Lo dico subito: a me è piaciuto.
Certo è un film molto parlato. Un film dove la sceneggiatura è di importanza chiave, ed altrettanto la recitazione degli attore. E’ davvero un film teatrale, nel senso che sembra pensato espressamente per una rappresentazione in palcoscenico.
Ed è, a mio avviso, un film che svela la bellezza dell’imperfezione umana al di là di ogni possibile esitazione, di qualsiasi parvenza di residuo dubbio. Di questa bellezza dell’imperfezione voglio parlare qui, rinunciando a seguire tante altre considerazioni che pure si potrebbero utilmente condurre.
Perché gli amici che si radunano tutti insieme a cena, e per un bizzarro giochetto condividono i flussi informatici che passano attraverso i loro cellulari — elidendo temporaneamente ogni barriera conoscitiva — azzerando ogni password, alla fine questo mettono in comune: la loro umanità.

Umanità tenera, scabrosa, povera e sfolgorante insieme.
Così si palesano e si condividono tutti i trucchi, i piccoli intrighi, le traballanti e perfino risibili strategie di compensazione ad un vivere senza meraviglia (perché proprio non ci si rassegna ad un vivere senza meraviglia, non venite a dirmi il contrario).
Poiché non si tratta appena (o soltanto) di tradimenti o grandi decisioni, di epiche svolte di vita o saldi proponimenti, ma di tutte le piccole fughe dal viver quotidiano (che sono oggi rese possibili attraverso la Rete, ad esempio): dall’invio di foto osé per sfuggire al vuoto della sera, al gioco di seduzione a distanza, gioco che vibra continuamente su una molteplicità di stati tra il provocatorio, l’equivoco e la richiesta di contatto, di calore.
Ecco, in questo vedo la grandezza del film. Nel portare sotto i nostri occhi, tramite l’artificio narrativo della condivisione totale degli smartphone, che l’uomo — ogni uomo — è molto molto di più complesso ed irregolare e dolorosamente slabbrato rispetto ad ogni immagine idealizzata (e dunque ultimamente violenta) al quale vogliamo ridurlo (o vuole ridurre sé stesso).
Sì. L’uomo è irrequieto, incongruente, dolorosamente aperto, arrabbiato, lieto, triste, in ricerca, deluso, divertito, disperato, dolce. E questo viene fuori bene dal film, che in questo senso non fa sconti. E se la retorica fa capolino qua e là (come il personaggio gay trattato in chiave un po’ inutilmente buonista, a scapito forse di un maggiore realismo), non lo fa tanto — grazie al cielo — da intorbidire questa cifra stilistica.
Così che ritorniamo a pensare a questo, a cosa possiamo fare per un uomo così. Così perso tra ideali mancati, compensazioni quotidiane, equilibrismi sentimentali e morali. Cosa possiamo fare?

Cosa possiamo fare, se non amarlo?
Amarlo, sì. Perché è un uomo così che è amato, non l’uomo ideale. Un uomo carico di tutti questi difetti, è amato tantissimo.

Quando entriamo nel mistero di Dio di “questo amore senza limiti”, ha detto il papa , rimaniamo “meravigliati” e, forse, “preferiamo non capirlo”.

Nessuno dei personaggi esce da quella serata, da quella cena, pensando di diventare migliore (ecco un’altra cosa che mi piace, del film, il suo candido realismo). Ma noi che guardiamo, noi impariamo forse qualcosa. A sorridere appena, a stemperare la tristezza sempre aperta sulle nostre compensazioni, ad aprirci ad una diversa possibilità.
Di essere salvati (cioè di avere un senso di vita) dentro tutto questo: di essere, per dire, salvati dentro la nostra stessa incapacità di cambiare.
Esattamente. Cosa rimane dunque, di quest’uomo, se non amarlo?
Amarlo, perché un uomo così è amato. Un uomo come tutti noi.
Sì, io sono amato così, come sono. Questo è l’inizio e il compimento di ogni possibile rivoluzione del mondo e di me stesso, di ogni ipotizzabile dinamica trasformativa psicologica/politica.
Solo questo: capire, sentire, che sì, sono amato così.

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