Blog di Marco Castellani

Categoria: Universo

Vivere in periferia

E’ interessante comprendere come ogni epoca abbia dei propri paradigmi. Come vi siano degli schemi di percepire le cose, schemi che vengono spesso rinforzati dall’indagine del mondo reale: quell’indagine che si ritiene oggettiva, restituisce una visione del mondo organica e coerente con quella già raggiunta dal pensiero umano. Del resto, il mondo è di una intrinseca complessità e non linearità tale, da farsi capace di risuonare su una molteplicità di livelli, eccitare diverse serie di autovalori. In ultima analisi, di intonare la stessa risposta sulla peculiare modulazione della domanda.

Così, se abbiamo vissuto per lunghi secoli convinti di essere al centro dell’universo — convinzione peraltro rinforzata dall’indagine scientifica, per come poteva essere perseguita al tempo — ormai da tempo ci siamo spostati su un livello diverso di percezione, più matura ed articolata.

Dal centro alla periferia, potremmo dire, con movimento inarrestabile. E’ quella periferia che immediatamente non può che farci pensare — anche a prescindere dal fatto di essere, o sentirsi, più o meno cattolici — a tanti discorsi di papa Francesco. Quello che in questa sede più ci interessa è notare come questa nozione (o meglio questa percezione) informi di sé vasti campi del sapere umano, in uno scenario che appare condensarsi ordinatamente intorno ad un senso compiuto e coerente.

Basterà qui appena esplorare sommariamente quello che più riguarda l’astronomia, lasciando ad altri una esplorazione in altri campi del sapere, sicuramente molto produttiva. Peraltro, qui giochiamo facile, è subito evidente: tutti gli ultimi secoli possono essere facilmente letti esattamente come un progressivo e ostinato dislocamento dal centro verso la periferia.

Vivere al bordo di qualcosa, consente spesso di osservarla meglio...

Vivere al bordo di qualcosa, consente spesso di osservarla meglio…

Uno spostamento, esattamente. Perché per la percezione umana di questo si è trattato: di un ingente, immenso spostamento del nostro punto d’essere dentro l’universo. Uno spostamento totalizzante, epocale. Di cui ancora molto deve avvenire, nella nostra mente. E’ difficile ancora, molto difficile, in certe situazioni non esclamare, non pensare, non agire come se questo ci informasse totalmente, come se questa cosa già superata dalla scienza, ancora pervadesse interamente la nostra percezione interna: “io sono il centro”.

Dobbiamo ammettere che non di rado ci troviamo ad inseguire i nostri stessi risultati, anche scientifici. Non sarà fuori luogo richiamare appena la meccanica quantistica, o anche la relatività generale. Schemi concettuali ormai verificati e consolidati, che però ancora faticano ad entrare nella percezione comune: il nostro schema del mondo è ancora e per larga parte puramente e rigidamente cartesiano, bloccato in schemi fin troppo meccanici di causa-effetto.

Ma come accade sovente, il mondo stesso ci aiuta e ci prepara in questo spostamento, probabilmente troppo grande per le categorie umane. Ecco che la scienza stessa ci viene in aiuto, mostrando tra l’altro la sua decisiva importanza per la crescita e la maturazione umana. Per ciò stesso, importanza tutt’altro che limitata all’uso della tecnica, ma di portata culturale decisiva.

Ma torniamo al nostro ambito più prettamente astronomico, com’è giusto.

Cosa è accaduto in astronomia negli ultimi secoli? Semplificando enormemente, possiamo dire  questo, che la Terra si è mossa. E di parecchio, anche: è stata progressivamente spostata, da centro del tutto a pianeta orbitante attorno ad una stella (la rivoluzione copernicana, come sappiamo: e proprio di rivoluzione si tratta, perché è il primo passo concreto verso una costruzione di un modello di universo radicalmente altro). Guardate tuttavia come l’operazione di dislocamento, così salutare per la nostra percezione (e così fastidiosa per il nostro ego), non si fermi affatto qui. Assolutamente. Spostare la Terra da centro del tutto a pianeta orbitante intorno ad una stella, è stato solo il passo iniziale.

Dove si trova infatti il Sole? Al centro di qualcosa? In altri termini, possiamo appena sperare di “ricentrarci” su scala un po’ più estesa? No, questo non ci è possibile: sappiamo infatti ormai bene che il Sole si trova alla periferia esterna di una grande, smisurata Galassia (detta anche Via Lattea). Non siamo affatto al centro geometrico nemmeno del nostro sistema stellare, ne abitiamo anzi ben lontani.

Questo ragionamento potrebbe continuare, a scale più estese. Ed è anzi interessante osservare come questo di fatto continui, come se la moderna indagine sull’universo allargasse e propagasse questo paradigma del decentramento ad ogni scala che possiamo ancora esplorare. Tanto per non dimenticare il messaggio, questo viene reso invariante di scala.

Anche su scala galattica, infatti, siamo portati a decentrarci, a dimorare nella periferia. La nostra Via Lattea, come ben sappiamo, fa parte del Gruppo Locale (nome che dovrebbe pur dirvi qualcosa, visto che siete lettori di questo sito…), ove è sicuramente una grande galassia ma non certo l’unica. E non è al centro, nemmeno di questo.

A sua volta poi il Gruppo Locale si trova ai margini dell’ammasso di galassie della Vergine, un aggregato di galassie che al suo interno ne conta più di mille, a sua volta parte del Superammasso Locale, un insieme che raduna al suo interno diverse centinaia di gruppi di galassie.

E fino a pochi anni fa, ci saremmo fermati a questo livello, intimamente convinti che più di ciò non si potrebbe salire. Sono le evidenze più recenti che ci hanno fatto fare un altro salto nelle ampiezza cosmiche, in questo gioco inesausto di scatole cinesi: il Superammasso Locale, come sappiamo oggi, ci appare oggi come un lobo di una struttura cosmica ancora più estesa, un insieme di circa centomila grandi galassie che si estendono per una larghezza spropositata, pari a circa 400 milioni di anni luce.

Stiamo parlando di Laniakea (dalla lingua hawainana, incommensurabile paradiso), il superammasso di galassie in cui è compresa anche la Via Lattea: la struttura più grande di cui si abbia percezione al momento attuale. Interessante, nel particolare contesto che stiamo esplorando, l’indicazione del fatto che anche in questa struttura — guarda caso — il nostro Gruppo Locale risulti situato in una posizione del tutto periferica, ben lontano dal centro geometrico o gravitazionale di questo immenso sistema.

