Quanto si apprezza di più la musica quando si corre. Quando la fatica ti allenta un momento la maglia fitta dei pensieri, quel lavoro incessante della mente che di solito ti scherma dalla meraviglia, fa come una rete di protezione dietro la quale non vedi più, non ti riesci a meravigliare più. Qualche giorno fa sono andato a correre, macinando sentieri di montagna abruzzese con Light & Shade di Mike Oldfield nelle orecchie. Un doppio disco con cui ci ho spesso litigato. Diciamola tutta: inizialmente è stata proprio una delusione, temperata solo dalla mia inossidabile stima per questo straordinario musicista.

Insomma, hai questi ottantadue minuti… ascolti, un po’ impaziente, cerchi il succo, le parti decisive. E dopo un pochino ti chiedi, ok, quale è il punto? Dove è che si comincia a fare sul serio? Dove sta un vero climax? Dove mi porta questa musica? Il fatto che mi spiazzava era questo, che la musica non mi portava da nessuna parte. Volevo farmi condurre, ma rimanevo al palo. Allora mi annoiavo.

Ogni tanto lo risentivo. E rimanevo in questo stato di perplessità, gli davo un garbato credito, più per il nome del musicista che per l’impatto dell’opera su di me. 

Ricordo invero anche qualche occasione in cui mi è parso particolarmente significativo, direi nutriente. Erano occasioni d’ascolto in cui non davo mai piena attenzione alla musica: di solito stavo anche facendo altro. Così permettevo che le note, le sonorità mi scivolassero addosso, senza difese. E funzionava. Incredibilmente, funzionava.

Fino a che sono andato a correre. Lì sì, lì ha funzionato veramente bene. Correvo e osservavo la natura, e le note con i percorsi indefiniti, o candidamente ripetuti, non erano più un problema. Affatto. Era come una patina dorata che si appoggiava delicatamente sulle cose, specialmente sugli alberi, le piante, sul tramonto stesso. E la ripetizione non era monotonia, ma era funzionale all’avvicinamento graduale alla sostanza delle cose. Un avvicinamento delicato, uno svelarsi progressivo e rispettoso. Finalmente qualcuno che suggerisce, e non cerca di riempire a tutti i costi.

Infatti il vuoto si avverte, a volte (e non è una sensazione piacevole). Tutti corrono a cercare di riempirlo, ma c’è, capita di trovarlo, di sentirlo. Anche tanta musica cerca di riempirlo: troppa. Non questa, comunque. E la cosa va bene, perché l’armonia nascosta delle cose, non più contrastata, può venire alla luce. Quello che prima sembrava semplicità eccessiva nella mia corsa si tramuta in finissima delicatezza. Le impressioni possono allora rimanere aggrappate alla musica, alle sue maglie larghe.
C’è il vuoto, ti prende il cuore come un messaggio che va ascoltato:  coprirlo di forza non è una buona idea, non funziona. Cioè funziona, ma solo per poco. Poi tanto lui torna a galla. E invece lasciarlo venir su, esser disposti a soffrire e a farselo passare addosso, questo può essere una strategia migliore per superarlo, per continuare il cammino. Essere dolci con il vuoto, anche. Faticoso, certo. Vorremmo scappare, non vederlo. Non vedere dentro noi stessi, coprirlo. Far finta che non ci sia. Sarebbe più comodo, da un certo punto di vista. Ma non risolverebbe molto.

Anzi, non risolverebbe nulla. Rimarremmo sempre in superficie. Passeremmo la vita alla superficie delle cose: ben più tragico che sentire la morsa del vuoto, a pensarci.

Allora sei dentro, ci sei dentro. E devi camminare. Anzi, talvolta, anche correre. E allora corri, in questa situazione. Corri con le gambe e il tuo animo cammina. E camminando, anche lentamente, già respiri ed ogni cosa è più illuminata. Mi pare che alla fine conti questo, la disponibilità a camminare, più che tante altre cose e di tanti bei propositi.
E vedi appunto il tramonto e la vegetazione nella sera, e la musica aderisce così bene, così bene a tutto quanto, a tutta lo stupore per il tramonto del sole – un prodigio quotidiano a cui solo la mia abitudine e la mia  distrazione ha potuto rubare la perpetua meraviglia.
Arrivare a vedere tutto come un prodigio, risvegliarsi dall’abitudine, sarebbe straordinario. Se ci mettiamo all’opera, accettiamo di fare un lavoro su noi stessi, pian piano possiamo, sì. Possiamo recuperare questa dimensione della meraviglia, possiamo allargare una epifania sperimentata durante una corsa, portandola nella vita ordinaria. Dismettere la istintiva diffidenza verso il mondo, per aprire davvero gli occhi, e scoprire che niente è mai uguale, in fondo niente è già visto.

Ditemi se non è cosa che valga la fatica delle nostre giornate…

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