Blog di Marco Castellani

Tag: Abell 383

Abell 383, esempio d’uso intelligente delle risorse

Le lenti gravitazionali sono strumenti formidabili per investigare l’universo lontano, ne abbiamo parlato diverse volte: dalla deviazione dei fasci luminosi ad opera di una grande concentrazione di massa, possiamo conoscere importanti dettagli di oggetti lontanissimi. In più, sono strumenti che non dobbiamo allestire noi (come potremmo?) ma la natura stessa ci mette assai amorevolmente a disposizione. In fin dei conti non si tratta di inventarsi nulla ma di sfruttare intelligentemente quello che c’è.

Prendiamo il caso dell’ammasso di galassie Abell 383. In pratica, un bel grumo di galassie e materia oscura, a circa 2,5 miliardi di anni luce da noi. Con la sua massa enorme è una potentissima lente gravitazionale, ma per usarla veramente bene bisogna calibrarla – il che vuol dire, in questo caso, arrivare ad una stima della massa totale (per poter valutare la deflessione dei raggi luminosi che essa opera). Come dire, la lente è già in posizione, la troviamo bella e pronta all’uso. L’unica cosa che ci manca è il foglietto delle istruzioni, dove viene dettagliato il potere di ingrandimento della medesima. Per la lente ottica il fattore di ingrandimento è determinato dalla curvatura delle superfici, per la lente gravitazionale è semplicemente il valore della massa.

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L’ammasso Abell 383 Crediti: NASA, ESA, C. McCully (Rutgers U.) et al.

Per prima è l’attesa, potremmo dire (perdonate la sfacciata autopromozione, ma non ho resistito…!). Sì perché gli scienziati hanno capito che per calibrare questa lente così sui generis non bisogna far nulla, soltanto… aspettare. Sì. Aspettare che una supernova – non una qualsiasi, ma di un tipo molto specifico – capiti dietro l’ammasso di galassie, e poi cercare di capire dalle osservazioni quanto la luce della supernova sia stata enfatizzata dalla nostra lente cosmica. Questo perché delle supernovae sappiamo ormai molto, e ci sentiamo abbastanza sicuri – non sempre, ma in alcuni casi sì – della luce che producono. E’ una delle tecniche più’ affidabili per la “messa a punto” di queste lenti.

Nell’immagine di Hubble  l’ammasso di galassie A383 esibisce le sue capacità di lente gravitazionale, sulla destra, distorcendo pesantemente le galassie poste dietro al centro dell’ammasso. Ma guardate adesso i pannelli di sinistra: si vede una galassia lontana in due momenti diversi, prima e dopo la recente rilevazione di una supernova. Capirete bene che il trovare un oggetto familiare agli astronomi, a così grande distanza, dice tutto: è un aiuto insostituibile per comprendere cosa davvero succede alla luce attraverso la lente di A383. Come dire, non sappiamo che lente sia, ma siccome sappiamo di che tipo è la lampadina posta dietro la lente, possiamo facilmente arrivare a determinarne le caratteristiche proprio osservando come ci arriva questa luce.

Questo, abbozzato molto rozzamente (lo avrete riconosciuto) è il concetto di candela standard, mai troppo enfatizzato in astronomia. Ebbene, una particolare classi di supernove, le supernove “di tipo Ia” si dimostrano eccellenti, per questo ruolo. Per la cronaca, non è il solo caso di questo tipo: sono state trovare supernovae così “affidabili” anche dietro ad altri due ammassi di galassie, all’interno del progetto CLASH.

Dunque per guardare lontano non è necessario chissà quale sforzo; è ben più importante sfruttare quello che abbiamo a disposizione. L’universo stesso ha cura di fornirci i mezzi per conoscerlo – a noi l’approfittarne!

Derivato da APOD  5.5.2014

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Le prime galassie? Più vecchie di quanto si pensava!

Utilizzando il “potere di amplificazione” di una lente gravitazionale cosmica, gli astronomi hanno scoperto una galassia distante, le cui stelle risultano esser nate “inaspettatamente presto” nella storia del cosmo. Il risultato è importante perché getta nuova luce sia sui meccanismi di formazione delle galassie, sia sulle prime fasi dell’evoluzione dell’universo stesso.

Johan Richard, a capo della ricerca appena pubblicata su Montly Notices of Royal Astronomical  Society, ha affermato “Abbiamo appena scoperto una galassia lontana che ha iniziato a formare stelle appena 200 milioni di anni dopo il Big Bang. Questo mette alla prova le teorie su quanto rapidamente si siano formate ed evolute le galassie, nei primi anni dell’universo. Ciò potrebbe anche aiutare a risolvere il mistero di come sia stata dissolta la ‘nebbia di idrogeno’ che riempiva l’universo primordiale.”

