Blog di Marco Castellani

Categoria: Società

Astronomia e pandemia

Diciamocelo chiaro. Siamo tutti un po’ stufi. Almeno, io lo sono. Non vuol dire che non capiamo la ragione di quello che avviene, la motivazione di certe restrizione della libertà personale, per carità. Ma è che siamo stufi. Questo penso ci possa stare. Stufi. E abbiamo necessità di capire di nuovo, se quello che stiamo facendo ha senso. Se ha un senso proprio adesso. Altrimenti, è inutile far finta, c’è qualcosa da cambiare.

Una suggestiva vista dall’interno della cupola dell’Infrared Telescope Facility della NASA, situato alle Hawaii. Crediti: UH/IfA

Per me (forse un poco anche per chi legge queste pagine), la domanda è ha senso parlare di astronomia, adesso? Vorrei raccontarvi – in poco – perché a mio avviso la risposta è affermativa.

Direte voi, ma che mi interessa del cosmo, adesso che non posso uscire nemmeno di casa? Ecco, forse mi interessa proprio adesso. Forse ora che sono incastrato in un gioco al ribasso nelle coordinate spaziali (confinato nell’esistere in un ambiente ristretto), forse proprio ora ho bisogno di sapere che esiste un altro ordine di cose, un ordine di cose che spazia verso l’illimitato, l’infinito. Se i miei segnali e stimoli corporei sono depressi in un intervallo molto definito, evacuato spesso di sorprese, ho bisogno almeno di sapere che ci sono segnali che mi arrivano ora, da Marte come dai più lontani quasar. Segnali di qualcosa che non conosco e che mi può sorprendere, sempre.

L’astronomia è tutto questo (ed altro). Ci proietta innanzitutto in un campo grande. Ci ricorda che il gioco è sempre molto più esteso di quanto pensiamo. Pensare in grande, insomma, senza credersi chissà che. Perché è altro che è grande, ed è fatto in modo che noi possiamo parteciparne. Dunque, questo temporaneo isolamento non è la realtà, la realtà è un cielo grandissimo che è un teatro – questo sì, sempre aperto – di rutilanti novità e di incredibili avvenimenti.

Sapere che in questa epoca plastificata e protetta, di sintetiche distanze e solitarie disinfettate esistenze, c’è un mondo infettato di vita e di esuberanza, ci fa molto bene. Di questa realtà ci fa molto bene parlare. Ci fa assai bene anche guardare il cielo, la notte, e sognare. Fa bene ai grandi e ai piccoli. Molto bene ai piccoli, ché proprio il cielo è qualcosa che contribuisce alla crescita armonica, a tenere tutto insieme, compresa la speranza ardente, così facile ad essere abbandonata dai più grandi. Così preziosa che vale la pena fare la fatica di riprenderla. Sempre e comunque.

Perché l’universo è qui dietro, e in qualche modo (che a volte non sappiamo, ma avvertiamo) vuole entrare in dialogo con noi. E ci aspetta, sempre.

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Sogni antichi, per un futuro nuovo

Proprio bella questa immagine: conserva intatto quel seme di fiducia che forse abbiamo un po’ smarrito, e che proprio in questo scampolo di anno così particolare, così difficile, può essere utilmente ripreso.

Crediti: NASA’s Ames Research Center

Il disegno parla di un possibile futuro (precisamente, una ipotetica struttura toroidale nello spazio, adibita a colonia umana), ma è fortissimo il richiamo ad un recente passato, molto terrestre. Lo stile grafico, infatti, parla da solo, per chi ha già vissuto un po’ di orbite solari. Parla degli anni settanta, ed appunto è stato elaborato in quell’epoca dall’Ames Research Center della NASA. Al tempo, qualcuno ricorderà, andavano molto questo studi (piacevolmente fantastici) sulla colonizzazione dello spazio. La fiducia verso il cambiamento sulla Terra si proiettava morbidamente nelle profondità del cosmo.

Tutto questo mi arriva proprio come tenerissimo richiamo ad un passato che, forse, può insegnarci qualcosa sul futuro. Forse in chiusura di quest’anno difficile, possiamo sperare davvero in una nuova era, in un riscatto della parte più sognante e desiderante di noi stessi. Per tornare al lavoro, alla lotta quotidiana, ci vuole un sogno, ci vuole una ipotesi di certezza, un’ombra intravista, di compimento. Così possiamo tornare a sentirci, ad essere almeno un po’ combattenti.

Per arrivare alle stelle è necessario e sufficiente il puro desiderio, che costituisce la stoffa dei sogni. Provarci, crederci: questo dipende comunque da noi. E cambia tutto l’Universo, lo sappiamo, lo sentiamo. Da qui ai quasar più distanti, quello che ammorbidisce davvero il tessuto dello spazio tempo è uno sguardo bambino, la capacità di stupirci, per le cose che accadono, in cielo e in terra.

