E’ come una meraviglia perenne, una scintilla sempre pronta ad innescarsi. Custodita tra le pagine di un libro, o tra i files di un computer. Così protetta, sembra quasi innocua, tranquilla. Tranquilla come le cose più tranquille che ci abitano intorno. Con le quali abbiamo fatto ormai un patto di dominio, di usufrutto vicendevole e utilitaristico. Con le cose che – siccome siamo diventati adulti – non ci meravigliano più.
Così abbiamo fatto questo patto, l’abbiamo bevuto come prezzo inevitabile del diventare grandi. Certo, lo sappiamo, è necessario diventare grandi ed anche abbandonare questo rapporto magico con la realtà e le cose. E’ necessario imparare ad usare le cose per come si prestano, non soltanto esserne spaventati od estasiati. Avere l’abilità di costruire. 

A volte nel tentativo di essere adeguati e misurati però perdiamo il contatto con la meraviglia potenziale delle cose.Vediamo tutto a livello di superficie, e a quel livello – alla fine – niente sembra veramente interessante (questo lo dico di passaggio ma è veramente drammatico) Sarà perché siamo fatti per un livello diverso forse?

Così a volte il sistema di geometria cartesiano che (in apparenza) regola il mondo ci diventa improvvisamente strettissimo. Almeno per me è così. Cerco una possibilità di morbidezza, di sperdutezza diversa, che non si trova nella quotidianità. Oppure che dalla quotidianità è stata cacciata, nel tentativo di una maggiore efficienza, di una più netta incisività. Perdendo forse l’umano. 

Photo Credit: eperales via Compfight cc

Quello che mi colpisce della poesia è che la vedo come una porta di accesso – sempre ed instancabilmente aperta – ad un sistema di comprensione delle cose diverso: forse più sfuggente, dai contorni più indistinti, ma certo meno angusto del mio. Una comprensione delle cose più affermativa, più intrinsecamente affermativa, anche nelle composizioni più cupe. E’ anche un accesso veloce e possibile a tutti.

Non serve nessuna preparazione particolare, non serve alcuna erudizione: provare per credere. C’è qualcosa di incredibilmente moderno in questa velocità. E insieme di antichissimo. E’ l’elaborazione di un senso – di un legame tra le cose e gli uomini, e tra gli uomini stessi – in una delle sue forme più pure, più facilmente assimilabili. Mi viene da parlarne come un farmaco, o forse – come è stato detto – come bene comune.



E’ buffo che un’epoca così veloce come la nostra non frequenti molto le poesie. A differenza di altre forme di espressività letteraria, si prestano benissimo ad essere veicolate su web. Perfino su Twitter possono girare efficacemente scampoli di ottima poesia: c’è gente che in meno di centoquaranta caratteri ci ha lasciato dei capolavori, delle epifanie sconvolgenti. E forse, leggendo certi frammenti di Saffo, o di Ungaretti, nella loro drastica brevità sembra proprio di trovarci di fronte ad una sorta di tweets ante-litteram. 

Così la poesia rimane una risorsa per noi uomini distratti. Una risorsa che noi spesso non consideriamo. Ma non importa. Mi verrebbe da dire, non fa nulla.

Perché tanto lei c’è. 
E potrà sempre riaccadere.

Potrà sempre succedere che ritrovi quella strana meraviglia; che leggendo poesie – scorrendo i versi di un poeta o una poetessa magari a me sconosciuti – senta scendermi dentro quelle misteriosa e dolcissima tranquillità che tante volte mi manca, senta risuonare il mio cuore di una corrispondenza tanto incredibile quanto insperata, come un dono che superasse l’attesa.

E sarà di nuovo come affondare le mani in una meraviglia,
vicina ma spesso celata.

E sarò colpito.

Tanto che alzando gli occhi dal libro mi accadrà di nuovo, di vedere il mondo e gli oggetti consueti, con una luce diversa: più carica della incredibile bellezza di questa nostra imperfetta umanità… 

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