Lo sappiamo bene: siamo decisamente nell’epoca del ‘quantitativo’. Siamo quotidianamente sommersi da valanghe di dati: dati di ogni tipo, da analizzare, memorizzare sui dispositivi elettronici, condividere sui social network, correlare tra loro, e via di questi passo. Ogni cosa è rappresentata da numeri, da byte, o corriamo il rischio di pensare che non sia concreta. Potrà dunque stupire più di una persona scoprire che perfino oggi – nell’epoca dell’entusiasmo digitale –  esistono ancora campi e situazioni in cui le determinazioni effettuate “ad occhio” possono mantenere un certo grado non solo di utilità pratica, ma perfino di validità scientifica. Di più, vi sono situazioni in cui la determinazione visuale di una certa quantità (principalmente, la magnitudine stellare) risulta ancora il metodo più conveniente per condurre una data indagine.

E’ il tema di un interessante lavoro a firma di Wayne Osborn, dal titolo significativo Man Versus Machine: Eye Estimantes in the Age of Digital Imaging, apparso pochi giorni fa nel sito di preprint astro-ph.

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Il più antico strumento di misura delle magnitudine e del colore, senza dubbio…

La determinazione di parametri stellari in modo visuale ha avuto indubbiamente una grande parte nello sviluppo storico dell’astronomia, nessuno può negarlo. Il punto interessante è capire se c’è ancora spazio per le stime di questo genere oppure no. Diciamo subito che le sorprese, a questo proposito, non mancano. Intanto, circa il 20% delle osservazioni inviate da membri dell’American Association of Variable Star Observer (AAVSO) sono costituite ancor’oggi da stime visuali (l’avreste pensato?). Un altro campo dove tali stime sono ancora molto usate è quello di seguire le variazioni di luminosità su lastre fotografiche di archivio: il materiale storico accumulato è ingente, non sempre appare pratico digitalizzare il tutto.

Dunque, una cosa possiamo dirla: le stime di magnitudine “ad occhio” sono ancora una pratica comune. Il punto è, la tecnica è ancora valida?

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