Di Massimo Morasso ne ho brevemente parlato, ottobre scorso, nel contributo intitolato “Quegli universi, ancora da gustare“. In quella sede, facevo riferimento ai quattro finalisti dell’ultima edizione del Premio Nazionale Frascati Poesia Antonio Seccareccia, considerando nell’insieme la loro recente produzione. Vale però la pena, mi sono detto, di incontrarli di nuovo, uno alla volta. Il premio è una istantanea significativa di quanto si muove nel panorama poetico italiano (intimorisce, al proposito, la presenza di molti grandi nomi nel suo albo d’oro) ed è ragionevole attraversare i testi dei finalisti con maggior calma, rispetto a quanto può farsi in una analisi complessiva.
“Un bel tramonto estivo, le cycas in terrazza…” Elaborazione dell’Autore attraverso Copilot Designer di Microsoft
Che peraltro, siamo pienamente in tema. Massimo (ligure, classe 1964) è difatti, affermato poeta e collaudato uomo del cosmo, insieme. Fa parte del consiglio scientifico dell’importante Festival dello Spazio che si tiene annualmente a Busalla, in provincia di Genova. Ritorno dunque volentieri a consultare i suoi versi, dolcemente esortato da questo comune interesse in ciò che esiste oltre la terra… [Continua a leggere sul portale Edu INAF]
Vorrei partire da una frase di Eckhart Tolle, estrapolata dal suo celebre testo “Un mondo nuovo”
Il corpo fisico altro non è che un’errata interpretazione di chi siete. In molti sensi è una versione microcosmica dello spazio esterno. Per darvi un’idea di quanto sia grande lo spazio fra i corpi celesti, considerate che la luce, che viaggia a una velocità costante di trecentomila chilometri al secondo impiega poco più di un secondo per viaggiare fra la Terra e la Luna; impiega circa 8 minuti per raggiungere la Terra dal Sole. Dalla stella più vicina a noi nello spazio, chiamata Proxima Centauri, che è il sole più vicino al nostro Sole, la luce viaggia per 4 anni e mezzo prima di raggiungere la Terra. Così vasto è lo spazio che ci circonda. Poi c’è lo spazio intergalattico, la cui vastità sfugge a ogni comprensione. Dalla galassia più vicina alla nostra, la Galassia Andromeda, la luce impiega due milioni e quattrocentomila anni per raggiungerci. Non è incredibile che il corpo sia spazioso quanto l’universo?
Mi chiedo, se non vivessimo questa vastità, questa spaziosità, che rimanda spudoratamente al corpo, come potremmo mai pensare di connettere la poesia, la letteratura, al cosmo? Cosa scriveremmo di valido, in questa rubrica?
Anita è una ragazzetta vispa, che fa un sacco di domande. Avendo una mamma che è astrofisica di mestiere, può ottenere risposta anche ad interrogativi sull’inizio dell’universo, sul Big Bang, sugli alieni, sulla forma della nostra Galassia, e su tante altre cose del cielo. Leggendo, anche noi impariamo, con lei.
I miei racconti contenuti nel volume Anita e le stelle. La saggezza di uno sguardo (Amazon, 2022) – che avrò il piacere di presentare il 14 marzo in un evento a Frascati (qui le info) – sono legati intimamente al corpo, alle sensazioni, alla viva curiosità di queste due donne. Che insieme al cosmo esplorano come il rapporto madre-figlia evolva e si modifichi con il tempo, usano delle cose del cielo per saggiarne la natura, per comprenderlo e per abitarlo, seguendo armonicamente il suo stesso mutar di forma.
Massimo Morasso è affermato poeta e collaudato uomo del cosmo, insieme. Finalista alla recente edizione del Premio Frascati Poesia “Antonio Seccareccia” con Frammenti di nobili cose, fa parte del consiglio scientifico dell’importante Festival dello Spazio che si tiene annualmente a Busalla, in provincia di Genova.
Proprio in occasione del premio, ho avuto la possibilità di chiacchierare estesamente con lui, in compagnia dell’amico poeta Claudio Damiani. Un parlare che naturalmente innestava la poesia al cosmo, una dimostrazione – per me – di come i due ambiti siano intrinsecamente legati, anzi che siano, in qualche modo certo, una cosa sola.
