico, visto che la serata è per me, in qualche modo arcano).

Evaporato in una nuvola rossa
in una delle molte
feritoie della notte,
con un bisogno di attenzione ed amore
troppo “se mi vuoi bene piangi”
per essere corrisposto

L’ho detto, suonano bene, le canzoni sono sempre arricchite e mai stravolte, c’è quel profondo rispetto per Fabrizio, quell’amicizia devota che si allarga dolcemente dai musicisti all’intero uditorio. Ed è un po’ come se lui fosse qui (e in una canzone “compare” la sua voce, come tributo doveroso).

Il gioco fra musica e parole funziona, i testi del Faber invadono l’aria serale tardoestiva di una Roma sotto Covid ma con tanta voglia di tornare a respirare, e risanano con i loro delicati paradossi. Appena entrato dentro Rimini, sbatto il cuore su una articolazione umanissima, che mi commuove in modo inaspettato. Di nuovo mi inumidiscono gli occhi…

Ma voi che siete uomini
sotto il vento e le vele
non regalate terre promesse
a chi non le mantiene

Ed anche, questa sovrabbondanza mediterranea di Andrea, il delizioso ritornello che ti sveste di ogni pensiero malinconico e ti porta dentro il mondo – al tempo stesso introverso e frizzante – tipico di Fabrizio.

Che ora lo capisci bene, e proprio per questo ti commuove a raschiare il pianto. Perché è un mondo in cui l’unica cosa che è declinata è la pietà. L’unica cosa di cui si parla. Come architrave di tutto. Pietà per gli ultimi, per quelli ai margini, pietà per gli assassini e le puttane. Una pietà credibile, scomoda, terribilmente concreta perché sfacciatamente antiretorica. Declamata con coraggio, decenni prima di ogni buonismo, sfida perpetua ai benpensanti e ad ogni loro (e nostro) pruriginoso bigottismo.

Mi guardo intorno. Stasera non c’è nulla di morto. De André è vivo, è ancora l’amico che cantava in salone quand’ero bambino, nella casa a Poggio Ameno. E papà è vivo: la sua mancanza infatti è terribilmente concreta, esiste, si tocca, è lui, è la sua, lui è qui. La PFM onora il maestro (i maestri?) nell’unico modo possibile: poche frasi, niente retorica. Le sue canzoni, dal sapore di donna, dal sapore dell’oceano. Il timbro di voce di papà, anch’esso così basso, mi si unisce in memoria. Sapeva di avventure, di amicizie, di amori e guerre.

Ora Teresa è all’Harry’s Bar
guarda verso il mare…

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Quella Luna degli anni settanta…

Sono lì che ascolto. Sono seduto al mio posto nella Cavea dell’Auditorium Parco della Musica (che ho appena scoperto essere ora chiamato Ennio Morricone), e sono appena stato oggetto (credo, con altre persone) di un fenomeno spaziotemporale abbastanza curioso.

Me ne sono accorto appena il tastierista ha affrontato la stupenda intro di pianoforte di The Lamb lies down on Broadway, questo fantasmagorico disco realizzato dai Genesis nel 1974. Vabbè, più che disco, dovremmo precisamente dire concept album, come appunto viene menzionato da quelli che la sanno lunga.

Ma dicevamo, il fenomeno spaziotemporale. Eccolo. E’ un salto indietro nel tempo per un ammontare di circa 45 anni, e nessuno mi aveva avvertito. Di fatto, dopo un minuto di musica (glorioso tripudio di tastiere), mi trovo nel bel mezzo degli anni settanta. Non c’è possibilità di sbagliare, non c’è alcun errore. E’ tutto perfettamente coerente, in effetti la coerenza è veicolata dalla musica, dai rapporti di tensione e distensione tra le note, dall’architettura di universo che espongono, e diffondono, istante per istante.

Beh, foto fatta con il mio smartphone (riapparso per un momento appena, d’accordo)

Penso che ogni melodia, anche la più banale, proponga una architettura di universo, trasporti un modello cosmologico. Un modo di pensare, di guardare alle sensazioni, alle emozioni, alle pulsioni, alla natura, al cielo, alla Luna. Al destino dell’universo, alla presenza di un senso o alla sua mancanza. A come vanno a finire le cose, per te e per tutti quanti e per tutto quel che c’è. Certo tale modello è nascosto, è cablato nelle note e nel ritmo, nei timbri degli strumenti e nel modo di suonarli. Nascosto, e per questo più potente. Ti arriva sottopelle senza passare per il ragionamento, lo assorbi senza quasi accorgerti. Ti arriva in vena, senza che tu debba iniettarti nulla.