Buon ricominciamento ad ognuna, ognuno.

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Qualcosa in noi, che canta…

Siamo negli anni sessanta. Gli anni dei Beatles, della crisi dei missili di Cuba, del festival di Woodstock ed anche – per avvicinarci ai temi più marcatamente astronomici – di quel capolavoro immenso che è 2001 Odissea nello spazio.

E’ un tempo di grandi rimescolamenti, di un’idea di revisione e rivoluzione del modo di vedere il mondo e i rapporti interpersonali (che trova come sappiamo un formidabile veicolo espressivo e di aggregazione nella musica). E’ un tempo di insofferenza verso tutto ciò che mortifica l’uomo, e di forte desiderio di cambiamento. E’ anche un tempo  – non a caso – di grandi imprese, anche nell’esplorazione del cosmo.

Apollo 12 è la seconda navicella con persone a bordo, e decolla proprio alla chiusura dei sixties, nel 1969. Il punto di allunaggio viene scelto vicino alla posizione di arrivo della Surveyor 3, una navicella robotica che era arrivata sulla Luna tre anni prima.

Crediti: Apollo 12NASA

Nella foto, presa dal pilota del modulo lunare Alan Bean, il comandante della missione  Pete Conrad si intrattiene a controllare il Surveyor (il quale probabilmente non si aspettava visite umane vita natural durante), per verificare la solidità del suo appoggio sulla superficie del nostro satellite. Il modulo lunare è visibile sullo sfondo.

Sebbene non sia celebre come le contigue missioni Apollo 11 (che portò i primi uomini sulla Luna) e Apollo 13 (che non  raggiunse il suolo lunare ma riportò rocambolescamente a casa l’equipaggio dopo un’esplosione avvenuta nel modulo di servizio), Apollo 12 ritornò a Terra con un favoloso bottino, consistente in molte fotografie del suolo lunare ed anche diversi campioni di roccia (alla faccia di chi dice che non ci siamo stati, cosa che comunque un po’ rimane in mente se si è visto il bellissimo Capricorn One).

Tra i suoi successi bisogna anche ricordare l’allestimento dell’Apollo Lunar Surface Experiments Package (nome abbastanza altisonante, devo dire), che rimase in opera fino al 1977, e che portò avanti in modo brillante una buona serie di esperimenti, inclusa la misurazione del vento solare.

Il programma Apollo sarebbe continuato ancora per tre anni, chiudendosi poi nel 1972 con la missione Apollo 17, che resta ad oggi l’ultima missione che portò un uomo a passeggiare sul suolo lunare. 

Oggi finalmente, dopo tanti anni di oblìo, si torna a pensare a missioni umane sul nostro unico e pregevole satellite naturale. In ogni caso, l’esplorazione della Luna ha raggiunto nel programma Apollo  degli obiettivi difficilmente dimenticabili, ed è segno permanente di cosa possiamo fare, noi umani, quando appena ci crediamo, quando appena ci permettiamo di guardare al mondo e all’universo con un pelo di fiducia.

Non sarebbe azzardato dire che questa è una delle più grandi acquisizioni del programma Apollo: abbiamo imparato qualcosa della Luna, ma anche qualcosa di noi, qualcosa di estremamente prezioso. 

Giova oggi, in quest’epoca di crisi, ricordarselo. E farsi contagiare di nuovo da un entusiasmo, che cova appena sottotraccia, che é vivo, comunque.

E ogni volta che vediamo la Luna, nel cielo terso, qualcosa in noi canta

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Nuove scoperte lunari

Si chiamava “The Great Moon Hoax”, ovvero “La grande burla della luna”.  Si era nel lontano 1835 e la conquista della luna era ancora nel campo della pura immaginazione.  Così come quello che si sarebbe potuto trovare lassù. Il quotidiano New York Sun, a partire dal mese di agosto, pubblicò una serie di articoli riguardanti – nientemeno – che la scoperta della vita e della civiltà sul nostro satellite. L’autore delle scoperte sarebbe stato nientemeno che John Herschel, astronomo famosissimo al tempo. 

Ora, è chiaro che doveva trattarsi di articoli satirici. La cosa piuttosto impressionante, a ripensarci ancor oggi, è il fatto che vennero presi in tutt’altro modo. Per diverso tempo vennero presi sul serio. Tanto da essere tradotti in altre lingue. Perfino in italiano, con l’uscita a Napoli, l’anno successivo, di un libretto intitolato Delle scoperte fatte nella luna del dottor Giovanni Herschel.

