Il sole è ormai alto, entra nella stanza, forte, dichiarativo.
Ti devi svegliare
Apro gli occhi. Un occhio, poi l’altro
Sono qui. Sono io.
 
… bum! 
 
Eccomi, di nuovo. Sono in questo corpo, sono qui dentro. Eccomi come sono. Ora mi sento, avverto il peso. Gli entusiasmi e le pesantezze fanno subito a botte. Ma le pesantezze le sento tutte. Anche la tensione. Vorrei quasi essere un altro.
 
Essere diverso. Essere secondo il mio progetto.
 
Il mio progetto è un bel progetto, sulla carta. E’ molto ragionato (perfino troppo). Si parla di  un individuo pieno di buon senso, capace di risposte pacata e sagge, capace di pazienza. In breve, una sicurezza per  chi gli è intorno. Anche – quasi dimenticavo – capace di gestire con savia tranquillità i suoi interessi, i desideri, e sopratutto le sue pulsioni. Capace di presentare un profilo amichevole e riconoscibile verso l’esterno. Un profilo insomma, in una parola, affidabile.
 
Insomma, in poche parole, un individuo senza la ferita.
 
La mattina è impietosa, in questo. La mattina soprattutto, mi accorgo di come sono anni luce lontano dal mio progetto. Vorrei essere così, senza la ferita, senza quel senso di sbandamento che mi porta fuori strada, mi confonde. Essere preciso e puntuale, rispettato e rispettabile.
 
Quindi, in ultima analisi, sto cercando in tutti i modi di non essere me stesso.
 
Quindi, perdere la mia unicità. Ciò che mi è più prezioso. Ciò che mi fa me.
 
Ce ne vuole di lavoro, per capire che la ferita è la cosa più importante che ho. Per capire che il tempo e l’energia che impiego per tentare di allontanare i disagi sono tempo ed energia perse. Perché vanno nella direzione sbagliata.
 
Se guardo dentro i miei disagi, se oltrepasso l’istintiva ripugnanza, vedo qualcosa che mi interessa, qualcosa che brilla. Trovo una parte di me che mi è più cara di me stesso.
 
Questa parte non si trova in direzione opposta alla ferita, ma si trova assolutamente dentro di essa. E’ buffo, ma la vita è così. Devo cercare proprio nella direzione che più mi ripugna. Devo cercare la pietra preziosa, ma non posso trovarla dentro una teca sapientemente illuminata, deodorata, depurata, asettica. 
 
Non c’è verso. Finche non mi ci arrendo prenderò botte su botte.
Devo cercare la pietra preziosa mettendo le mani nel fango. 
Affondandole nel fango.
 
Mi devo sporcare. Me lo ripeto: mi devo sporcare.
 
Qualcosa di simile ci dice l’abate André Louf,

Spontaneamente pen­siamo che la santità va ricercata nella direzione opposta al pec­cato e contiamo su Dio perché il suo amore ci liberi dalla debo­lezza e dal male e ci permetta così di raggiungere la santità. Ma non è così che Dio agisce con noi: la santità non si trova all’op­posto bensì al cuore stesso della tentazione, non ci aspetta al di là della nostra debolezza ma al suo interno.

Come molta mistica, questa densissima intuizione dice qualcosa di profondo sul reale. Getta davvero una luce penetrante nel mistero dell’Essere. Tanto che, qui come altrove, non è nemmeno sufficiente tirarsene fuori affermando di non credere in Dio. Eh no, temo di no. Si parla qui della stoffa del reale, della struttura intima dell’esistente, della modalità con cui questo interagisce con me. Qualcosa con la quale tutti, a prescindere dalla fede, devono fare i conti. 
 
Ecco. Ci vuole molta strada, molta vita, per capire che la ferita nasconde un tesoro. Ma sono di quelle acquisizione che, capisco, possono ribaltare la percezione del mondo in maniera totale. 
 
Che ti possono far respirare, di nuovo.
 

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