Penso che un sogno così non ritorni mai più
Mi dipingevo le mani e la faccia di blu
Poi d’improvviso venivo dal vento rapito
E incominciavo a volare nel cielo infinito

Penso (per aprire con la stessa parola del testo) che in questa canzone del 1958, canzone famosissima che nessuno ignora, c’è già tutto. Non solo vinse il festival di Sanremo in quell’anno (sarei subito tentato ad un confronto con alcuni recenti vincitori, ma preferisco evitare, in questa sede), ma – mi dice Bard – che è stata tradotta in cento lingue e ha venduto nel complesso più di cento milioni di copie in tutto il mondo. Possiamo senz’altro dire, un pezzo di un certo successo.

La melodia, così mediterranea ed orecchiabile, ha fatto la fortuna della canzone. Ma ci sarebbe tanto, anche, dietro queste parole. Tanto, che colpisce in vari modi l’immaginazione di un astrofisico.

C’è innanzitutto un proiettarsi nel cielo infinito che è un anelito umano profondissimo. C’è questo sogno di mischiarsi profondamente con il cosmo, quasi richiamandolo con quel dipingersi di blu, premessa indispensabile al volo.

Intanto, il cielo è blu. Il motivo scientifico è nello scattering di Rayleigh (ce lo dice bene sempre Bard): sostanzialmente il motivo è che abbiamo un’atmosfera, che diffonde preferibilmente i colori corrispondenti alle frequenze più elevate. Dunque, il blu (alte frequenze) vince sul rosso (basse frequenze), nel complesso. Il nostro cielo è indubitabilmente blu, e dipingersi di blu allora è come chiamare ad una amicizia, tentare un rapporto, esplorare una corrispondenza. Mi vesto come tu ti vesti, per farti capire che voglio mettermi in relazione con te.

Quindi venire rapiti in cielo e vedere il mondo da lontano, è sperimentare una corrispondenza amorosa con il cosmo. Che però non ci fa allontanare dagli affetti tutti umani, anzi paradossalmente li rende più veri. Perché ecco dove il blu del cielo alla fine si va a tuffare, ecco a cosa prelude: agli occhi tuoi belli.

Ma tutti i sogni nell’alba svaniscon perché
Quando tramonta la luna li porta con sé
Ma io continuo a sognare negli occhi tuoi belli
Che sono blu come un cielo trapunto di stelle

Il sogno è breve, svanisce all’alba. Lo sappiamo, tutti i sogni svaniscono all’alba. Così per continuare a sognare ci vuole qualcosa di terrestre, ancorato a terra, di concreto. Di quotidiano, insomma. Il sogno continua negli occhi, che sono blu come un cielo trapunto di stelle, è bellissimo qui che giorno e notte si confondano, in un certo senso, così che il cielo trapunto di stelle è blu, non nero. Ma alla fine è così, la luce delle stelle sembra davvero che ci faccia il cielo più blu. Sembra quasi che porti il giorno dentro la notte, per farci vedere che la notte non esiste, in fondo. O meglio, che la notte esiste perché altre stelle, oltre il Sole, possano rifulgere e colpire la nostra immaginazione.

Io credo che la fortuna di questo brano – anche se magari immediatamente non si percepisce – è in questa proposta fortissima di armonia tra l’uomo ed il cosmo. Il tuffo nel blu che è quasi un sogno, cui segue poi il radicamento saldo nel blu degli occhi della donna, che è come un sogno realizzato, un sogno fatto solido. Che però dialoga con il cielo. Gli occhi dialogano con il cielo, ecco cos’è.

Il cielo di stelle contenuto negli occhi di chi ami. Tutto si ricomprende in una persona, nel dettaglio minimo di una persona. Il cielo infinito nell’infinito degli occhi. Perché gli occhi sono un infinito, comunque. Quindi è un cielo che ci rapisce e ci fa gustare la bellezza, ma poi ci riporta a terra. Invitandoci a trovarla qui, la bellezza. In una persona, specifica, con nome e cognome.

Però a pensarci bene, anche questo tuffo nel cielo non è mica un tuffo indistinto, una cosa che va bene per tutti, una roba generica. Un ideale tra i tanti, stiracchiato e dilavato così da renderlo buono per tutti (e inefficace per ognuno). No, non ci bastebbe certo, una cosa così. Non ci basterebbe più.

Infatti il testo dice, ad un certo punto una musica dolce suonava soltanto per me, dunque è una cosa irrimediabilmente personale. C’è questa musica che suona per me, ovvero c’è qualcosa che parla a me, soltanto a me. L’invito è personale, che in fondo è quello che ci aspettiamo davvero. Che qualcuno, qualcosa, inviti me personalmente ad un viaggio inatteso, una gioia imprevista. Che io – soltanto io – sia chiamato.

Io desidero essere desiderato, io desidero essere convocato. Nessun vogliamoci bene muove tanto le viscere ed il cuore come un ti voglio bene rivolto espressamente a te. Siamo fatti così, desideriamo essere chiamati di persona, non ci basta un invito generico. Pur in un tuffo nel cielo, vogliamo comunque essere riconosciuti, chiamati per nome.

Il tuffo poi è sempre personale, la decisione di dipingersi di blu (accordarci con il cielo) è personale, nessuno ti può convincere se non vuoi. Se hai paura che sia un imbroglio, una fregatura, puoi rimanere ancorato a terra anche tutta la vita. Coi piedi a terra / legato alla ragione / ti passa presto / la voglia di sognare! dice un’altra canzone (Edoardo Bennato, Ma che sarà).

E dunque. Giocarsi tutto sul fatto che non sia una fregatura, questo tuffo nel cielo? Che questa melodia che suona solo per te sia reale? Sia dunque una cosa possibile? Che ci possa essere un sogno che evade dai cancelli dell’alba (The Gates of Dawn, ricordando un antico disco dei Floyd, uscito quasi un decennio dopo il nostro brano), un filo rosso che unisce il cielo agli occhi (in gara, per il blu più blu che si possa) rendendo entrambi più veri e più decisivi, per la vita?

Forse, una scommessa ardita. Diciamolo pure: sicuramente, una scommessa ardita. Ma ormai, tutto visto e considerato,che alternativa abbiamo? Volare è necessario, non è un’opzione. Per le sonde che mandiamo in giro per lo spazio, lo sappiamo bene.

Per quanto ci riguarda, a volte ci dimentichiamo.

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