C’è il fatto che non ho scelto di avere un cane. Siamo d’accordo. Mi è stato consegnato a casa, dalla figlia maggiore. Questo è un fatto, appunto. Come è un pure fatto che – all’inevitabile momento in cui io e mia moglie abbiamo ceduto al nuovo ospite – io abbia specificato tutta la serie di condizioni (di prammatica) che il mio copione mi indicava, ovvero il mio fermo rifiuto di ogni corresponsabilità nella gestione del quattrozampe, sia essa di tipo veterinario sia e sopratutto di tipo passeggiativo (se così si può dire).
Come è nell’ordine delle natura, vi sono dei grandi proclami fatalmente destinati ad essere disattesi, nel tempo. Alle volte, in nemmeno molto tempo.
Questo, se non si era ancora capito, ne è proprio l’esempio perfetto.
Le accoppiate cane-padrone possono essere della più grande varietà. Solo formandone una tu stesso inizi ad accorgertene… ma ti avviso: ti serve un cane, per questo
Così nel volgere dei mesi – non troppi – mi sono ritrovato a fare lunghe passeggiate nel parco, in compagnia di Poncho (il cane). E ho scoperto una cosa. Ho scoperto – o meglio riscoperto – che vi sono sempre più sorprese nella realtà che nelle proprie proiezioni mentali. Che osservare è meglio che ragionare, spesso. Ad esempio io avevo bene in mente che, essendo in sei in casa, non avendo il giardino, e avendo balconi di grandezza così indecente da non poter essere considerati tali da nessuna persona con un po’ di senno, il cane non ci poteva stare. Proprio no.
Quello che non avevo in mente erano gli sviluppi. Era che avrei perfino trovato (non mi senta mia figlia) dei vantaggi nell’avere il cane. Ed hanno molto a che fare con il parco. E con gli strati di realtà.
Ora mi spiego (in arrivo tirata filosofico-esistenzialista). Per me la realtà è qualcosa di complesso e multiforme, di troppo complesso e multiforme: con una serie di livelli e di strati che possiamo cogliere solo parzialmente. Che cogliamo se abbiamo una chiave, un pretesto, un punto di ingresso, un codice.
Anche un quattrozampe può essere un codice. Un punto di ingresso, un portale.
Così ho scoperto un mondo che non conoscevo, o non ricordavo. Un mondo che non mi sarebbe stato accessibile, altrimenti.
Del resto, anche il parco è più di un semplice luogo. E’ un multiverso (parola molto di moda, ma permettetemi di usarla).
E’ un posto dove se ci vai col cane accedi ad uno specifico strato. Lo strato abitato da quelli come te. Che altrimenti non avresti notato, e che ora invece intercetti. Ora – tu con il cane, appunto – hai la giusta sezione d’urto. Ora sei entrato nel portale.
Così vedi cose che altrimenti non avresti potuto vedere (magari potevi tecnicamente, ma tanto non avresti posto attenzione). Ti accorgi – adesso – di quello che accade nella tua fettina di realtà, in quella dove sei appena entrato.
Intanto, ti accorgi degli altri cani. E dei loro padroni.
Dopo un po’ che percorri il parco con il cane, la tua mappa di sensazioni e attenzioni è mutata. Mentre cammini sondi l’ambiente per capire se e dove sono altri cani, a che distanza, se sono legati oppure liberi.
Progetti il percorso in funzione delle mutue distanze.
Di solito io cerco un percorso che renda massima la distanza dagli altri cani. Tanto per non avere problemi. Ma dipende anche dal padrone del cane, dal grado di piacevolezza racchiuso nell’ipotesi di avviare una conversazione: le giovani donne si possono anche intercettare, ad esempio (non vi sto a spiegare perché, ma come potrete capire, sono motivi squisitamente filosofici).
Se il cane in vista è uno solo è facilissimo. Se sono diversi, la soluzione può essere complessa o anche impossibile.
Ovvero si può dover violare la DiMiNoI. La Distanza Minima di Non Interferenza è una nozione introdotta da me stesso (esattamente, in questo post), e si può definire come la distanza minima sotto la quale il cane A (il tuo) e il cane B (presente nel parco) smettono di agire come elementi isolati e reagiscono in funzione uno dell’altro. La valutazione esatta della DiMiNoI dipende da una serie complessa ed articolata di fattori biologici e geografici, tra cui posso citare – in modo certo non esaustivo – tipo di cane e sesso del medesimo, condizioni meteorologiche e segnatamente del vento, momento del giorno, stato emotivo e ricettivo del quadrupede, condizioni del terreno, presenza di rumori estranei, etc…
Nel complesso, però, l’attività di portare il cane è essenzialmente meditativa. Perché per molto tempo siete voi due insieme (e lui non parla molto). Sei lì nel parco e col il fatto di portare il cane hai il permesso di essere lì, ne hai una giustificazione di fronte a te stesso e agli altri. Il cane va portato, non c’è verso. E quindi ti ritrovi di colpo con uno spazio per camminare, pensare, osservare. Uno spazio tutto per te.
Così inizi anche a capire che aver finora rinunciato a questo spazio tutto per te, questo spazio meditativo, nell’illusione di fare più cose, non è stato affatto un guadagno, ma una perdita.
Capisci che – qui o altrove, con il cane o senza – questo spazio ci vuole. Se l’abbiamo perso, bisogna riprendercelo, difenderlo, proteggerlo.
Qualcosa da fare per stare meglio noi. Dunque essenzialmente altruistica, perché va direttamente a beneficio di tutti quelli che ci stanno intorno.
Incluso il cane, ovviamente.
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