Quando un libro viene pubblicato, ti accorgi presto, che non è un punto di arrivo, ma un punto di inizio. Perché comunque, a questa creatura nuova c’è bisogno – da subito – di volergli bene, di amarlo, di considerarlo non una cosa fatta per cui passare oltre, ma qualcosa da amare, da accudire, custodire. Prima ancora si sperare di piazzarlo qui o là, di vendere, di farlo circolare tra amici, parenti e poi in cerchi più allargati, prima ancora di cercare di compiacere l’editrice, che tutto sommato ha investito soldi su di te, ecco, c’è da fare questo. 

Nessuno si aspetta altro da te che tu ami la tua creatura. La ami così com’è, nella sua luminosa imperfezione (se perfino i capolavori sono imperfetti, chiaramente la perfezione non è la cosa da cercare), la ami come espressione di te stesso, espressione dialogante e come una apertura, una proposta, per chiunque ti incontri. 
La poesia è lo stupore di un nuovo inizio, di un inizio “bambino”, sempre… 
La poesia infatti è una proposta alla libertà di ognuno. La poesia è un grimaldello, anche. Sottilmente ma irresistibilmente antiretorico, è un grimaldello che disarticola ogni struttura di pensiero troppo consolidata, irrigidita, usurata da eccessive ripercorrenze quotidiane. La poesia scardina e liquida queste strutture, ma lo fa in modo accorto, in modalità sempre laterale, non frontale. Lo fa in tono sommesso per cui ti ridona morbidità di pensiero senza quasi che te ne accorgi. La poesia non sopporta i discorsi inutili, lei va al sodo: lustra la parola perché brilli.
Per questo è tragico che non si legga abbastanza poesia. Si leggono romanzi, saggi, dissertazioni (sempre poco). E non si legge abbastanza poesia. Perché c’è un pregiudizio, pesante, all’opera nelle nostre teste. 

Non avevo niente in particolare contro la poesia, però la trovavo decisamente una perdita di tempo. Nei casi migliori era uno svago o un esercizio letterario, in quelli peggiori, i più numerosi, era per me un’irritazione da evitare senza indugio. Poesia uguale debolezza, fuga dal reale, roba da sognatori o da gente complicata.”

Così scriveva Antonietta Valentini, qualche tempo fa, fotografando un atteggiamento molto diffuso (atteggiamento poi da lei stessa superato, come potete leggere). Dobbiamo infatti recuperare la consapevolezza che ci stiamo esattamente giocando l’opposto: la poesia è la possibilità diretta di entrare nel reale con una lucidità e consapevolezza nuova, con la mente spurgata da tanti inquinanti che la parola poetica, ovvero la parola usata in tutta la sua forza, può realizzare. 
Il titolo che ho scelto, Imparare a guarire, esorta consapevolmente ad un uso terapeutico della parola poetica, ben oltre la semplice percezione estetica (ma non troppo, in fondo la miglior cura è il bello). La prima sfida è per me: custodire questo libro, proporlo a chi mi vuole bene, a chi voglio bene, come canale di comunicazione privilegiato e diretto verso il cuore. Usarlo insomma come strumento di cura.
Del resto, è così per tutto. L’importante è esserci, non scappare. Rimanere, in questo. Avere il coraggio di respirare quel che si è scritto, distillato lungamente, in tante revisioni, a cercare la parola giusta, la parola esatta, come un colore, che si depone vicino agli altri per realizzare il quadro, secondo quanto deve essere fatto. 

Da ieri si può leggere online la bella prefazione di Marco Guzzi al mio volumetto; si può ordinare via ibs.it oppure all’editrice (info@edizionidifelice.it), fino al 20 di settembre ancora senza spese di spedizione. Se lo prendete, vi prego veramente di una cosa: leggete lentamente. Ci vuole spazio, tempo e spazio mentale, per aderire alla tavolozza di colori che ho provato a scegliere. Per non violentarla involontariamente. Non cercate ma fatevi cercare, non affannatevi per raggiungere, ma lasciatevi raggiungere. Siate spettatori passivi, provateci: cambia tutto. 
E’ un regalo di delicatezza che ho provato a fare, e a farmi. Una possibilità di (auto)guarigione, un avvio di guarigione, alimentato dalla morbidezza degli accostamenti delle parole, così come ho potuto, come mi è venuto. Un ritornare bambini senza infantilismo, ma nell’idea evangelica di apertura, di condizione necessaria – sempre da riprendere – per essere nel mondo, vivendolo davvero.
Quel che accadrà per questo libro, lo sanno le stelle. Ma fin d’ora è un canale aperto, una possibilità in più, di affratellamento intorno ai ritmi del cuore. Che sono quelli, sempre finalmente quelli, per tutti. 

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