Di Massimo già ho accennato, due mesi fa, nel contributo intitolato “Balsami per l’autunno”. Ora ritorno volentieri sui suoi testi, confortato da questa comune interesse in ciò che esiste oltre la terra.
Il suo Frammenti è un volumetto agile. Edito da Passigli Poesia (2023), è un libro che già dalla sobria copertina sceglie di far prevalere le nude parole, sulle immagini intriganti, sulle evocative illustrazioni. E già negli estratti poetici ripresi nel frontespizio, mi imbatto in quella nostalgia celeste che subito mi porta alle stelle, a quel de-siderio che è, secondo il suggestivo etimo latino, avvertire la mancanza delle stelle.
Ora che mi leggete in queste righe, è passata da poco la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, che si celebra il 25 novembre. Mi pare una ottima occasione per tornare sulla poesia italiana al femminile, sempre con l’occhio a quei versi che più d’altri ci parlano del cielo. Perché esiste una violenza del silenzio, lo sappiamo bene, che vogliamo contrastare, infrangere, debellare. E anche perché spesso proprio le poetesse sono le più capaci di ineffabili sfumature di delicatezza, ma anche – insieme – di contatto completo con il cosmo.
Riconoscere nella estesa produzione di Maria Luisa (scomparsa esattamente dieci anni e pochi mesi fa) quanto – ad esempio – la Luna affiori così frequentemente nei suoi versi, vuol dire anche assaporare una volta di più, l’attenzione e l’abitudine al cielo come caratteristica inestirpabile della poesia di ogni tempo. E la Luna è spesso questo punto di incontro, questo luminoso ed enigmatico cardine tra terra e cielo, tra cose usate e cose meravigliose.
Nulla ha esistenza in sé, tutto esiste solo in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa d’altro … le cose sono “vuote” nel senso che non hanno realtà autonoma, esistono a, in funzione di, rispetto a, dalla prospettiva di qualcosa d’altro.
Cosa mette in connessione stabile scienza e poesia? Le pone in condizione di mutua dipendenza, per dirla con Rovelli? Entrambe cercano di farci comprendere l’ambiente in cui viviamo, lo spazio che occupiamo. E rendercelo più abitabile. Tutto qui, se con ambiente intendiamo tanto quello esterno (lo spazio propriamente detto) quanto quello interno (sentimenti, emozioni). Le connessione tra i due spazi sono virtualmente innumerabili, tanto che secondo diverse correnti di pensiero, in realtà si tratta di un solo spazio: celebre la frase di Agostino, l’anima è in qualche modo, tutto.
Sostengo che la poesia esiste solo in funzione di qualcosa che gravita al suo esterno, così come la scienza. Ogni nuovo testo poetico, se riuscito, è anche e soprattutto una investigazione cosmologica. Ogni produzione poetica è anche un lavoro di ricerca, che estende e raffina le ricerche precedenti, smentisce alcune tesi, ne conferma altre.
Come fa ben notare il noto fisico Carlo Rovelli in Helgoland (Adelphi, 2020), lo sconquassamento teorico più efficace del mondo moderno e di tutto il suo assetto è opera di un manipolo di ragazzetti, che investono la perenne ricerca della radice profonda del reale con l’ardore rivoluzionario tipico della loro età. Questi rivoluzionari del pensiero – Heisenberg, Jordan, Dirac e Pauli – sono tutti ventenni. Tanto che a Göttingen la loro fisica viene chiamata «Knabenphysik», la fisica dei ragazzi.
A loro – nelle fondamenta del secolo così tormentato ma al contempo così audace verso il nuovo, come il Novecento – il compito di svelare il segreto, di denunciare che il re è nudo, che il modello di realtà che ha eletto la fisica dell’ottocento a modo privilegiato di vedere il mondo, è ormai deprivato di ogni consistente radice che voglia affondare nell’ordine profondo delle cose, ovvero in quel mondo subatomico che sorprendentemente si rivela tanto elusivo quando rivoluzionario.