La scienza ci dice dunque che siamo decentrati, ad ogni livello possibile di indagine. Ci si può fermare certo alla mera ragistrazione del fatto, certo. Oppure si può leggere questo reiterata evidenza in molti modi, se lo si vuole. Se si cerca una intelligibilità profonda del reale, si può arrivare infatti a comprendere come niente appaia avvenire “per mera casualità”. A questo punto, la stessa ricerca scientifica può leggersi con profitto anche come una educazione permanente a sempre nuovi paradigmi, progressivamente più articolati e complessi dei precedenti.

Abbiamo appena visto – anche se per sommi capi –  come la nozione di “abitare la periferia”, si venga a comporre in uno scenario consistente ed omogeneo, dall’ambito teologico a quello astronomico (per non parlare delle evidenze che si potrebbero raccogliere altrove). Possiamo pensare che sia un caso, e abbandonare questa opportunità di lavorare una sintesi di pensiero, oppure possiamo scegliere di andare oltre. Ovviamente, procedendo non più con il metodo scientifico, ma rischiandosi in una visione più globale che metta insieme i dati fin qui raccolti.

Vorrei appunto tentare, notando appena come abitare la periferia implichi inevitabilmente il coraggio di decentrarsi, implichi cioè l’atto di massima umiltà consistente nel togliersi dal centro del mondo: e questa umiltà, praticata quotidianamente, può magari diventare un nuovo respiro, che regala poi molto di più di quanto sembra che abbia abbandonato.

E’ un paradigma che attende ancora compiutamente di essere esplorato, ad ogni livello conoscitivo ed esistenziale. Ci vuole tempo, e questo non deve scandalizzare: è troppo nuova la cosa, troppo nuova se non semplicemente declamata ma totalmente assorbita e fatta propria.

Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione, cantava acutamente Gaber. Pensiamo allora al tempo che ci è voluto per “digerire” l’idea di non essere al centro di tutto, pensiamo a quante volte agiamo e pensiamo come se non l’avessimo digerita affatto.

Quanto ci vorrà allora per svestirci davvero dell’idea di dover essere “dominanti” o “in posizione centrale” per capire che dalla periferia possiamo fare tanto, e godere (tutto sommato) della vista (e a volte della vita) migliore? Non so, se ci spostiamo un attimo dal centro del mondo, forse ci togliamo dalle spalle  anche un po’ il peso di doverlo reggere. Vediamo con piacere che il mondo può cavarsela bene da solo, che anzi ci è dato, ci è donato. Possiamo perfino prendere in considerazione l’ipotesi di rilassarci un pochino, nel merito. E ragionare sulla portata di questo spostamento. Cosa metteremo allora al centro vivo di tutto? Attorno a che cosa tutto ruoterà, nelle nostre vite e nella vita dell’Universo, se non siamo più noi stessi nel centro? E quanto tempo ci vorrà, per avvertirlo non più solo nel pensiero concettuale, ma nella nostra carne viva?

Tanto tempo, probabilmente tanto tempo. Eppure, chi scrive ha la forte sensazione che tutto il tempo che ci vuole, sarà comunque un tempo prezioso, un tempo ben speso.

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Onde gravitazionali, segno di una cosa grande

“Anche i segnali così deboli possono portare il segno di una cosa grande. ” E questa cosa grande è proprio il dialogo con un tu, con la natura, un dialogo che si riallaccia e si incentiva, con rinnovata fiducia. E’ il punto di partenza dell’astrofisico Marco Bersanelli nell’introdurre il bell’incontro sulle onde gravitazionali, che si è tenuto in occasione del sedicesimo Meeting di Rimini, da poco concluso, che quest’anno aveva a tema la frase “Tu sei un bene per me“. 

E mi viene da pensare a questo tu, che in questo caso può essere l’universo stesso, che ci invia segnali debolissimi ma preziosi. Preziosi, tali che per noi è un bene, è indiscutibilmente un bene, riuscirli finalmente a rilevare, ad interpretare, a comprendere.

A capire quello che ci stanno dicendo, ad intendere dove ci vogliono portare.

L’abbiamo detto, l’abbiamo capito. La rilevazione delle onde gravitazionali avvenuta nel febbraio di quest’anno è un evento scientifico di enorme portata. Sia perché ci conferma nella sostanza la robustezza del nostro modello di evoluzione del mondo e dell’universo (a grandi linee, la relatività generale) sia perché apre davvero – come ben dice lo stesso titolo dell’intervento di Rimini – una nuova finestra sul cosmo, una inedita modalità di investigazione del mondo. Nasce oggi l’astrofisica gravitazionale: nasce ora, e promette di condurci ad una comprensione del tutto senz’altro più profonda ed articolata. Come dire, da adesso abbiamo nuovi occhi per vedere, nuovi strumenti per sondare un campo prima totalmente inaccessibile.

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Sono loro, segnali debolissimi che arrivano dalle regioni a noi più distanti, parlando un linguaggio nuovo…

L’universo infatti ci parla anche attraverso queste elusive onde, generate dal movimento della materia, dalle pieghe stesse dello spazio tempo. Ci parla un nuovo linguaggio, e noi possiamo iniziare a comprenderlo.

Dove ci porterà il discorso, il dialogo, è ancora presto per dirlo. Come ogni dialogo, non può essere frettolosametne anticipato. Va vissuto nella sua interessa, perché sia occasione di crescita, nella comprensione di sé e del mondo.

E’ certo, infatti, che una scoperta così decisiva non possiamo confinarla esclusivamente nell’ambito della conoscenza scientifica intesa nel senso più tecnico e ristretto, ma è – coma sempre avviene – una acquisizione che ci spinge probabilmente a maturare un nuovo modo di vivere il cosmo, a tutto campo.

Di tutto questo c’è traccia nell’incontro di Rimini, che ha riunito personalità scientifiche indiscusse: oltre Marco Bersanelli, Roberto Battiston, Presidente A.S.I. (Agenzia Spaziale Italiana) e Laura Cadonati, Professore Associato presso la Scuola di Fisica del Georgian Institute of Technology, USA.

Vi dico, ho avuto il privilegio e la fortuna di poter assistere di persona all’incontro, e l’ho trovato veramente di grande interesse. Sopra ogni cosa, per l’atteggiamento di apertura e disponibilità che ha mosso gli scienziati sul palco, che si sono adoperati in modo amichevole ed intelligente per spiegare ad un pubblico di non specialisti tanto il nucleo essenziale della scoperta, quanto il motivo per cui questa viene considerata così importante.

