E’ veramente con piacere che ascolto questa seconda prova dei Grisembergs Revival. Un disco solido e maturo, che si muove sulle tracce ben definite dalla loro prima prova, Forgiven, allargando ancora di più – se possibile – il ventaglio di stili e influenze musicali che ha fatto tanto esaltare i critici in occasione dell’uscita del loro primo album.
Curiosamente, mi pare che  in Italia non siano ancora molto noti (qualche rapida indagine tra i miei amici mi ha convinto che nel nostro paese siano ancora pressoché sconosciuti). E’ vero, forse questo peculiare mix di country e di blues vecchio stile forse non è troppo nelle corde dell’ascoltatore italico medio. Tuttavia vi sono diversi pezzi che meriterebbero maggior notorietà, ad iniziare dall’accattivante Please don’t forget my address che tra il malizioso e l’autoironico,  sfodera un riff di chitarra (tutto merito di Cliff Borgstain e del suo personalissimo stile) tanto energico quanto orecchiabile, capace certamente di scalare le classifiche del cuore anche dei più renitenti alla musica d’oltreoceano. Ma tant’è. Va detto con un certo dispiacere che a volte siamo ancora troppo provinciali. Rimane, per i fortunati, il gusto della scoperta di qualcosa di indubbio valore. Da come la vedo io, i sei ragazzotti californiani sono musicalmente dotati e pieni di inventiva, e questo Shadows of forgotten afternoons me lo conferma in pieno.
Devo dire la verità, fosse soltanto per me, probabilmente non li avrei mai scoperti. A volte la vita è strana: vi sono traiettorie esistenziali complesse e imprevedibili, per le quali uno può venire a contatto di una autentica perla, senza che ne possa vantare alcun merito. Un amico mi ha fatto sentire qualche mese fa il loro primo album. In un tranquillo dopocena mi ha offerto un dito di amaro (non troppo amaro) e ha messo su il CD dei Grisembergs. Una folgorazione (il CD, intendo, non l‘amaro-non-troppo-amaro). Arrivato a casa l’ho cercato e subito acquistato su Google Play Music (non mi andava nemmeno di aspettare per farmelo prestare), l’ho masterizzato appena scaricato. E poi me lo sono portato avanti e indietro in macchina. L’altra settimana in pratica ho ascoltato solo quello, e così hanno fatto – giocoforza – i miei passeggeri (a casa non ci vogliono più salire, ormai, nella mia auto). Eh sì. Quando ci vuole ci vuole. Forse hanno ragione i pochi irriducibili detrattori, tutto sommato è musica semplice. Non saprei dirlo. Di certo una ventata di aria fresca, nel fin troppo omogeneo panorama sonoro contemporaneo.
Ma torniamo al disco. Il lavoro prosegue con la frizzante Eyes of a Naked Summer, tre minuti e mezzo di pura energia e di spumeggiante ottimismo. Cliff fa un ottimo lavoro sulle chitarre, ma anche la ritmica non è da meno. D’accordo, il motivo è sfacciatamente orecchiabile – volutamente radiofonico, mi verrebbe da dire – ma non mi dispiace. Non ci vuole un genio per capire che brani come questo possono scalare le classifiche senza troppo sforzo. Vedremo.
Il terzo pezzo di questa prova dei Grisembergs è una ballata molto più meditativa. So much time si affida ad un arpeggio arioso di chitarra e ad una voce calda e malinconica. La ritmica è gentile e non invasiva. Le parole sgorgano come un pacato lamento, capace di toccare le corde più segrete di ogni cuore sensibile (e anche meno sensibile, se ascoltata a volume ragionevolmente alto). Kelly Rogers canta con ispirata delicatezza.

I’ve spent so much time looking for you, my darling.
I thought I’d found peace in your warm brown eyes
I’ve spent too much time looking for you, honey
And since you’ve gone my heart can rest no more
I’m lonely, in this cold long winter
Won’t you please come back, sweet love of mine?

Segue una curiosa parentesi strumentale, un brano lungo che supera di poco i dieci minuti, Faraway morning, in cui una delicata struttura armonica decisamente blues viene innervata e arricchita da una struggente linea di violino (qui marcatamente elettrificato). Va detto come per l’occasione la band si sia avvalsa della preziosa collaborazione di Jonathan Much, un autentico virtuoso dello strumento, celebre nella West Cost anche a in seguito della partecipazione – a suo tempo – al ben noto Deja Vu di Crosby, Stills e Nash. Sono pezzi come questo che a mio avviso manifestano la limpida volontà del gruppo di distaccarsi da taluni stereotipi di genere, per osare qualcosa di diverso e decisamente inconsueto (da notare negli ultimi due minuti il curioso e piuttosto ardito impiego del Flauto di Pan, che si unisce assai efficaciemente al violino in un complesso gioco di echi e contrasti).
Il CD prosegue poi con alcuni pezzi decisamente più convenzionali, anche se suonati sempre con l’inventiva tipica del gruppo. Troviamo un paio degli immancabili standard, come While you’re away, il famoso e ultraeseguito pezzo di Jackson Rogers, che però qui acquista una coloritura più energica, quasi rock. Reflections of you di Paul Smith, altro inossidabile classico, è giocato su un tempo decisamente lento, e l’uso (qui decisamente inconsueto) del sitar lo trasforma insospettabilmente in un brano dal sapore quasi indiano, arricchendolo di un alone di etereo misticismo.
Probabilmente il pezzo che è destinato a rimanere più impresso, almeno al primo ascolto, è però quello che chiude l’album, My hearth, exposed. Qui sicuramente la barra del timone punta più lontano, la ritmica si fa più complessa (significativa la partecipazione di Bob Greys, il celeberrimo batterista jazz), l’impasto strumentale è percettibilmente più elaborato – rispetto ai canoni del blues o del country ma anche rispetto allo stesso primo disco dei Grisembergs. Anche il testo del pezzo sembra un tantino più meditato rispetto ai canoni della band. In luogo della consueta celebrazione dell’amore, o della nostalgia, della lontananza da casa, tema di molte delle loro canzoni (e dello stesso genere country, bisogna ammettere) , nei quasi nove minuti di My heart, exposed si fa strada una riflessione che non esiterei a definire esistenziale e quasi metafisica. Colpiscono in questo senso le ultime parole pronunciate da Rogers quasi in recto tono sul tappeto fine e delicato delle chitarre acustiche e della ritmica leggera. Difficile spegnere il lettore senza che le tali parole continuino a riverberare nella testa, degno coronamento di una opera – a mio parere –  destinata a durare nel tempo.
And after all
all in all as it could be
do you know, honey did you know
that it’s just a joke
yes honey, just a joke
And under the sun,
you’re certain by now
that this song do not exist
and this album does not exist too…
And honey, how can I say
you know, I’ve no secret for you
my heart is exposed.

(all’ascolto notate, vi prego, il sapido gioco di basso e batteria sulle parole chiave del pezzo, my heart is exposed)
You know the truth, by now. 
This band does not exist
Yes honey, it was just a joke
You know, baby, just a joke.

Siamo d’accordo, potrebbero sembrare cariche di una malinconia quasi eccessiva, soprattutto le ultime strofe. Tuttavia il pessimismo del brano (se di vero pessimismo si tratta) non convince, mentre le parole stesse rimangono come sospese nell’aria, al termine del CD, come prolungando misteriosamente l’esperienza già appagante dell’ascolto. Così uno spegne il lettore, mette il disco nella custodia,  torna alle occupazioni consuete.
E intanto, continua a trattenere nella mente la mirabile sequenza di chiusura… Just a joke,  just a joke …

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