Ed eccola lei, la Luna. Si vede bene dal mio posto nella Cavea (Tribuna Numerata, fila E), durante la prima parte del concerto. La guardo con curiosità, e trovo subito piena conferma. E’ stata sostituita, non è quella solita. Per la precisione, è una Luna del 1975 (o giù di lì, l’esattezza totale non è possibile), una Luna ancora tutta emozionata, un po’ scomposta, un po’ arruffata, dall’essere stata visitata dall’uomo solo pochi anni prima, toccata per la prima volta. Eh già, penso, in fin dei conti l’arrivo sulla Luna degli astronauti di Apollo 11 è del 1969, insomma pochi pochi anni fa. Una Luna che stiamo percorrendo adesso in fin dei conti (l’ultima missione, Apollo 17, è appena di un paio di anni fa). Siamo nel 1975, ricordiamoci.

Essere nel 1975 vuol dire qualcosa. Non è una cosa leggera. Non c’è Internet, non ci sono telefonini. Soprattutto (non troppo strano) non esiste niente, di tutta la musica creata dopo il 1975. Non esistono tutte le invenzioni melodiche, ritmiche, inventate dopo. Per dire, non esiste il suono delle percussioni più secche e precise, degli anno ’90 (infatti in realtà non so di cosa sto parlando): qui ci sono ancora quelle pastose, piene, totali. Non ci sono i ritmi disco degli ‘80, i ritmi facili e ripetitivi e minimalistici. Quali? Non lo so, ripeto. Non esiste ancora The Wall dei Pink Floyd, nemmeno come possibilità del pensiero. Attenzione, qui. Essere nel 1975 vuol dire che puoi pensare quello che vuoi, che credi di poter pensare qualsiasi cosa, ma di fatto non riesci a pensare il giro di basso di Another Brick in the Wall nemmeno se ti sforzi come un pazzo. Non ti viene. Non ti avvicini nemmeno. Puoi prendere una nota o due se sei geniale, come anticipo nell’aria, ma subito ricaschi nella circuitazione più barocca, meno cinica e più enunciativa, propria di questi tuoi anni. E’ una categoria mentale che non esiste, e tu non ti rendi nemmeno conto che non esiste, è questo il bello. Non capisci che c’è uno spazio di esistenza di qualcosa di incredibile, ma che ora non esiste. Non vedi lo spazio vuoto, è disponibile ma in un certo senso non lo è. Si nasconde, non c’è. Non lo sai. Lo saprai tra qualche anno (non molti), ma ora no.

E mica è finita qui. Non esiste nemmeno Abacab, questa canzone che è così stupendamente nelle corde dei Genesis (quelli senza Peter Gabriel, d’accordo, ma ora non entriamo nel dettaglio), che ti stupisci totalmente del fatto che non esiste. Che non è nell’aria. Che vuoto che lasciano le cose che non esistono! Ora sarebbe intollerabile. E tu niente, nemmeno sai che non esiste, appunto. Pazzesco, a pensarci.

Così ho attraversato un tunnel spaziotemporale e ora mi trovo qui. Del resto è normale. Perfettamente normale. Non è che ti avvertono prima che tu attraversi un tunnel di questi. Mica trovi dei cartelli attenzione al tunnel, ti porterà negli anni settanta, vuoi proseguire? No, niente di tutto questo.

Potenza della musica, potremmo dire. E qui la musica c’è, c’è eccome. E c’è gente capace di suonarla, di cantarla: per la cronaca, un supergruppo composto dai Revelation e dagli Squonk. Vabbé io non li conoscevo, ma non importa. Ciò che importa adesso è che c’è gente che ti esegue Lambs con una precisione nitida quasi da maniaci. Sì, e con bravura. Certo. Parecchia, anche. Tutto è come nel disco (forse anche troppo? Non so). Ogni specifico pattern di batteria (e sì che è una invenzione continua quel disco, che Phil Collins se ne è inventate di tutte) è riprodotto qui dal vivo adesso, ed ecco spiegato il meccanismo della macchina del tempo. Rendere viva una cosa degli anni settanta è possibile solo se sei negli anni settanta. Diamine, questo spiega tutto. E anche la parte visiva è curata, l’idea che non ascolti appena una musica, ma sei dentro una storia, calato completamente in una storia, che è di colori, maschere, costumi, video.

Mi dico, questi qui che suonano, ma quanto avranno studiato il disco come dei pazzi maniaci? Ogni grappolino di secondi di suono è stato certo riascoltato innumerevoli volte, per fare questo reverse engineering che restituisce un’opera rock (con una trama complessa ed onirica) con questa precisione quasi imbarazzante.

E le luci, i colori, che accompagnano il dipanarsi della storia di Rael, il giovane portoricano sbucato fuori dal riformatorio di Pontiac (la storia narra di un altro salto spaziotemporale, quella di Rael verso una sorta di regno sotterraneo sede di incontri tra il mitologico e l’allucinato).