Mi piacciono le cose oneste, soprattutto in ambito di comunicazione della scienza. E a Rimini mi sono potuto rallegrare, perché è stata condotta una operazione onesta di divulgazione ampia e coraggiosa, senza traccia di banalizzazione (un pericolo sempre presente, ma qui abilmente scongiurato).

Ascoltatelo, se ne avete la possibilità. Sono scienziati di frontiera, che parlano di una scoperta decisiva per la scienza e del loro diretto coinvolgimento, anche emotivo, in quello che è accaduto. Ne vale la pena: perché a volte non c’è niente di più interessante che ascoltare un diretto testimone di un dato evento, ascoltarlo e comprendere dalle sue stesse parole la risonanza tra ciò che indaga e ciò che ama, ciò che desidera, ciò che spera, per sé e per gli altri.

Da un incontro così si esce arricchiti, sia di scienza che di umanità. Che poi, alla fine, come sappiamo, sono esattamente la stessa cosa.

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Terre gemelle, pensieri nuovi…

Non è una notizia da poco, non è una notizia “come tante”. Sono stati autorevolmente confermati i rumors che giravano già da un po’ di tempo per Internet: sì, è stata scoperta una “Terra gemella”, un pianeta roccioso che orbita attorno ad una stella, con caratteristiche simili a quelle della nostra Terra.

Direi che è una di quelle notizie che contribuiscono a dare dei salutari scossoni al nostro modo di pensare l’Universo stesso. Dopo quella delle onde gravitazionali, che ci ha dimostrato (perdonate la drastica semplificazione) come lo spazio tempo sia una struttura morbida esattamente come lo descriveva la Teoria della relatività generale, disponibile a farsi piegare dal proprio contenuto. Come diceva Einstein un secolo fa, certo, ma come ancora non lo recepiva il nostro cervello, una roba strutturalmente cartesiana quando si parli della sua percezione del mondo, cartesiana fino nei suoi più reconditi interstizi.

Un pianeta simile al nostro, così vicino?

Un pianeta simile al nostro, così vicino? E quanto simile? E che dire della vita? E come cambia il pensiero sul cosmo?

Provate a negarlo: per noi il mondo è una roba a tre dimensioni (altezza, larghezza, profondità), dove scorre un tempo che segue e marca il succedersi degli eventi. Un tempo che è radicalmente altra cosa rispetto allo spazio. Ebbene,  nulla di più falso. Dimostrato dalla scienza: niente di più falso. Quello che esiste è una struttura quadridimensionale in cui tempo e spazio sono intrecciati. Vai a capirlo, davvero.

D’altronde, non c’è nulla fa fare: ci vuole (ancora) tempo. Anche per noi, anche per star dietro alle cose.

A pensarci, è ormai luogo comune dire che non stiamo dietro alle conquiste della tecnica, ed è una verità lapalissiana: facci caso, non appena hai finalmente compreso come funziona il tuo smartphone, un po’ al di là della superficie, delle cose minimali, ecco che non si sa come, è diventato improvvisamente vecchio ed è diventato improvvisamente necessario sostituirlo.

E’ invece più difficilmente percepito di come anche la scienza fisica (e soprattutto astrofisica) ci stia forzando a cambiare mentalità, ad adottare un nuovo modo di pensare. Ad abbandonare i vecchi schemi, che non interpretano più il reale, non lo interpretano più in maniera soddisfacente. Ad adottare schemi più elastici, più morbidi, meno “bianco o nero”, più ricchi di sfumature, meno intrappolati nel “vero o falso”, meno rigidi nella limitazione logica del principio di non contraddizione (che è falso, anzi è vero).

La luce è onda. Anzi, è particella. Anzi dipende. Sarà che bisogna iniziare a pensare in modo diverso? Altrimenti rimaniamo presi in queste apparenti contraddizioni…

Ecco dunque che la rivelazione delle onde gravitazionali, da un lato, e la scoperta di un pianeta simile alla Terra che orbita attorno alla stella a noi più vicina, rivoluzionano il nostro pensare “stanco” e statico all’Universo, e lo rivoluzionano da una prospettiva ampia, che abbraccia idealmente le zone più recondite e lontane e quelle a noi più prossime.

Più prossime, sì. Perché la cosa straordinaria è questa, in fondo: che il pianeta così simile al nostro, si sia trovato – tra tutti i posti dove si poteva trovare – nel posto più vicino possibile. Dietro casa, praticamente. In altri termini: tanto vicino che più vicino non si può. Davvero.

Di Proxima b, così vicina e così simile a noi, ce ne dovremo occupare per un bel pezzo. Così come delle onde gravitazionali, che davvero hanno aperto una nuova finestra sul cosmo.

E’ ben presto per dire se c’è vita, sul pianeta. I dati che abbiamo sono pochi e l’indagine è appena cominciata. Rimane di prezioso questo senso di eccitazione, rimane di prezioso – già da ora-  questa consapevolezza del fatto che l’Universo continua a regalarci nuove sorprese. Che la cosa più falsa che possiamo pensare, è che sia tutto conosciuto, tutto già detto, già pensato.

O tutto troppo difficile per essere capito. No, l’Universo si indaga e si può spiegare. Ed è giusto che in questa avventura, in queste nuove scoperte, siano esse pallide increspature dello spazio-tempo o siano invece segnali indiretti ma preziosi della presenza di un pianeta che fa un po’ il verso alla Terra, si partecipi tutti.

Si possa partecipare, tutti.

Noi cerchiamo nel nostro piccolo, di farvi venire a bordo, di aprire la cupola – non solo dell’osservatorio ma anche e soprattutto della nostra testa, spesso così stranamente blindata – per mostrare che sopra di noi c’è questo, c’è uno spettacolo continuo, mirabolante. E che non serve biglietto, per assistere. Ma appena un po’ di curiosità, e di voglia di stupirsi ancora.

Perché lo stupore per la meraviglia del cosmo, c’entra anche in questi tempi così faticosi, così segnati da eventi tragici. Perché ha qualcosa a che vedere con la bellezza, e la bellezza è tanto più necessaria, lo sappiamo, quanto più i tempi sono difficili.

