A volte nella confusione della grande quantità di rumori, di innumerevoli strategie interpretative di ogni cosa, emergono segnali in fase, segnali concordanti. Che si rinforzano in una sintonia virtuosa, per cui inizi a maturare degli indizi di una possibile certezza. A covare questo senso caldo e inconfessabile di comprensibilità del reale. 

Può accadere per le piccole cose, per gli affetti personali, e anzi quando accade è un conforto grande. E può accadere per avvenimenti “esterni”, che comunque  si presentano alla coscienza e la interrogano. Chiedono uno schema interpretativo (ultimamente) positivo, aperto e lavorabile.

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Ecco, ritrovo una confortante unità di accenti, qualcosa che mi rassicura e mi fa pensare di essere sulla strada giusta. Di essere, appena, sulla strada. E’ quello che penso leggendo l’intervento di Julian Carron, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, che interviene sui fatti di Parigi. Sì, perché leggendo non posso fare a meno di ritornare a quello che scrisse “a caldo” Marco Guzzi, proprio all’indomani della strage. Ed è come se leggessi la stessa cosa, appena incarnata in una sensibilità diversa. Come lo stesso oggetto, descritto attraverso due vocabolari, due sistemi di riferimento, differenti solo all’apparenza. Non conflittuali, peraltro: anzi, felicemente complementari.

E’ quello che mi conforta di più. Prendo dallo scritto di Juliàn Carron,

Questa situazione storica è un’opportunità eccezionale per tutti: anche per i cristiani. L’Europa può costituire un grande spazio per noi, lo spazio per la testimonianza di una vita cambiata, piena di significato, capace di abbracciare il diverso e di destare la sua umanità con gesti pieni di gratuità. 

Ritorno allo scritto di Marco, e leggo

Questo è il tempo della nostra conversione, della conversione dell’Occidente ai propri stessi principi, altrimenti anche libertà, fraternità, e uguaglianza, saranno morte parole, che già infinite volte sono state utilizzate per schiavizzare popoli interi e imporre ingiustizie e stragi in tutto il pianeta, a partire proprio dalla rivoluzione francese e dall’arroganza della sua ragione totalitaria.

In entrambi gli interventi ricavo questo senso di opportunità, questo leggere attraverso eventi anche dolorosi, tragici, per vedere cosa di positivo possiamo trarre. Perché allo sbigottimento, del tutto comprensibile, non segua l’inattività del cinismo e del freddo disincanto, ma ci si possa mettere in cammino, con una prospettiva buona.

Apro una parentesi personale. Quando ho iniziato il cammino di Darsi Pace, nell’ottobre dello scorso anno, ho allo stesso tempo dato – inevitabilmente – inizio anche un lavoro di raccolta di evidenze, di concordanze, ho insomma esteso la mia richiesta di unità delle cose e dei punti di vista a tutto ciò che adesso interessa la mia vita. Non è certo una indagine accademica: è piuttosto un lavoro di portata esistenziale, pregnante per la vita quotidiana, per la coscienza di me stesso, al quale non posso sottrarmi. Fa parte del mio lavoro di essere uomo. 

Questo non so se interessi davvero il lettore, ma è  quanto mi riguarda più da vicino. Del resto, l’osservatore è parte del fenomeno osservato, ci insegna la fisica moderna. E’ inseparabile da esso.  Così che per parlare di come vedo il mondo (in fondo è l’unico argomento valido di un blog) bisogna che parli anche un po’ di come sono io. Oltre a tutto questo, che potrebbe sembrare ovvio, se ne scrivo qui è perché credo che qualche semino di concordanza possa interessare chi non è direttamente implicato in questi cammini, ma sia semplicemente mosso da un desiderio onesto di comprendere, e di stima verso posizioni che – pur con registri espressivi diversi – esprimono pacatamente una interessante sensazione di urgenza.

C’è qualcosa che ben travalica il senso di appartenenza a questo o quel movimento, la nostra prossimità a questo o quell’ordine di idee.  Che ben si presta ad un confronto in campo aperto, da uomini liberi (libertà che, detto di passaggio, non è in alternativa ad appartenenza, anzi…). Come ben dice Luca Doninelli in un pezzo di pochi giorni fa, “Le prime due volte – una da solo e una in compagnia – l’ho letto perché l’aveva scritto Carrón. La terza volta l’ho letto e basta, e solo in quel momento mi sono accorto della sua importanza.”  

Il pezzo di Luca è bello, perché schiva lesto le posizioni ideologiche ed astratte, e va piuttosto a cercare l’odore della realtà, con esempi vivi di questa umanità nuova che fa del dialogo il suo strumento espressivo privilegiato e direi quasi irresistibile.

Leggetelo.

Così, non dovrei aggiungere altro, se non che scommettere su questa umanità del dialogo, su questa nuova umanità mi pare la prima cosa e comunque la più urgente. Ed è, come dice il sottotitolo del testo di Marco, un progetto politico e spirituale. Ogni progetto ormai è politico e spirituale insieme, ovvero vede come indispensabile premessa ad un lavoro tra gli uomini il lavoro dentro gli uomini, dentro se stessi, nel farsi docili, nel farsi pane, al fremito di uomo nuovo che vuole sbocciare anche in noi.

Un uomo nuovo, che non si riconosce più negli steccati e negli schieramenti ideologici elaborati nello scorso millennio. Elaborati per separare, per dividere. In ossequio al nostro io belligerante, che si riconosce quando si ritrova in opposizione a qualcuno.

Sembra assurdo dirlo a ridosso di questi avvenimenti, ma forse possiamo ormai fare un passo in avanti.

E’ stato detto autorevolmente molti anni fa. E’ stato gettato un seme… “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna…” (Galati 3,28). E’ una prospettiva ancora da far nostra, ancora da far sbocciare, in senso compiuto. Ci viene più facile distinguerci in persone di destra, di sinistra, credenti, atei… così che l’uomo in relazione – che è definito appunto dalla relazione e non dalla separazione – deve ancora sbocciare. 

Ma i tempi sono prossimi, ormai: le doglie del parto le avvertiamo già.

Possiamo fare una cosa, intanto. Da subito.

Possiamo lavorarci.

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