Che poi la cosa non è conclusa. Sento che c’è ancora qualcosa, qualcosa che va detto ancora, o meglio, va aggiunto al già scritto. Parto subito da una considerazione globale sul disco. Mi viene un’analogia forse bizzarra. Mi viene da pensare alla musica di Anton Bruckner. Eh sì,  perché Three Sides Live mi pare un disco squisitamente bruckneriano. Sarà anche forse per questa copertina bianca, che mi fa pensare allo stupendo ciclo delle sinfonie di Bruckner diretta da George Tintner. Ecco, uno come lui lo senti subito, te ne accorgi che ama quello che sta dirigendo. Che dà al materiale sonoro e al suo autore il massimo rispetto, la massima reverenza.

La quarta sinfonia di Bruckner diretta da George Tintner.
Difficile scappare dall’evidenza che questa conduzione
sia il risultato di un rapporto d’amore.

Un po’ come accade per quella curiosa incisione, quella rivisitazione di Bruckner in chiave Jazz. Interessante fino dal titolo, Deference to Anton Bruckner. E interessante nel contenuto. Ti accorgi che ci sono delle idee che possono migrare stile, registro espressivo, ma rimangono. Perdono qualcosa e qualcos’altro acquistano, in maniera misteriosa.

Idee e significati che passano attraverso gli stili,
e i generi musicali sono davvero solo questo:
divisioni di comodo

Così questo più lo ascolto più Three Sides Live mi appare come un disco bruckneriano. Perché da come la vedo io, vi sono due orientamenti musicali dominanti. Due modi essenziali di scrivere e fare musica. Uno può essere quello che chiameremo mozartiano (anche se non tutto Mozart, ovviamente). C’è infatti la musica che si diverte ad essere musica, e può essere incantevole e stupenda. Mi fa pensare ad un giardino con delle fontane zampillanti. Ad una festa di colori, di fuochi artificiali. Allo stupore del dire, del raccontare. Prendiamo ad esempio quella gemma che è Eine kleine Nachtmusik, la Piccola Serenata Notturna. La musica è armonia e gioia e porta gioia alla vita dell’uomo, perché rivela nascoste simmetrie e suggestive consonanze.

Così in questa modalità la musica si.. stupisce di se stessa, e riflette su se stessa. Così la diversità dei suoni e la varietà di modulazioni espressive trova ampio spazio: un gioco squisito che è insieme riflessione sulle potenzialità del mezzo, e celebrazione della vita. E’ una modalità che trascende disinvoltamente la (discutibile) divisione in generi, e attraversa tutta la musica: esempi sono la ottava sinfonia di Beethoven, Tubular Bells II  e QE2 di Mike Oldfield, la quarta sinfonia di Gustav Mahler… così, solo prendendo le prime cose che mi vengono in mente.

C’è poi l’altro polo espressivo, l’orientamento musicale che per comodità voglio chiamare bruckneriano. Dove vince l’urgenza e la profondità di quello che si deve dire, dove il senso di compromissione totale con il dramma umano, esige una attenzione e una focalizzazione differente. In cima non c’è più il gioco degli strumenti, c’è la omogeneità e la compattezza. Perché si va all’essenziale. Tutto suona come una cosa sola. Nessuno strumento vien fuori con virtuosismi od orpelli. Perché quando si parla della vita e della morte nessuno vuol mettere orpelli, nessuno ammette di perdere tempo. Bruckner – è stato detto – tratta l’intera orchestra come un unico strumento, come fosse un maestoso organo. Ecco perché le sue sinfonie sembrano più affini ad una Toccata e Fuga di Bach che a tante altre sinfonie ottocentesche o novecentesche.

Esempi di questa modalità musicale ce ne sono tantissimi, a cominciare da quasi tutto Bruckner, appunto. La musica sacra, per grande parte (per quel che ne capisco) è qui. Ma non solo: la nona sinfonia di Mahler ne è un altro brillante esempio. E quel capolavoro incompiuto e sublime della sua decima, è totalmente qui.

Allora, tornando al disco dei Genesis, forse vi posso spiegare perché per me sia da considerarsi un disco del filone bruckneriano. Sì, senza alcun dubbio è così. Ascoltante, è evidente fin dall’inizio. Intanto, nessuno strumento vien fuori a fare sortite estemporanee. No, niente: non c’è verso. Tutti compatti, in funzione dell’idea espressiva. Senza distrazioni. Poi, guardate la compattezza del fronte sonoro. Fino dall’inizio, in ogni canzone. La scelta dei timbri. Essenziale: compatta ed essenziale. Invece della varietà armonica c’è un uso sapiente delle possibilità tecniche, che non vengono mai alla ribalta di per sé. Il suono ovviamente c’è, ma non è che si metta in mostra, perché è totalmente funzionale all’espressione del contenuto.

Prendiamo per esempio Dodo. L’apertura è… fantastica. Due note, una intro più breve non si può. Due note, e il senso di allarme, di allerta, lo ricevi subito. Dopo arriva il sintetizzatore, con quel suono ruvido quanto basta e dopo un po’ di ascolti ti accorgi che lo vuoi proprio così, che ti serve proprio così, esattamente così. E tutto si integra benissimo nel pezzo. A costo di sembrare irriverente (ma non intendo esserlo), accosterei quasi l’apertura di Dodo con quella della quarta di Bruckner. Diversissime, per carità. Eppure fecondate da una medesima urgenza espressiva.

Di Abacab abbiamo già detto, ma per profondità di testo e musica siamo sul bruckneriano spinto. Niente poi è meno superficiale e nello stesso tempo niente è più saporito di Abacab. Confrontatelo con – chessò – un brano collinsoniano come Sussudio. Ecco lì c’è il divertimeno, l’intrattenimento, la situazione particolare, il tocco descrittivo. Qui c’è l’affondo sulle questioni radicali dell’esistenza. Lì siamo mozartiani, qui torniamo totalmente bruckneriani.

E su tutto spicca la straordinaria qualità del modo di suonare la batteria. Se ti abitui a sentire queste canzoni, poi c’è il rischio che tornando ad ascoltare altro, non ti senti più soddisfatto. Per ascoltare un suono di batteria soddisfacente in maniera simile devi metterti a sentire musica Jazz, non c’è verso.

Perché l’avventura prosegue, e non è mai la stessa, e non è mai circoscritta.
E’ l’avventura umana, dopotutto.

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