 

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Metti un astrofisico a Trevi

No, non è affatto immediato realizzare sempre e comunque di essere un astrofisico. Ci sono situazioni e momenti privilegiati, dove ti accorgi che la parola ha un suo determinato effetto. Se vogliamo magari dirlo in maniera scherzosa, dove comprendi che te la puoi vendere bene.
Così è accaduto nella scorsa settimana, e quello che è accaduto mi ha versato nel cuore una buona dose di stupore e — ultimamente — anche di gratitudine.
Tovagliolino di un pranzo a Trevi, scherzosamente istoriato da Andrea Bellaroto
Perché gratitudine? Perché da questa posizione privilegiata — certo a volte scomoda ma indubbiamente privilegiata (i.e., quella di un astrofisico cui la scienza va un po’ stretta se non si ibrida e non si confronta continuamente ed accanitamente con le altre branche del sapere umano)— capisco che si riesce a vedere bene, si riesce a vedere molto.
E non sto parlando appena della posizione o della luminosità delle stelle.
Intendo, dell’animo umano nonché dell’umanissimo desiderio di conoscere e di sapere. E leggere l’uomo attraverso le stelle (calmi, niente a che vedere con l’astrologia) ho scoperto nel tempo che rappresenta una modalità particolare, una posizione probabilmente anomala ma veramente privilegiata, per arrivare esattamente lì, al cuore dell’umano. Il centro vero e pulsante dell’Universo, se vogliamo.
E’ come se, in un certo senso, si dovesse andare lontanissimo, spingersi in alto fino a domandarsi cose anche un po’ scomode, come cos’è tutto quello che c’è intorno a noi, qual è la natura dello scenario in cui siamo immersi. E arrivando così in alto, ecco, si compie un giro, si connettono gli universi, si attraversano di schianto — per qualche ancora sconosciuta legge di natura — misteriosi ed elusivi buchi neri, per sbucare infine dalla parte più interna di tutte, nel centro esatto del cuore dell’uomo.
Perché il cuore dell’uomo sia così legato alle stelle, così in connessione con le stelle, questo non lo so. Ma lo vedo, lo avverto: è così. E più vado avanti, più capisco che è esattamente così. E che forse è il vero ed unico motivo per cui uno come me — con una forte passione per la letteratura e lo scrivere— abbia intrapreso questa carriera di studi così “scientifica”.
Sì, anche nel mio cuore per certi versi si chiude un cerchio. I conti cominciano a tornare — ed iniziano curiosamente a tornare proprio quando mi apro ad altri saperi oltre la matematica, oltre il regno delle scienze esatte.
Così ho attraversato i miei giorni di permanenza ad una settimana di seminari ed incontri decisamente interessante tenutosi a Trevi, L’insurrezione della nuova umanità (sull’incontro e sulle mie impressioni esterne al focus di questo pezzo potete leggerne sul sito Darsi Pace).
Ed ecco, quella frase buttata lì quasi per caso all’atto della mia presentazione, io sono un astrofisico, sì è presto rivelata un formidabile generatore di incontri, colloqui, conversazioni. Un catalizzatore indomito e potente di aperture, spunti, approfondimenti, domande, confronti. Fatti della pasta più preziosa che si può trovare in circolazione, fatti di vera umanità.
Vi avverto: sull’essere astrofisico in mezzo a tanta umanità in ricerca, potrei riempire un libro. Da chi mi raccontava dello stupore dei “suoi” soldati in Afghanistan davanti al cielo stellato, a chi mi domandava dei destini ultimi del cosmo, a chi voleva sapere cosa la scienza ci dice dei multiversi e delle proiezioni olografiche con le quali secondo alcuni modelli matematici si immagina l’universo, a discussioni su quel che dicono persone come la Giuliana Conforto, a tante tante altre ricche occasioni di dialogo.
Alla fine mi sono convinto che sì, c’è bisogno di più astrofisici in giro. Tanto che mi verrebbe da dire, conviene disperderne qualcuno un po’ in ogni ambiente (va bene anche uno per chilometro quadro, come prima stima).

C’è una grande fame di senso, di significato, avvertibile ormai a tutti i livelli.

Questo è abbastanza evidente per quasi tutti (ed è il motivo fondante, tra l’altro, di iniziative come quella di Trevi). Ma il fatto bello e forse non ampiamente meditato, è che questa domanda del chi siamo si incontra e si ibrida quasi inevitabilmente con la domanda del dove siamo. Dove siamo a vasta scala — ovvero cosa è tutto quello che esiste intorno a me.
E non per gioco, o per passatempo intellettuale: perché mi serve per capire cosa c’è dentro di me.

Non c’è niente da fare: devo (anche) capire dove sono per capire profondamente chi sono.

In fin dei conti è stato sempre così, fin dai tempi più antichi. Le stelle — lo sappiano o meno— hanno sempre avuto a che vedere con noi, con il nostro stesso destino. E se oggi giustamente rigettiamo l’astrologia come tentativo credibile di connessione tra l’infinitamente grande e il nostro piccolo, ci tocca comunque di fare il salto, di inventare ed abitare un nuovo modo di collegarci agli astri.
Voglio dire: se finalmente all’astrologia non ci crediamo più, al di là della curiosità o del folklore (e senza dimenticare comunque che per molto tempo è stata intimamente legata all’astronomia stessa, in maniera difficilmente rescindibile), forse vuol dire che da adesso in poi l’astronomia stessa si deve far parte di quella carica di umanità che comunque è parte vitale del nostro vivere e della nostra connessione con il cosmo.
L’astronomia, l’astrofisica si prestano assai bene a fare da cornice ad un nuovo modo di concepire la scienza nel suo insieme, ad una AltraScienza dove tutte le discipline possano non più contrapporsi ma accomodarsi l’una vicino all’altra, in modo dialogico e non conflittuale (quel modo che è stato il perno vivo dell’esperimento di Trevi).
L’astronomia, che scopre sempre di più di abitare un universo misteriosamente relazionale e compartecipe in qualche misura di quel che accade al suo interno, può e deve iniziare ora la paziente tessitura di un quadro nuovo della struttura del cosmo. Nel quale l’uomo, finalmente, può riprendere il posto che gli spetta: quel punto privilegiato in cui l’universo stesso si ricomprende e si abbraccia, in una misteriosa profondissima connessione con tutto.

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Ciò che le stelle possono ancora dirci

di Luca Cimichella

«Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo innanzi a me e le associo immediatamente con la coscienza della mia esistenza.»