La ricerca è stata condotta tramite osservazioni a diversi telescopi, incluso il Telescopio Spaziale Hubble, lo Spitzer (entrambi nello spazio) e il W.M.Keck Observatory alle Hawai.

La galassia distanta è visibile attraverso un ammasso di galassie noto con il nome di Abell 383, la cui gravità influenza il percorso dei raggi di luce che lo attraversano, un pò come fa una comune lente ottica nel caso della luce solare (anche se ovviamente il principio è diverso). Di fatto, l’allineamento “fortunato” tra la galassia, l’ammasso di galassie e la Terra si traduce in una amplificazione della luce che proviene dalla galassia lontana, il che permette agli astronomi di condurre osservazioni dettagliate. Va detto che senza l’ausilio di questa lente gravitazionale, infatti, la galassia sarebbe sicuramente risultata troppo debole per poter essere osservata, nemmeno utilizzando i migliori telescopi oggi a nostra disposizione. Potremmo dire dunque che, in questo caso, è  la natura stessa che ci viene in aiuto!

Tramite analisi ottiche e spettroscopiche, è stato determinato lo “spostamento verso il rosso” (redshift cosmologico) della galassia, pari a 6,027. Questo vuol dire che stiamo vedendo la galassia come era quando l’universo era vecchio appena 950 milioni di anni (l’età oggi stimata dell’universo, come sappiamo, è di 13,7 miliardi di anni, dunque era davvero molto piccolo…).

Un redshift così rilevante, comunque, non fa di questa galassia quella più lontana mai osservata: ne sono state trovare diverse con valori di redshift circa 8, e una addirittura con reshift intorno a 10! La peculiarità di questa galassia infatti non risiede nella sua distanza, ma nel fatto di presentare caratteristiche drammaticamente diverse da altre galassie distanti che si siano già osservate, le quali generalmente brillano gagliarde della luce di stelle esclusivamente giovani.

Benché le indicazioni di redshift, come abbiamo menzionato, piazzino la galassia molto presto nell’evoluzione cosmica, tuttavia i dati di Spitzer indicano come la galassia sia fatta di stelle sorprendentemente vecchie e relativamente poco luminose (come spiega Elichi Egami, che ha preso parte alla ricerca). Vi sono segnali di stelle vecchie addirittura 750 milioni di anni, il che porta l’epoca della prima formazione stellare indietro fino a circa 200 milioni di anni dopo il Big Bang, molto prima di quanto pensavamo!

L’ammasso di galassie Abell 383… più “potente” del miglior telescopio a nostra disposizione! (Crediti: NASA, ESA, J. Richard (CRAL) and J.-P. Kneib (LAM). Acknowledgement: Marc Postman (STScI))

La scoperta presenta implicazioni che vanno molto al di là del periodo di prima formazione delle galassie, e può aiutare a capire come ha fatto l’universo a diventare trasparente alla radiazione ultravioletta nei primi miliardi di vita dopo il Big Bang. All’epoca, una nebbia diffusa di idrogeno neutro bloccava la diffusione della luce ultravioletta. Deve essere allora intervenuta una qualche sorgente di ionizzazione per il gas neutro, che “spazzasse” la nebbia e lo rendesse trasparente ai raggi ultravioletti, come lo è ora. Il processo è noto con il nome di “reionizzazione”

In effetti gli astronomi erano persuasi che la radiazione che ha fatto da “motore” alla rionizzazione dovesse aver avuto origine dalle galassie. Però fino ad ora, nessun candidato era stato trovato per confermare questa tesi. La presente scoperta potrebbe aiutare a sciogliere questo perdurante enigma.

Se infatti le galassie lontane, con stelle già “mature”, fossero molte più di quanto prima ipotizzato (come la recente scoperta porta a credere), ecco che la “radiazione mancante” per la reionizzazione potrebbe finalmente trovare una sua origine, del tutto plausibile.

Una ultima osservazione: fino ad ora dobbiamo affidarci alle (potenti) “lenti cosmiche” per effettuare simili scoperte. Questo vuol dire che possiamo sfruttare solo alcune configurazioni geometriche particolari (come in questo caso, l’allinemaneto Terra – ammasso di galassie – galassia lontana). Con il previsto avvento del James Webb Telescope, nella prossima decade (speriamo), potremmo essere nella posizione ideale per risolvere questo mistero, una volta per tutte (e aprirne, come è sempre per la scienza, mille  e mille altri….)

SpaceTelescope Press Release

 

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