Litografia della Great Moon Hoax di un “anfiteatro di rubino” per il New York Sun, 28 agosto 1835

Pur trattandosi di una burla, appunto, pianificata probabilmente anche con lo scopo di aumentare la tiratura del giornale (e in questo, ebbe pieno successo) è illuminante per farci comprendere al giorno d’oggi a noi – smaliziati uomini del secolo XXI, avvezzi a ragionare delle profondità cosmiche più lontane – di quale enorme curiosità e quale senso di possibili meravigliose scoperte fosse avvolto il nostro satellite. Ora sappiamo che la realtà è molto meno suggestiva, in un certo senso. La luna – l’unico satellite naturale di cui disponiamo – è fredda e piuttosto desolata. Ce lo hanno ben testimoniato anche gli astronauti.

Pensate però a che nuvola di mistero ancora la circondava, per l’uomo di inizio ottocento. Quali civiltà, quali meravigliosi esseri popolavano questo satellite? Chissà quanti ragionamenti arditi nelle notti di luna piena, quante elaborazioni fantastiche, quanti tentativi di immaginare cosa potesse davvero esserci. Ecco, gli articoli ebbero così tanto successo perché venivano incontro a questa curiosità diffusa: in un certo senso, rispondevano ad un bisogno culturale.  Come noi oggi ragioniamo intorno al possibile destino dell’Universo, alla sua remota origine, ci perdiamo nella nozione intellettuale degli universi paralleli, così gli uomini allora, probabilmente, si chiedevano quali creature popolassero la nostra  luna.

Gli articoli del New York Sun interpretavano questo bisogno, rispondevano ad una curiosità diffusa.

Con il trucco di attribuire le scoperte ad uno scienziato famoso (il quale ovviamente non aveva mai osservato nulla del genere), tali articoli non difettavano certo in immaginazione, perché descrivevano minutamente una topografia lunare alquanto intrigante, con foreste, mari interni, piramidi di quarzo di colore lilla. Non era tutto. Altro che sassi. La luna era decisamente popolata. Bisonti, unicorni blu, creature anfibie nei fiumi, tribù primitive che abitavano delle capanne, uomini alati che vivevano in una sorta di pastorale armonia in un suggestivo tempio dal tetto d’oro.

Furono decine di migliaia le copie vendute dal New York Sun prima che qualcuno si rendesse conto che era … fantascienza, non scienza. Tanto per capire la proporzione, considerate che già l’edizione con la seconda puntata vendette la bellezza di diciannovemila copie, ottenendo la diffusione più ampia di qualsiasi altro quotidiano su tutto il pianeta.

La bufala si estese in maniera virale, anche (dettaglio non trascurabile) tra gli scienziati, prima che qualcuno capisse che si trattava di una completa invenzione. Del resto, la scienza ufficiale non viaggiava molto lontano da quanto l’articolista (forse tal Richard Adams Locke, nella realtà) aveva osato immaginare. A ulteriore conferma del fatto che la scienza non è mai avulsa dal suo tempo e – lungi dal costituire  una sorta di indagine asettica del reale – incarna e fa propri gli aneliti e i desideri più propriamente umani caratteristici di ogni epoca.

Come pensare altrimenti, se consideriamo infatti che un docente di astronomia presso l’Università di Monaco, Franz Von Paula Gruithuisen, aveva pubblicato nel 1824 un documento che si intitolava “La scoperta di molte distinte tracce di abitanti lunari, in particolare di uno dei suoi edifici colossali” (già il titolo farebbe sobbalzare sulla sedia qualsiasi scienziato odierno) nel quale sosteneva di aver osservato diverse tonalità di colori sulla superficie del nostro satellite, che lui correlava – disinvoltamente, diremmo oggi – con diversi climi e differenti zone di vegetazione? Arrivando perfino a correlare linee e forme geometriche da lui osservate con la probabile esistenza di muri, strade, città e fortificazioni? Va detto che un margine di eccentricità doveva comunque essere percepibile anche allora, perché probabilmente – al di là dell’aumento di tiratura – teorie come quella di Gruithuisen erano proprio il bersaglio dell’operazione satirica.

Consideriamo comunque che queste teorie – per quanto eccentriche ci sembrino oggi – erano il prodotto accademico di scienziati professionisti. Certo non tutti erano così fantasiosi, non tutti azzardavano ipotesi così rischiose, ma tant’è. Sorprende, forse. Ma solo a chi non comprenda come la scienza sia molto, molto più umana (e dunque molto, molto più interessante) di come tanta cattiva cultura, ancora permeata di influssi crociani, ci porta a pensare. Quella “cultura” che vede la scenza appena  come misuratrice della realtà.

No, la scienza è molto di più. E anche questi episodi “minori” ce lo insegnano.

La scienza è legata intimamente alle altre attività culturali dell’uomo (ove l’uomo ricerca la natura e il senso di sé nel mondo), è iscritta a pieno titolo nel suo tragitto culturale e di scoperta.

E’ insomma parte integrante dell’avventura umana. 

(Elaborazione dalla voce di wikipedia Great Moon Hoax, alla quale si rimanda per approfondimenti e link.) 

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