Da quando Kant così magnificamente concluse la sua Critica della ragion pratica, da «L’amor che move il sole e l’altre stelle» di Dante, o dai commoventi dialoghi leopardiani col cielo notturno, moltissime più cose di quanto questi maestri avrebbero mai creduto sono cambiate nella conoscenza del cielo, e tuttavia le loro parole continuano a risonare in noi con quella specie di vibrazione di bellezza, che per noi ha subito anche il sapore di una qualche “celata” verità…

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Dopo materia ed energia oscura, dopo le teorie sui multiversi, sui tunnel spazio-temporali, dopo la mappatura dell’universo osservabile e la scoperta che per noi visibile è appena il 5% del cosmo reale; cosa può ancora dirci, a noi umani, quel medesimo cosmo che da millenni stregoni, veggenti, sacerdoti, astronomi e artisti interrogano in cerca del divino? … Quali risposte, e soprattutto con quali domande, a quali scopi è ancora degno di essere interrogato, questo universo? –

Il poeta recanatese parla con un cielo bellissimo, misterioso, ma anche terribilmente indifferente al dolore umano: un cosmo lontano, un’immensità che sovrasta e rimpiccolisce l’uomo, lo manifesta per quella povera piccola formica che è, smontandogli all’istante ogni “superba fola”.

Ma non solo poetica è la disperazione, spesso cieca, con cui l’uomo vive – soprattutto oggi – questa consapevolezza di vuoto, questo smarrimento, questa vertigine in cui tutto il Novecento nuota e precipita, e urla (Munch) e si uccide dopo che lo spazio innanzi a lui si contorce (Van Gogh).

A partire dal crollo definitivo della millenaria concezione geocentrica dell’universo, assistiamo parallelamente ad un isolarsi e rimpicciolirsi incessante del nostro pianeta, così come ad un’atomizzazione progressiva dell’uomo nella società: una ricerca di libertà interpretata spesso come individualismo, privatizzazione, frammentazione in tanti in-dividui in naturale competizione tra loro, per sopravvivenza e prevalenza sugli altri. Non possiamo nasconderci infatti che il modo in cui l’uomo pensa se stesso e i suoi rapporti sociali è, anche involontariamente, molto influenzato dalla concezione che abbiamo del cosmo, cioè del contesto spaziale e temporale in cui abita il nostro pianeta. Il pianeta è una configurazione più alta e complessa dello stesso Io umano, che si rapporta con il suo contesto in base a come lo percepisce.

Dunque in gran parte l’uomo occidentale ha vissuto sino ad ora questo decentramento dell’io e del pianeta come una privazione, una diminuzione di importanza, un indebolimento. Paradossalmente, proprio il renderci sempre più conto dell’infinità inconcepibile del nostro universo ha comportato una perdita di speranza nell’infinito stesso, e un nostro sprofondamento rassegnato nella finitezza.

Oggi non possiamo più ignorare le domande esistenziali che inevitabilmente ci si pongono in un cosmo in espansione accelerata, con spazi vuoti di diversi milioni di anni luce che vanificano qualsiasi aggregazione di massa, e ci consegnano ad un destino quasi certo di eterno gelo, buchi neri e vuoto cosmico (Big Freeze). Come può l’uomo sopportare di sentirsi una tale nullità, cioè ancor meno di quanto aveva tragicamente cantato Leopardi? … Un ammasso momentaneo di atomi destinati a tornare nella massa cosmica, a sua volta destinata a questo eterno vuoto di ghiaccio, cancellatore totale di qualsiasi bellezza, di qualsiasi senso e umanità (come disse lo scienziato Russell). –

E cosa accadrebbe, al contrario, se capissimo un giorno che possiamo – se vogliamo – cambiare la nostra percezione di questa conoscenza, sperimentare in modo totalmente diverso l’universo e quindi i rapporti umani e sociali? Cosa accadrebbe se capovolgessimo radicalmente il nostro modo di vivere questa stessa condizione? Dopo la “morte di Dio”, quale legge suprema ci vieta ancora di mutare in un nuovo senso, in una nuova direzione la nostra coscienza, il nostro stesso Io e il modo nostro di stare nel cosmo? …È proprio questo che il grandissimo Kant tentava di dirci con la memorabile chiusa della sua opera, pur non raggiungendo ancora la radicalità con la quale noi ora siamo chiamati a riscoprire il significato profondo delle sue intuizioni. Come possiamo imparare a percepire in modo inedito il rapporto tra cielo e terra? Come possiamo cioè, nietzschianamente, sentirci parte dell’infinito che abbiamo scoperto senza farcene travolgere? …

Forse è arrivato il momento per l’umanità di rinunciare alla sola ricerca negli infiniti spazi del cosmo; forse è il tempo per l’uomo di portare a compimento quel lungo e ben più grave viaggio nell’anima, già iniziato negli ultimi secoli, così da cambiare la lente stessa dei nostri telescopi, cioè la mente dell’uomo: quella stessa mente attraverso cui filtra qualsiasi fenomeno del mondo esterno, dalla mollica alla galassia. Nel profondo, l’immortale messaggio kantiano è quello di cambiare la nostra mente, per cambiare il mondo fuori di noi, specchio del modo in cui abitiamo dentro di noi.

Ormai la fisica quantistica, cioè la scienza del microcosmo, se unita alle più avanzate ricerche della psicologia e delle neuroscienze, può seriamente aprirci la strada a un nuovo mondo, molto più grande di quello scoperto da Colombo: un modo veramente nuovo di abitare l’infinità dell’universo!

Sento che il nostro futuro più auspicabile sia il reale comprendere che tutto l’infinito che l’uomo ha sempre cercato sta nella potenzialità autentica di tutte le cose: infinita è cioè la potenzialità delle cose che chiamiamo “finite”, e l’unico vero problema sta nel trarre questo infinito da ciò che abbiamo di finito. Come sfondare il con-fine, il limite, le barriere che demarcano e de-finiscono tutto ciò che siamo e viviamo? … Non è forse la cultura frammentata in tanti specialismi giunta all’esaurimento più totale? Non è forse l’uomo individuato e scisso dall’altro e dal mondo arrivato a una condizione di nevrosi e patimento insostenibile, nelle nostre metropoli sterminate, soffocato da scarichi e fretta, alienato dalle macchine e dal mercato? … Se l’uomo capisse davvero che la trasformazione del mondo presuppone quella di se stessi, cioè del soggetto agente; ogni oppressione, ogni gabbia sarebbe subito infranta, e la nostra vera potenza riscoperta, e la bellezza con essa, insieme a speranza e vittoria. Ma purtroppo la condizione umana è notoriamente testarda, e ogni evoluzione pare raggiunta solo a carissimo prezzo di dolore e autolesionismo, tanto che nulla nel futuro sembra così facile e immediato. La difficilissima missione sta proprio nel trovare oggi un nuovo grandissimo senso in quel vastissimo cielo che conosciamo e che abita anche in noi, proprio come un tempo vi trovavamo gli dei.

