No. Non ce la faccio nemmeno io a non scrivere, a non scrivere sul blog. Non raccontare i fatti miei, in un certo senso. Perché così raccontando, mettendo i pensieri in fila secondo le regole ordinate del linguaggio scritto, anche le cose nella mia mente si mettono a posto, si ordinano. Anche se magari non riesco a metterle in relazione in maniera soddisfacente, averle fatte passare per la scrittura crea un filo rosso che segue paziente anche le curve più ardite, le deviazioni più ostiche. Smussa anche un po’ gli spigoli, diciamo la verità.

Per inciso, non riesco a trovare motivazione per scrivere più pregnante di questa.

Allora, domenica scorsa, prima che piovesse (e anche durante la pioggia, a dire il vero) sono andato a correre al parco sotto casa. Finalmente ho capito come funziona il cardiofrequenzimentro, sopratutto come si mette la fascia per rilevare le pulsazioni (non sulla panza come una cintura di pantalone – come mi hanno fatto capire – ma ben più alta sul petto) e debitamente accessoriato, sono sceso per l’avventura.
Debitamente accessoriato, stavo dicendo. Infatti. Ormai per me il fatto di correre è stato raggiunto e divorato dalla tecnica moderna, a scapito probabilmente della intrinseca semplicità del gesto (appunto, mettersi a correre). Ecco qui tutto l’apparato:  cardiofrequenzimentro con orologio/rilevatore al polso, poi iPhone ed auricolari per la musica e ovviamente per monitorare percorso e tempi con Endomondo
Eh no, non sono io. Non ancora, almeno …
Comunque, questo è. A volte penso che qualche anno fa era tutto più semplice. Non c’erano applicazioni da aggiornare, stati facebook da inviare, foto da scattare e mandare su Instagram. Non c’era il telefonino, ma un telefono per famiglia, a casa. Insomma non c’eran tante di queste cose. C’era semplicemente da vivere.

Per il resto (scansando discorsi complessi), il fatto di correre è come inserirsi in uno specifico microcosmo, qualcosa di apparentemente lineare e semplice che però – come ci si accorge presto – mappa efficacemente le posizioni e gli atteggiamenti che assumo durante le normali giornate. E – spero – mi può aiutare a correggermi, quando serve. E serve spesso.
Intanto, la motivazione. Correndo lo vedo subito, me ne accorgo istantaneamente. Il penso positivo agisce in maniera diretta ed immediata. Se cedo ad un treno di pensieri negativi, di sconforto, la spinta viene meno, la fatica aumenta. Ecco qua: rallento, non riesco a progredire. Se invece afferro un pensiero di speranza, lo tengo stretto, lo riguardo da varie angolazioni, lo faccio brillare, ne estraggo il succo, mi sento rientrare addosso l’energia, riprendo gusto all’allenamento. Sono anche più attento a quanto succede in me ed intorno a me. E poi magari va così, accarezzo l’idea di fare un po’ di strada in più, magari prendo una pausa camminando per poi fare un’altro tratto. Insomma ci prendo gusto, mi metto un po’ alla prova. Se però, di nuovo, un pensiero di irritazione o di insoddisfazione o una valutazione sconfortata di un problema mi prende, eccomi di nuovo al palo, ecco che perdo la voglia, la motivazione.
E’ vero. E’ verissimo. A parità di circostanze, i pensieri sono determinanti, decidono della qualità del mio allenamento. Decidono della qualità della mia vita. Se acchiappo un’idea interessante, un progetto, qualcosa su cui lavorare astraendomi dalla ruminazione dei miei crucci, riesco letteralmente a fare chilometri in più. Riesco ad affrontare meglio ogni situazione.
Insomma è inutile andare a correre tristi. Tanto dopo cento metri si rientra a casa.

Poi, per me l’altra cosa importante è guardare.Voglio dire, correre va bene, ma dove guardare? Avanti, onde evitare incidenti. Ovvio. Ma come guardare avanti? La cosa non è risolta. Eh no, perché c’è modo e modo. Vi dico subito la cosa migliore per me: guardare alto, in avanti, all’inizio. Per capire la scena, avere un quadro complessivo. 
Però poi no: poi, correndo, no.

Certo mantenere il controllo della zona, ma concentrarsi su quanto vedo vicino a me. Sì vicino. Se mi fisso sul punto di orizzonte mi sconforto perché – ancora – sembra che io non mi muova. Vince la lontananza, la sproporzione. Il senso di distanza. Chi sono io per avere l’ardire di mettermi a correre? Che progressi faccio? Vedi, sono ancora qui, vedi (con treno di pensieri sconfortanti a seguire).

Se però correndo mi concentro su quello che avviene intorno a me, se scendo nell’istante presente, allora tutto cambia. Vedo che i miei piedi si muovono, che nonostante tutto le zolle d’erba si avvicendano, il sentiero scorre sotto di me, il micropanorama cambia di continuo. Che sto andando avanti, sto facendo il lavoro. Questo mi consola, mi conforta.

Insomma, come al solito, sono davanti alla mia impazienza: se cerco di evadere dalla situazione presente, dal qui e ora, non c’è niente da fare, mi ammalo. Se mi calo nell’istante, invece, mi permetto di vedere che sono in cammino, che mi modifico. Che posso pian piano convertire il mio modo rigido di pensare, che non devo più tentare di schiacciarmi in un orizzonte ipotetico freddo ed uguale per tutti- Posso allentare la presa, posso concedermi di essere me stesso con il mio specifico modo di correre, di affrontare le cose… posso guarire.

Perché nessuno è come me. Nessuno. Quando mi rilasso su questo punto, sto meglio. Capisco un po’ meglio cosa ci sto a fare qui. Mi permetto, mi dò il permesso, di non essere già come vorrei essere, mi permetto di avere paure, insicurezze, sensi di colpa. Paradossalmente, accettando tutto questo, accettandomi come sono adesso, sto subito meglio. E corro più sereno. E vivo più sereno.
Mi colpisce ogni volta che sento questo, mi accorgo che riscopro qualcosa che la saggezza delle filosofie e delle religioni conosce bene da millenni. E che il cristianesimo dice molto bene (se noi lo vogliamo ascoltare). Così fatemelo dire in termini scopertamente  cristiani, senza giri di parole, senza traduzioni nel linguaggio psicologico (pure se ha una portata psicologica poderosa):  accettando la croce si arriva alla gioia – quella profonda, la gioia profonda e tranquilla, la più bella e interessante.

Non cercando di scansarla. Accettandola, la croce.

Questo mi dice anche tutta la mia esperienza maturata fino ad ora. Non che io non sia testardo e normalmente agisca in maniera diversa, tentando di evitare ogni fatica, ogni difficoltà. Soprattutto, sognando circostanze magiche che mi permettano di evitare di lavorare su me stesso.

Quindi?

Questo posso fare. Adesso. Ora. Accettare la mia croce.

E’ una lotta, mi viene per nulla facile.

Quello che però posso dire, è che tutte le volte che mi sono piegato, ho domato la mia rigidità, ho accettato la croce, non ho mai – dico mai – avuto a pentirmene.

E sì, ho anche corso molto meglio… 

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