Esiste una forma di disordine che è benefica, che è pulsione vitale. C’è quel senso di apertura, di salutare provvisorietà di forme e di situazioni, che fa respirare. Quel margine quasi sacro di imprevedibilità che ti porta a pensare non è tutto qui, c’è altro. 
Come se ci si trovasse di fronte non ad un fenomeno composto ed in sé compiuto, ma ad un segnaposto per la realtà, segno di qualcosa che la attraversa in verticale, che la salva dalla terribile comprensibilità di essere senza sfumature (interamente comprensibile, e dunque, limitata). 
Altrettanto chiaramente esiste un ordine che è malato, deficitario, segno di mancanza. Quell’ordine che riduce il reale alla presentazione razionale ed anzi razionalistica degli enti (appunto) ordinati, che manca di quel guizzo di creatività e mistero per far intuire qualcosa ma non pienamente.
Certe figurazioni psichiche malate possiedono un ordine apparente superiore del disordine fisiologico dello stato più sano. Certi stati fisici di massimo ordine (come i cristalli) sono segno di qualcosa di fermo, di bloccato, di statico: di morto, in ultima analisi. Mentre il disordine, il caos, può essere tipico di sistemi in movimento, in evoluzione. Non lineari, ovvero di difficile prevedibilità. Non li inquadri con un pensiero pigro, non li incaselli facilmente in qualche tua categoria bella e pronta: ti sfuggono da tutte le parti. Ci vuole una grande quantità di informazione (potrei dire, di fatica, di attenzione) per descrivere un sistema di questo tipo, ce ne vuole pochissima per descrivere uno stato di massimo ordine.
A volte quando tutto è troppo al suo posto mi sento a disagio, mi viene una misteriosa stretta al cuore. E’ tutto a posto, va bene, però manca un punto di fuga, un margine di evasione, uno spazio per dire, per pensare, che questo possa essere appena il bordo, la rappresentazione di altro.
A volte un ordine è come per dire non c’è niente oltre questo mentre a volte è proprio per dire il contrario, per dire siccome c’è qualcosa di bello posso farlo riverberare anche con l’ordine. Che buffo.
Dunque un ordine è bello se funziona come apertura a qualcosa, se attraverso la bellezza richiama ad un ordine più profondo (abbastanza profondo che sfugga alla piena comprensione e catalogazione). E un disordine è bello se non è chiuso in se stesso, ma perfino nella sua provvisorietà, nella sua scomodità, rimanda ad una domanda, ad un grido.

Ha avuto una vita disordinata, si dice a volte. Forse il disordine è per questo, è un tentativo graffiante  -scomposto, se volete – di cercare un ordine nelle cose, rilevare un segno luminoso, stanare una pista. Cercare una strada di percorribilità al reale.

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