L’immortale teatro tragico ancora ci sa illuminare, giacché mostrava a tutta l’umanità, seduta nella cavea, che sotto il cielo infinito è possibile mettere in scena il dramma terribile dell’esistenza umana e tuttavia restare integri, sperimentare il divino e la nobiltà apparentemente infranta. I misteri iniziatici, di cui è frutto lo stesso teatro antico, ci insegnano che la bellezza e l’infinità del cosmo sono anche la bellezza e l’infinità dell’uomo (…).

Basta con la presunzione di sapienza!

Guardiamo finalmente coi nostri nuovi occhi il mistero che siamo, riflesso nelle galassie innumerabili, in questo ordine caotico dell’universo, unito al volto dell’uomo sino ai suoi ultimi giorni di vita sul pianeta!

Articolo apparso originariamente sul sito del movimento Darsi Pace; ripubblicato qui (con piccoli interventi e aggiunta di link) con il consenso dellì’Autore.

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Osservate per la prima volta le onde gravitazionali con LIGO

A_long_time_agodi Umberto Genovese e Sabrina Masiero

… c’era una coppia di buchi neri, uno di circa 36 volte la massa del Sole mentre l’altro era un po’ più piccolo, di sole 29 masse solari. Questi due pesantissimi oggetti, attratti l’uno dall’altro in una mortale danza a spirale hanno finito per fondersi insieme, come una coppia di ballerini sul ghiaccio che si abbraccia in un vorticoso balletto. Il risultato però è un po’ diverso: qui ne è uscito un oggetto un po’ più piccolo della semplice somma algebrica delle masse: 62 masse solari soltanto.

Il resto è energia dispersa, non molta per la verità date le masse in gioco, pressappoco come quanta energia potrebbe emettere il Sole nell’arco di tutta la sua esistenza. Solo che questa è stata rilasciata in un singolo istante come “onde gravitazionali“.

Ma cos’è un’onda gravitazionale?

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La visione dello spazio che da sempre conosciamo è composta da tre uniche dimensioni, larghezza, altezza e profondità; x, y e z, se preferite. Il tempo, un fenomeno comunque misterioso, fino agli inizi del XX secolo era considerato a sé. Una visione – poi confermata dagli esperimenti di ogni tipo – fornitaci dalla Relatività Generale è che il tempo è in realtà una  dimensione anch’essa del tessuto dello spazio; una quarta dimensione. insieme alle altre tre [1].

Fino alla Relatività Generale di Einstein si era convinti che una medesima forza, la gravità, fosse responsabile sia della caduta della celebre mela apocrifa di Newton, che quella di costringere la Luna nella sua orbita attorno alla Terra e i pianeti nelle loro orbite attorno al Sole. Nella nuova interpretazione relativistica questa forza è invece vista come una manifestazione della deformazione di  uno spazio a quattro dimensioni, lo spazio-tempo, causata dalla massa degli oggetti. Così quando la mela cade, nella Meccanica Classica (essa è comunque ancora valida, cambia solo l’interpretazione dei fenomeni) la gravità esercitata dalla Terra attrae la mela verso di essa mentre allo stesso modo – e praticamente impercettibile – la Terra si muove verso la mela, nella Meccanica Relativistica è la mela che cade verso il centro di massa del pianeta esattamente come una bilia che rotola lungo un pendio e la Terra cade verso il centro di massa della mela nella stessa misura prevista dai calcoli newtoniani.

La conseguenza più diretta di questa nuova visione dello spazio-tempo unificato, è che esso è, per usare una metafora comune alla nostra esperienza, elastico; ossia si può deformare, stirare e comprimere. E un qualsiasi oggetto dotato di massa, se accelerato, può increspare lo spazio-tempo. Una piccola difficoltà: queste increspature dello spazio-tempo, o onde gravitazionali, sono molto piccole e deboli – la gravità è di gran lunga la più debole tra le forze fondamentali della natura –  tant’è che finora la sensibilità strumentale era troppo bassa per rivelarle.

Se volessimo cercare un’analogia con l’esperienza comune, potremmo immaginare lo spazio quadrimensionale come la superficie di un laghetto a due dimensioni, mentre la quarta dimensione, il tempo, è dato dall’altezza in cui si muovono le increspature dell’acqua. Qualora buttassimo un sassolino l’altezza della increspatura sarebbe piccola, ma man mano se scagliassimo pietre con maggior forza e sempre più grosse, le creste sarebbero sempre più alte. Però vedremmo anche che a distanze sempre più crescenti dall’impatto, queste onde scemerebbero di altezza e di energia, disperse dall’inerzia delle molecole d’acqua [2]; alcune potrebbero perdersi nel giro di pochi centimetri dall’evento che le ha  provocate, altre qualche metro e così via. Alcune, poche,  potrebbero giungere alla riva ed essere viste come una variazione di ampiezza nell’altezza del livello dell’acqua del laghetto e sarebbero quelle generate dagli eventi più potenti che avevamo prodotto in precedenza. Queste nello spazio quadrimensionale sono le onde gravitazionali e esse, siccome non coinvolgono mezzi dotati di una massa propria per trasmettersi come ad esempio il suono che è solo un movimento meccanico di onde trasmesse attraverso un mezzo materiale,  possono muoversi alla velocità più alta consentita dalla fisica relativistica c, detta anche velocità della luce nel vuoto.

Il grande protagonista: LIGO

E’ stato LIGO-Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory (in italiano, Osservatorio Interferometro laser per onde gravitazionali) il protagonista di questa straordinaria scoperta: uno strumento formato da due strumenti gemelli, uno a Livingston (Louisiana) e l’altro a Hanford (Washington), a 3000 chilometri di distanza dal primo.

Sono due gli interferometri, perché i dati possono venir confrontati e confermati: se entrambi gli strumenti rilevano lo stesso disturbo, allora è improbabile che sia legato ad un terremoto oppure a dei rumori di attività umana. Il primo segnale che conferma l’esistenza delle onde gravitazionali è stato rilevato dallo strumento americano Ligo il 14 settembre 2015 alle 10, 50 minuti 45 secondi (ora italiana), all’interno di una finestra di appena 10 millisecondi.

