Grande concerto quello di ieri sera. Bello trovarsi davanti a dei maestri. Maestri nel modo di suonare, nel modo di far partecipare il pubblico, nell’intesa mirabile nel gruppo, nell’impasto sonoro, in tutto.
Tre ore di attesa ma li valgono tutti, se ci ripensi. Ma in realtà l’attesa è molto più lunga, parte almeno da un certo camioncino e tutta la suggestione che vi hai trovato all’interno… Capannelle si riempie pian piano, ma alle nove e mezza il parterre è ormai densamente riempito, e ovviamente tutte le tribune son piene.
L’attesa cresce, si fa fremente. Finalmente arriva Mark e la sua band, un breve saluto e attaccano subito con What is it. Bella, con una coda articolata diversamente rispetto al disco. Bella, ma ancora non hai capito. Non ti sei reso conto di dove sei. Pensi ad un onesto concerto, senza sbavature. Ottime canzoni e poi a casa. Invece, non ti sei ancora accorto che il bello deve ancora venire. Intanto arriva Corned Beef City. Però, ti viene da pensare. suonano bene, compatti, senza sbavature. La voce di Mark è quella che deve essere, perfetta per la sua musica. E che musica. Dice bene l’articolo sul Messaggero, Mark viaggia da tempo “sulla via di un rockblues & country che possiede un respiro profondo.” 

Tutte le foto del concerto sono di Claudia Castellani
Il fatto è che è un rockblues che pian piano ha accettato ed integrato la tradizione, mantenendo sempre una sua originalità. Ed è forse questo il segno della grande arte. Dire cose nuove con le radici ben piantate sulla solidità delle cose antiche. Ed è questo – azzardi a pensare – che molto pop/rock ha perduto. Tutto teso a cambiare, ad innovare, senza avere prima guadagnato la pazienza e la profondità di far proprio quello che è, quello che è stato. What it is, potremmo dire con Mark.
Cleaning my Gun alza ancora il livello, ormai si vola molto alto. Memore della stupenda esecuzione che compare tra le bonus tracks di Priveteering, ti emozioni già alle prime note. Stupenda, precisa, vissuta. Non sai dire se meglio di quella del disco, ma come minimo ci fa a gara.
Poi Privateering, Father and Son… La formazione suona benissimo insieme, è evidente che sono professionisti abituati da molto tempo a lavorare uniti. Ecco Hill Farmer’s Blues, la riconosci subito dal giro di chitarra iniziale, così caratteristico. I brani si susseguono e no, tu non ti stanchi, ti sembra sempre che il concerto sia appena iniziato. 
Mark presenta la sua band. Gente che suona con lui da decenni. E si vede. L’intesa tra loro è meravigliosa. Non c’è che un paragone, non riesci a non pensare ad una formazione jazz, per quanto tutto sia equilibrato, articolato, organico. Sono tutti bravissimi. Batteria, pianoforte, flauto, bassi… E guarda, Mark è favoloso con la chitarra. Potresti osare la parola, leggendario. Ti accorgi che c’è questo, è come se mancasse una vera separazione tra le sue dita e la chitarra, che non ci fosse nessun confine artificiale, tanto le corde rispondono con precisione e una granularità finissima allo spettro di sentimenti e sensazioni di questo straordinario artista.
Sul palco c’è pronta una sfilza di chitarre esagerata. Mark la cambia praticamente ad ogni pezzo. 
All’ennesimo cambio di chitarra Mark attacca uno degli arpeggi di chitarra forse più famosi dell’altro secolo. Inizia Romeo and Juliet. E tu ci cadi dentro con tutte le scarpe. Ma se solo ti guardassi intorno, vedresti come ci cadono dentro tutti, grandi e piccoli. Mark entra nelle tue emozioni e nei tuoi ricordi, gioca su uno spazio che ha creato con la sua arte e ora ripercorre con feconda inventiva e – sembra – con rinnovato piacere. C’è la piccola meraviglia di un approccio che rispetta l’intuizione originale arricchendola, e una voce che forse rende il pezzo ancora più bello. 
Mi diceva Claudia di gente rimasta delusa dagli ultimi concerti di Dylan, per  come ormai stravolge le canzoni. Mark no, grazie al cielo. Anche le canzoni più vecchie, anche con quelle sembra si diverta. Vengono fuori fresche, con uno spessore nuovo, forse ancora più belle. Ti accorgi mentre le ascolti che siete cresciuti insieme, tu e lui. E quella che ti dona adesso è proprio quella che vuoi ascoltare. E intanto che suona tu ritorni con la mente agli anni in cui la canzone era nell’aria, nelle radio, nei dischi degli amici. Quando era il presente. E tu eri forse diverso da adesso, forse uguale. Oppure eri lo stesso e sei solo cresciuto, hai acquisito degli altri strati, dell’altra vita ti è cresciuta addosso. Ma va bene, va bene così. E’ comunque un arricchimento, come le note di questa Romeo and Juliet sono un arricchimento rispetto a quella antica versione. 
Le canzoni scorrono e l’atmosfera è proprio magica. E ti lasci sorprendere di nuovo, anche se non sei giovanissimo, ti viene addosso ancora la sensazione di prendere parte ad un evento. Ed ogni evento è un punto di svolta, un segnale dal quale puoi ripartire. Quando vedi che la gioia fluisce vedi che la vita à di più dello spazio angusto in cui (anche con tutte le migliori intenzioni) ti sei andato a ficcare, in cui ti sei adagiato pian piano, senza nemmeno accorgertene. Cavoli. La vita è di più e devi uscire dal tuo angolino per viverla davvero. Non c’è esposizione ad una cosa bella, come questa, senza che cresca un desiderio di vivere, vivere sul serio.
Non c’è Sultan of Swing alla fine. Forse qualcuno rimane deluso: non tu. Perché Mark riprende quello stupendo album che è Get Lucky e ti regala il gioiello finale, Piper to the End. Sono le undici e mezzo e non c’è più il caldo e hai dimenticato la lunga attesa e tutto quanto, e veramente tutto il pubblico sembra muoversi e respirare con le note della chitarra di Mark, come dei fili invisibili legassero quelle sei corde alla miriade di persone ad ascoltarlo. Che detto tra noi, ti infila dei virtuosismi da lasciare senza fiato. 
Così tu e lui vi siete intersecati, finalmente, in questo punto dello spaziotempo. Roma Capannelle, 13 luglio 2013. E sei solo contento di essere qua. Di esserci stato. Perché capisci che la musica è una cosa dell’altro mondo. E di quanto può portare, in questo mondo, per renderlo più bello e rendere le persone più contente e per questo, migliori.

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