Così disperso in quello che manca, da non vedere quello che c’è. Perché sono puntato sulla mancanza, forse per una ferita antica. Sì, quella ferita. Che ancora mi chiede di tornare in aiuto al me stesso di allora, di stipulare una nuova inedita amicizia. Quella per cui veramente diventi possibile darsi pace, per guarire e fiorire in una nuova stagione della vita. Del cuore.
A volte la mancanza si fa così sentire che faccio fatica a respirare. Fermo la realtà come in un fotogramma sospeso, e sento acutamente quello che, appunto, non c’è. Sento la mancanza di un istante di compassione in grado di attraversare – come un’onda benefica – tutto me, di legare tutto insieme, nuovamente.

Photo Credit: vale ♡ via Compfight cc
Non c’è, a volte non c’è proprio altro.
Non c’è nulla che non sia la compassione, in grado di legare tutto insieme e di attraversare tutto. C’è un insieme di cose che – se non ammorbidite così – ben presto si innestano accanite in una lotta senza quartiere, una mutua ostilità che rischia proprio di far perdere la pace. 
Non riesco a pensare alla possibilità di pace senza la misericordia. Non mi viene possibile. E’ chiaro che essendo tutto pieno di una mancanza, a volte così mancanza che straborda nel suo mancare, non c’è in fondo altra possibilità per rilassare i muscoli, per trovare un piano dove appoggiare la mente.
Ci vuole proprio qualcosa, una struttura, un luogo al quale tornare, per confutare perennemente le storture di una errata percezione di me stesso, io sono così e non sono a posto… Una struttura, un luogo, dove viene sussurrato pacificamente tu sei così e vai benissimo. Credimi, ti prego. Tu sei così e mi piaci, mi piaci tanto.

Dice bene Eugenio Borgna, non a caso (dico io), professore emerito di psichiatria:

«A differenza della ragione fredda e astratta, il cuore imbattendosi nella realtà, ascoltandola, ci consente di coglierne il significato profondo fino però a percepire una mancanza struggente: la mancanza di infinito. E in questo ne sente tutta l’essenza dolorosa e straziata. Una mancanza che Leopardi, Pascal e lo stesso don Giussani hanno descritto come qualcosa di strutturale dell’uomo» 

Ecco qui. Io non sento proprio di aver bisogno di particolari prescrizioni o proibizioni, non cerco affannosamente riparo in una casistica morale strutturata e dettagliata. Al limite, la normativa mi lascia un po’ freddo, un po’ preoccupato per la mia perenne – quasi strutturale –  inadempienza. Sento invece di aver molto, molto bisogno di sentire questa voce rassicurante, dentro di me… tu sei così e accidenti, mi piaci, mi piaci tanto.

Se ascolto questo tu mi piaci (che a volte – per grazia celeste – si intravede come spuma brillante sotto l’ordito del reale) comincio a far pace con me stesso, almeno un po’. Poi forse l’ipotesi di cambiare, in qualche modo imprevisto, può innestarsi naturalmente perché uno da subito comincia a respirare in modo diverso, a guardarsi in modo diverso, a guardare le persone in modo diverso. Nel complesso, ha meno affanno di afferrare qualcosa da portare via dal freddo, perché il freddo ha fatto un passo indietro, o almeno mezzo passo indietro.

Si può timidamente iniziare a coltivare l’idea di una qualche forma di bellezza che affiora qui e là. Transitoria e momentanea, se volete, ma anche irresistibilmente affiorante. Visibile.

E’ anche – e soprattutto – una cosa di respiro. Magari si può iniziare a respirare un po’ meglio, magari si inizia a rilassare l’elastico tra quello che uno vorrebbe essere e quello che è, perché non è poi così decisivo il fatto che uno metta tutto a posto, subito. Se perfino come è, impresentabile come è, viene amato, ecco, uno comincia a dire ok, va bene, posso iniziare a rilassarmi. 

Certo un amore senza condizioni è un flusso benefico dove uno inizia a tranquillizzarsi, a distendere le gambe, a rilassare gli arti troppo spesso contratti, nell’inseguimento inutile di certi modelli di comportamento. Messo così in ordine, inizia un po’ anche a guardarsi intorno, a guardare davvero. Tanto la faccenda fondamentale è a posto, uno è amato. Così sente meno la mancanza, almeno, non la sente proprio sempre. E l’allarme rimane, certo: ma si smorza un po’. E appena si smorza si vedono un po’ meglio le cose, si sentono meglio. 
I sapori.
I colori.
Gli odori.
Il tocco di una persona.
Gli istanti mezzi accennati.
I giorni lustri del ricordo.
Un parlare sommesso
Qualcosa che va avanti ed è
sottilmente grandissimo e 
tu ne fai parte –
come per un dono
proprio per un dono – 
ne fai parte

Cambia il livello di gioco, è diversa la partita. La mancanza non devi più sforzarti di riempirla. Ma poi: non riusciresti mai, lascia stare. Quel che puoi fare è cedere, allentare le rigidità, renderti materia plasmabile, non fare opposizione. L’idea di mettersi a guisa di spettatore di sé stessi, vedere se viene ripianata – almeno ogni tanto – senza tuo sforzo è veramente intrigante.

Forse il senso di mancanza è lo stimolo più persuasivo a dismettere la pretesa sempre riaffiorante di angosciosa, irriflessiva autosufficienza. E finalmente lasciarsi fare, lasciarsi plasmare, lasciarsi amare.

Non per dire, ma mi consola parecchio capire che questo atto del cedere è qualcosa di sempre possibile, perché in fondo ha a che vedere con il nostro atteggiamento e non con la nostra capacità .

Qualcosa che potrebbe perfino, chessò, rimettere un po’ tutto in ballo.

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