David Reitze del progetto LIGO ha annunciato al mondo la scoperta delle onde gravitazionali: “We have detected gravitational waves. We did it!”. Crediti: LIGO

Ed eccole qui, in questo diagramma: l’onda azzurra, captata da LIGO di Livingston e l’onda arancio, captata da LIGO di Hanford. Sono sovrapponibili, il che ci dice che sono la stessa onda captata dai due strumenti gemelli. E’ la firma della fusione dei due buchi neri supermassicci con la conseguente produzione di onde gravitazionali. In altre parole, questa è la firma del nuovo buco nero che si è formato dai due precedenti e, come è accennato anche più sopra, le tre masse solari che mancano dalla somma delle due masse che si sono fuse assieme dando vita al nuovo buco nero di 62 masse solari si sono convertite in onde gravitazionali.

Volete udire il suono di un’onda gravitazionale? Sì, certo che è possibile…. E’ straordinario pensare che queste onde rappresentano la fusione di due buchi neri in uno nuovo e proviene da distanze incredibilmente grandi, in un’epoca altrettanto remota: un miliardo e mezzo di anni  fa.

Le prove indirette

Il decadimento orbitale delle due stelle di neutroni PSR J0737-3039 (qui evidenziato dalle croci rosse) corrisponde esattamente con la previsione matematica sulla produzione di onde gravitazionali.

Il decadimento orbitale delle due stelle di neutroni PSR J0737-3039 (qui evidenziato dalle croci rosse) corrisponde esattamente con la previsione matematica sulla produzione di onde gravitazionali.

La prima prova indiretta dell’esistenza delle onde gravitazionali si ebbe però nel 1974. In quell’estate, usando il radio telescopio di Arecibo, Portorico, Russel Hulse e Joseph Taylor scoprirono una pulsar che generava un segnale periodico di 59 ms, denominata PSR 1913+16. In realtà, la periodicità non era stabile e il sistema manifestava cambiamenti [3] dell’ordine di 80 microsecondi al giorno, a volte dell’ordine di 8 microsecondi in 5 minuti.

Questi cambiamenti furono interpretati come dovuti al moto orbitale della pulsar [4] attorno ad una stella compagna, come previsto dalla Teoria della Relatività Generale. Di conseguenza, due pulsar, in rotazione reciproca una attorno all’altra, emettono onde gravitazionali, in perfetta linea con la Relatività Generale. Per questi calcoli e considerazioni, Hulse e Taylor ricevettero nel 1993 il Premio Nobel per la fisica.

La presenza di una qualsivoglia stella compagna introduce delle variazioni periodiche facilmente rivelabili nel segnale pulsato della stella che i radioastronomi sono in grado di misurare con precisione inferiore ai 100 microsecondi. Giusto per farsi un’idea, immaginiamo di prendere il Sole e di farlo diventare una pulsar. Dal suo segnale pulsato, gli astronomi sarebbero in grado di rilevare la presenza di tutti i pianeti che orbitano attorno a questo Sole-pulsar, grazie al fatto che ogni pianeta causa uno spostamento del centro di massa del Sole di un certo valore espresso in microsecondi. La Terra per esempio, che si muove lungo la sua orbita ellittica, produce uno spostamento del centro di massa del Sole di ben 1500 microsecondi! [5]


Per saperne di più:

La prima pulsar doppia” articolo di Andrea Possenti dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Cagliari, pubblicato sul numero di Le Stelle, marzo 2004.

La notizia, pubblicata sul Physical Review Letters, porta i nomi di B. P. Abbott e della collaborazione scientifica di LIGO e VIRGO

Note 

[1]  In realtà le cose sono un attimino più complicate, la quarta dimensione si può percorrere solo in una sola direzione (freccia del tempo) rispetto alle altre tre. Mentre nella Meccanica Quantistica è perfettamente lecito che una particella possa muoversi a ritroso nel tempo (Principio di Invarianza t.

[2] Anche qui occorre sottolineare che la posizione reciproca delle molecole non cambia al passaggio di un’onda, esse si muovono tutte assieme; per provare basta immergere due galleggianti e vedere come essi si comportano al passaggio di un’onda.

[3] [1. In un 1 microsecondo (µs) la luce percorre esattamente 299,792458 metri nel vuoto (questo numero è usato per la definizione del metro).

[4] Una pulsar è una stella dotata di campo magnetico estremamente elevato, circa 2 x 1011 volte il campo magnetico della Terra, una stella formata di neutroni con un raggio di 10-20 chilometri e una massa dell’ordine delle 1,4 masse solari (un po’ come pensare di prendere il nostro Sole e comprimerlo fino a farlo diventare di 20 chilometri di diametro). Il suo asse di rotazione non coincide con l’asse del campo magnetico, e le particelle relativistiche cariche presenti nella magnetosfera emettono radiazione elettromagnetica di sincrotrone focalizzata in uno stretto cono lungo i poli magnetici. Questo segnale elettromagnetico, proveniente da grande distanza e modulato dalla radiazione della stella, viene ricevuto a Terra sotto forma di impulsi elettromagnetici che hanno una ben precisa periodicità. Il sistema si comporta come un gigantesco e compatto volano. Alcune pulsar emettono con una regolarità ben definita da essere utilizzate come orologio di riferimento.

[5] Una lettura interessante su questa prima scoperta la potete trovare sul sito dell’INAF-IAFS di Milano.

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L’amore ai tempi del Big Bang…

Certo è un interrogativo che ricorre spesso. Cosa c’era prima. Cosa c’era prima che ci fosse tutto. Ed è curioso come la scienza abbia permeato l’immaginario collettivo in maniera significativa, ormai. Tanto che non ci chiediamo cosa c’era prima che ci fosse l’universo ma cosa c’era prima del Big Bang. Così quello che è un modello scientifico, capisco che ha acquistato una popolarità enorme e inusuale. Di tanti altri modelli scientifici, pensateci, non sappiamo proprio un bel niente. E nemmeno ci interessano, più di tanto.