“Un cosmo di buchi bianchi” (generato con Bing Image Creator)
Al fondo, è una questione linguistica. Nè potrebbe essere altro, se è vero che l’universo è fatto di storie, come asserisce la poetessa Muriel Rukeyser. Al poeta, dunque, il compito di cesellare il linguaggio adatto, facendosi voce di ciò che non ha voce, accogliendo ogni incertezza. Così Gian Mario Villalta, in Dove sono gli anni (Garzanti, 2024)
Non sei tu, ibisco, non sei tu, ma prendi nella mia voce parola, nella mente, come ogni cosa che vedo e sento. Ti importa se non sappiamo che cosa siamo io per te, tu per me, per tutto tu e io l’universo?
Seguendo l’invito della poesia, è la grammatica stessa della nostra comprensione della realtà che, noi fisici, dobbiamo accettare di modificare. Nello stato di bassa energia non solo mi percepisco isolato, ma erigo barriere per difendere il mio isolamento. Disgregato in particelle elementari in urto pazzo e fuga scombinata in direzioni casuali: questo mi aspetto come destino ultimo, conclusione logica del mio assetto mentale. In breve, non vivo. Difatti non si vive fuori dalla relazione. Questo ci dice la nuova scienza, questo ci ha sempre detto la vera poesia. Pur riconoscendo di non sapere cosa siamo io per te, tu per me, indubbiamente siamo coinvolti in qualcosa, insieme.
Alla fine, cosa mette in connessione stabile scienza e poesia? Ritengo che sia molto semplice: come forse abbiamo già scoperto, percorrendo le varie tappe di questa rubrica.
Provo a dirlo in un modo sintetico. Entrambe cercano di farci comprendere l’ambiente in cui viviamo, lo spazio che occupiamo. E rendercelo più abitabile. Tutto qui, in fondo: certo, se con ambiente intendiamo tanto quello esterno (lo spazio propriamente detto) quanto quello interno (sentimenti, emozioni). Le connessione tra i due spazi sono virtualmente innumerabili (secondo diverse correnti di pensiero, in realtà si tratta di un solo spazio: celebre la frase di Agostino, l’anima è in qualche modo, tutto), e l’indagine appassionata in essi procede sempre nelle due direzioni, interna ed esterna. Altrimenti si lascia fuori qualcosa. Qualcosa altrimenti si spezza, e i frammenti dispersi, proiettati con violenza verso orbite irregolari, rendono tutto più opaco, più doloroso, meno trasparente. Inquinano lo spazio.
“La poesia apre nuovi universi”, immagine generata mediante Copilot Designer di Microsoft
Mantenere l’unità di tutto è essenziale, ormai non è più un optional. Oggi non basta la sola poesia, non serve la sola scienza. Sono zoppicanti, se pensate da sole. Serve cementare la loro profonda amicizia, urge anzi – pur bruciando le tappe – suggellare il loro matrimonio [Continua a leggere sul portale Edu INAF]
L’universo è un luogo accogliente? Questo è l’interrogativo fondamentale, il vero focus di questa rubrica. Non puoi fare poesia, infatti, se non senti di essere in un luogo accogliente. Non puoi creare prescindendo dall’ambiente, e l’ambiente per eccellenza è il cosmo.
Leonardo Boff e Mike Hataway, nel Tao della Liberazione(uscito dieci anni fa per i tipi di Campo dei Fiori), parlano espressamente del fenomeno della perdita della cosmologia in Occidente. Un fenomeno gravissimo, che contribuisce non poco al malessere moderno del quale difficilmente riusciamo a non fare esperienza quotidiana. Anche nella poesia. Abbiamo infatti perso, con la stessa entrata nella modernità, la nozione di universo “amico”, luogo di riparo e protezione. Per gli autori, “abbiamo smarrito una narrazione onnicomprensiva che ci dia l’impressione di avere un posto nel mondo. L’universo è diventato un luogo freddo e ostile, in cui dobbiamo lottare per sopravvivere e guadagnarci un rifugio in mezzo a tutta l’insensatezza del mondo”.
Illustrazione generata dall’Autore attraverso Bing Image CreatorContinua a leggere →