Il filmato sostituisce la tonnellata di diapositive che a suo tempo (cioè ora) i Genesis si portavano in concerto, e muove tra l’evocativo, il sognante, l’inquietante, con lo spaesamento dell’arrivo inesorabile dell’epoca moderna, il sogno che si fa incubo perché non è più accolto, è pigiato verso le profondità della coscienza dalla modernità industriale che nell’esaltato delirio della produzione in serie pialla ogni differenza, la solitudine, la violenza, la paura dell’intimità, il mondo non più avvertito come rifugio, ma come un posto dove ci si gioca tutto, non ci si può rilassare, anche l’amore è ridotto ad una prestazione, un imparare dei codici di azione (e di sopraffazione) per non fare brutta figura, affidandosi ai manuali, in perdita verticale di spontaneità libera. Fino all’uscita finale, nel qui ed ora, forse sbrigativa ma in ogni modo indicativa, riunificativa (anche nella storia), che chiude il tunnel spaziotemporale e mi riporta (dopo un esteso bis, in verità) all’anno 2020: quello dove di botto ritornano all’esistenza i telefonini, Internet e tutto il resto.

Insieme con la nostalgia di un’epoca, provvisoria ed imperfetta quanto si vuole, dove sognare non era ancora concepito come antitesi al cambiamento del mondo, ma ne era la necessaira premessa.

Come in realtà deve essere, perfino dopo 45 anni da allora.

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Viaggio nel Sole…

E’ un piccolo viaggio nel Sole, quello che viene proposto in questo volume. Un viaggio che per chi scrive è iniziato diverso tempo fa, e si è concluso giovedì scorso, con l’uscita del volume in edicola, in connessione con il Corriere della Sera
 
Ora è qui, è solido, è concreto. 
 
E’ bello vederlo, sfogliarlo, pensare che tutto sommato ne è uscito un bel lavoro. Certo, un libro così è un lavoro di squadra, essenzialmente. C’è chi scrive (lo stesso che scrive le righe che ora state leggendo), e sceglie le (tante, tantissime) fotografie. Ma poi c’è chi fa il paziente lavoro di interfaccia con l’editore, e chi cura la grafica, la disposizione delle foto, la revisione del manoscritto, l’impaginazione, e tante altre cose, che sono piccole solo in apparenza.
 
Di questa avventura ne parlo un po’ più diffusamente su GruppoLocale (visto l’argomento astronomico, mi sembrava il posto adatto), ma non mi andava di lasciar passare la cosa senza che sporcasse un po’ di sé anche questo ambiente, che è quello mio più personale, in un certo senso più intimo, anche se aperto al mondo (interessante questa polarità, poi, questo lavoro continuo e non sempre facile, di verità nel raccontarsi davvero e di fiducia nell’aprirsi).
 
Grazie ad Umberto Genovese, per la bella immagine! 
Insomma è bello sfogliare questo libro, ora che è compiuto. Ricordando gli affanni, i momenti di crisi, quelli di esaltazione, e capire che soltanto l’applicazione paziente, l’adesione (tentativamente) umile a quel che c’è da fare, ha reso possibile che un’idea, un sogno, si trasformasse in un pezzo tangibile di realtà.
 
Il volume è l’undicesimo della seria Viaggio nell’Universo e fino ad oggi che scrivo, dovrebbe essere reperibile nelle edicole. Altrimenti almeno per un po’, lo potete trovare dentro il negozio online del Corriere, insieme ovviamente con gli altri volumi. 
 
Più di tutto, questo credo di avere imparato. Che le cose si possono fare, si possono realizzare. Grandi e piccole (che poi, ogni scala è relativa), anche cose piccolissime che nessuno vede, che sono spesso più grandi di tante visibili, per chi le fa, per la sfida che ha dovuto affrontare, le paure e le esitazioni che ha dovuto superare. 
 
Le cose si possono fare, io le riesco a fare (perfino io ci riesco), tanto più ci riesco, quanto imparo a dimorare nella domanda più che nella pretesa. Non è facile, è un lavoro sporco contro l’inclinazione spontanea, contro la continua deriva momentanea – un lavoro a volte aspro, quasi sempre faticoso. Ma a questo regime di frequenza, la risposta arriva, mi sento di dire, arriva sempre. 
A volte nei modi che non mi aspetto, ma arriva.
 
Un’evidenza, a volerla davvero vedere, quasi solare. 