Ma questo sì. Il Big Bang  è appena un modello cosmologico, ma si presta benissimo ad essere ospitato nelle menti di sapienti e di meno sapienti, come intelaiatura fondamentale, schema essenziale di risposta alla domanda che non può che essere di tutti, sempre: come è nato quello che esiste, quello che vedo? Ben altra difficoltà riscontrano modelli differenti, come per esempio la dualità onda-particella, oppure il concetto di particelle indistinguibili. 

Ma sì. Perché per la loro intima complessità, sfuggono alla nostra mente. Mentre il Big Bang – quel grande scoppio  – si presta invece ad una rappresentazione mentale in maniera piuttosto diretta. E noi abbiamo bisogno di una struttura di risposta, di comprensibilità – scientifica o mitica – di come l’universo sia nato. L’uomo non può esimersi dal guardare il cosmo e lavorare come ad estendere su tutto una architettura di senso, non può non affacciarsi sul mistero con una ipotesi di lavoro di intelligibilità totale. 

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Photo Credit: laboratorio_recreativo via Compfight cc

In fondo la scienza è solo questo: un lavoro lento e progressivo di decrittazione del codice sorgente con il quale lavora il cosmo, come un pazientissimo reverse engineering di tutto quanto abbiamo intorno. Dai fenomeni, arrivare alla radice. Alle leggi unificanti. Alla profonda comprensione di come le cose funzionano. 

Come funzionano, appunto. Il perché funzionino così, non è compito della scienza dirlo.

Ma il Big Bang è preciso, dichiarativo, assertivo. E’ una teoria scientifica. Un modello. Tutto l’universo si comporta come se fosse partito da un punto. E uno potrebbe dire – ma prima? La ragione umana non si ferma, deve spaziare. 

Non ci sono domande troppo grandi, per la curiosità dell’uomo.

Cambiamo scena. Interno domestico. Sera. Luci calde, finestre illuminate. Fuori, il freddo sereno dell’autunno che inizia a stagliare i contorni delle cose, a rimarcare una più netta differenza dentro/fuori, tale per cui stare al riparo torna ad essere dolce, desiderabile. Anche lo scienziato che si occupa del Big Bang, anche l’uomo della strada (brutta dizione, ma rende l’idea), torna a casa e magari pensa con piacere ai volti cari da rivedere. In fondo, nonostante tutti i possibili problemi, tutti i tragici episodi di cronaca, c’è questo. Che – fino a prova contraria – ci si mette ad abitare insieme, si mette su casa, per amore. 

Così che l’amore viene spesso visto come un sentimento umano importante (anche socialmente), bello, bellissimo, ma ultimamente fragile. Che può l’amore, anche l’amore caldo che si respira magari in una casa, contro il freddo sconfinato del cosmo? Così magari  – azzardo – non ci accorgiamo di essere vittime delle nostre stesse proiezioni. Il cosmo può certo apparire certo freddo, ma anche un luogo mirabile, teatro di incredibili meraviglie. Dipende da come si guarda, ovvio. Dipende con quale cuore si guarda.

Però, questo è il mio punto, è come se l’amore non c’entrasse niente, in un certo senso. E qual è il problema, allora? Solo questo: che così, in fin dei conti, non siamo proprio contenti. E’ per questo che una ipotesi diversa, se ci può far più contenti, potrebbe anche essere presa in considerazione. Potrebbe insomma valere la pena esplorarla.

Mi viene da pensare alla recente frase di papa Francesco, pronunciata nella sessione plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze: “L’inizio del mondo non è opera del caos che deve a un altro la sua origine, ma deriva direttamente da un Principio supremo che crea per amore.”  

Ora quando uno nomina il papa, fuori da un contesto ecclesiale, si creano inevitabilmente degli schieramenti. Chi se ne va smettendo di leggere, chi esclama ecco la pensa come me! insomma si creano come delle fazioni. Non è questo il mio obiettivo, vorrei condurre un discorso che per quanto possibile unisca e non divida. Perché la portata di quanto dice il papa secondo me è veramente stratosferica, e ci unisce tutti. Come dice Marco Bersanelli, sono parole limpide e liberanti.

Un Principio supremo che crea per amore

Ditemi voi se non è la cosa più bellissima del mondo, che si possa pensare. Ma noi la disinneschiamo quasi sempre, portiamo il pensiero su tutte le nostre riserve, le nostre eccezioni: non c’è verso di nominare il papa senza che qualcuno se ne esca con frasi tipo ma la chiesa in tema di sessualità però… oppure ma nel  medioevo, la caccia alle streghe … e via di questo passo (mediamente a questo punto viene tirato dentro anche il povero Giordano Bruno) 

Non che tutte queste cose non vadano dibattute, per carità. Ma metterle qui ora, sapete che produce? Che ci si mette a parlare di altro, appunto. Che si rimane aggrappati a schemi difensivo-bellici dove ci si definisce innanzitutto per contrapposizione. E si perde la possibilità di valutare la portata di una frase di questo tipo

… che crea per amore.

Non sono necessarie precondizioni o appartenenze per fermarsi a pensare che – stiano le cose come stanno – è una ipotesi di lavoro bellissima, calda, confortante, capace di mettere speranza. Di riformulare la nostra idea del mondo, la nostra cosmologia personale. Vale la pena fermarcisi su. Ora non discutiamo della natura del Principio ma stiamo guardando appena gli effetti, se volete, il comportamento.

Che crea per amore.

Prendiamolo alla lettera. Così’, appena come esercizio mentale: non è senza conseguenze. Vi dico cosa appare a me. L’amore, viene rimesso al primo posto (addirittura prima del Big Bang). Non al termine di una catena infinita di contingenze meccaniche e fredde: l’universo viene creato, o comunque spunta fuori, si evolve, si fanno le stelle, i pianeti, le forme di vita, l’uomo… che poi si “inventa” anche l’amore (o lo gode, o lo subisce). No, affatto. In questo quadro, è come se l’ultimo termine venisse prelevato dalla catena e rimesso inaspettatamente al primo posto.

Il che – permettetemi – regala un gusto diverso a tutta la medesima catena. 

E non c’è bisogno di essere cattolici (o buddisti, o induisti) per considerare questa possibilità. Basta non essere dogmaticamente materialisti, per dire. Ammettere che esista qualcosa oltre ciò che possiamo toccare, o misurare. 

Ma per questo, basta rientrare a casa (o a volte, uscirne, andare a trovare qualcuno) in una di queste serate autunnali. 

Dove poi, alzati gli occhi al cielo, può capitare ancora di stupirsi perché ci accorgiamo che siamo tutti sotto un cielo  pieno di stelle… 

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