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Nominare le cose

La poesia è bella, è importante, mi dico, soprattutto per questo. La poesia prende sul serio le parole, le prende sul serio e le ama una per una. Il poeta smonta e rimonta un verso, ed è attento ad ogni singola parola. La rispetta, la onora. Anche una congiunzione, addirittura un carattere sospensivo, una virgola. Ecco, anche questa. Muovere un virgola in un verso a volte è cambiare tutto.
Il poeta ascolta le parole e ne estrae il succo, le mette insieme alle altre e controlla la miscela, gestisce l’alchimia. O almeno prova a farlo, perché poi la vera poesia, sfugge sempre di mano, esonda dai calcoli ordinari, acchiappa quell’aggancio di infinito che ha appena sfiorato e ci fa dimora, ci fa casa. Da lì si comunica anche ad altri, perché è irresistibilmente missionaria. E si realizza la magia, la rinnovata fratellanza tra gli uomini, legati dal comune anelito del cuore. 
Viviamo in una epoca diametralmente opposta alla poesia. La quantità di parole scritte è altissima (sui social, sulle reti di messaggistica), ma una gran parte di queste è utilizzata al minimo potenziale, è svilita, è prostituita. La parola così depotenziata è volgare, sempre volgare. E’ questa, a ben vedere, la vera pornografia. Perché è la più perniciosa: induce un pensiero parimenti depotenziato, servile, non libero. La vera poesia è liberante, non sopporta costrizioni ideologiche o morali, non le sopporta affatto.

Nacque il tuo nome da ciò che fissavi è il titolo del meeting di Rimini di quest’anno, ed è soprattutto un verso di una poesia di Giovanni Paolo II. Il segnale che raccolgo è positivo, confortante. In tempi di slogan e pensiero semplice, dove i cinguettii informatici di illustri ministri fanno a gara in inciviltà e nel rilancio del pensiero pigro, mettere un verso di una poesia a titolo di qualcosa, è andare in salutare controtendenza.

Come dice assai bene l‘articolo di Fabrizio Sinisi,  Tornare a nominare le cose, riscoprirne il nome, è un modo di sancire un nuovo inizio: è come nascere di nuovo. E cosa chiede il mondo d’oggi più di ogni cosa, se non il dono di poter rinascere? 

Abbiamo bisogno di un nuovo inizio, ne abbiamo sempre più bisogno. Ne abbiamo bisogno a livello personale e a livello sociale, in maniera inscindibile. Abbiamo bisogno di riprendere a sperare, di comprendere che erigere muri (dentro e fuori di noi), chiudere gli accessi (personali e nazionali), serrare i confini (di ogni tipo), non è la risposta alla sete di sicurezza, che è solo un ingabbiamento ulteriore nelle nostre paure e nella nostra solitudine. E chi fomenta tutto questo, giocando sporco sulle nostre paure e le nostre fragilità, non sta facendo un buon servizio, ai singoli e alla società.

La poesia è un superamento allegro e curioso, di ogni recinto… 

Abbiamo bisogno di un riscatto, di una ripresa. Diceva Don Giussani, alcuni anni fa, che abbiamo una sola legge: riprendere, ricominciare, risorgere. La poesia ci aiuta in questo, solo che le diamo udienza. Se accogliamo il suo modo di parlare al cuore, il nostro cuore si riapre, si allarga di nuovo. Possiamo ascoltare, di nuovo, il canto del mondo. E noi, di nuovo, respiriamo.

Ritorna bella e invitante, seducente e accogliente, la prospettiva di guarire, di ritrovare un modo e un mondo di rapporti più sereni, distesi, pieni ed appaganti. Ed il cielo ritorna a vivere dentro di noi, come recita il titolo della mostra su Etty Hillesum al meeting (e questa, a Dio piacendo, dovrò proprio contemplarla nella mia visita).

Etty non ha scritto poesie, che io sappia, ma il suo diario è un’opera incredibilmente poetica, e profetica anche. E’ un punto di partenza prezioso per ogni progetto di umanità nuova, che non eriga a sistema le sue paure, non le congeli dentro la vergogna di controversi decreti di sicurezza, ma le attraversi costantemente, slanciandosi verso l’ideale e la sua scintillante bellezza.

Non abbiamo bisogno di tanti discorsi, non c’è bisogno di retorica. Abbiamo bisogno di poesia, che è l’antidoto emozionante ad ogni sclerotizzazione ideologica, è una delle poche risorse per venire a galla dai discorsi, dai discorsi che non servono più.

Come già scriveva Alda Merini, nella lirica Ho bisogno di sentimenti,

Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia la pesantezza delle parole,
che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.

Il meeting (se uno non si fa imbrigliare dai discorsi, appunto, e dall’idea che si è fatta di Comunione e Liberazione, ma semplicemente procede ad occhi aperti e cuore allargato) è una splendida occasione di sperimentare una umanità in ricerca, aperta agli stimoli della modernità e affezionata al valore buono delle tradizione, ai valori della cultura e della solidarietà (cosa non troppo banale, di questi tempi). Ed è sempre propositivo, un calderone – anche a volte affastellato, piacevolmente confuso – di proposte perché si comprenda che una vita migliore, più umana, è sempre possibile.

E non si ottiene certo chiudendosi dietro un limite, ma attraversandolo continuamente.

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