Blog di Marco Castellani

Mese: Agosto 2019

Quel che fissavi

Esitavo abbastanza, a scriverlo. Eh sì, perché già lo capisco dall’inizio, questo post sarà terribilmente incompleto. In un modo, peraltro, quasi da vergognarsi. Difficile davvero estrarre il succo di questi tre giorni passati al Meeting di Rimini (da mercoledì a venerdì scorso,  per essere proprio precisi). Tre giorni scarsi per essere sottoposti, contaminati, da una ricchezza di incontri, cose, persone, dialoghi, immagini, suoni, che sembra scaturire da una misteriosa abbondanza, non direttamente misurabile.

Il titolo di quest’anno è stato Nacque il tuo nome da quel che fissavi, riecheggiando una poesia di Giovanni Paolo II. Ed effettivamente, qui di cose da guardare, ce n’erano tante. A volte anche in contemporanea, che non sapevi come orizzontarti. Perso, come appariva, in una felice ridondanza, correvi da una parte all’altra, tentando di intersecare le tempistiche, o almeno di slabbrarle solo moderatamente. Il lavoro della vita, insomma, qui condensato.
La sintesi migliore – essendoci stato – mi pare proprio quella di questo breve video, apparso da poco sul canale YouTube del meeting (e ci sarebbe da raspare tanto, nell’area dei video del meeting, perché quasi ogni cosa è stata ripresa, grazie al cielo).
E’ l’unico modo di vedere a volo d’uccello quello che serve di vedere, di respirare l’atmosfera, di rifare memoria, rapidamente, di quello che ti è capitato. Le cose belle sono ben più di quaranta, e ti scorrono intorno, che nemmeno te ne accorgi del tutto. Vedi un pochino di qualcosa, ma quel pochino è sufficiente. Perché in ogni parte c’è il tutto, lo sappiamo. Ed in ogni parte del meeting c’è questa che a mio avviso è la perla più preziosa, quella tensione di positività che alla fine non può non contagiarti. 
Magari all’inizio ne puoi essere perfino infastidito (ecco, a me capita), perché destabilizza, disarticola sottilmente ma provocatoriamente il tuo cinismo abituale, il tuo modo cinico e quasi rassegnato di rapportarti alla realtà. Quello che tu non ammetti, non confessi nemmeno a te stesso (come se non dirselo, equivalesse a sfuggirlo, a non viverlo). E tutto questo allora magari, inizialmente, dà fastidio. Magari riverbera in te quella posizione dell’Innominato manzoniano, che si stupisce della gente lieta che vede recarsi alla Messa (e anche lui dice ma che ci avranno da essere contenti poi…). Quell’eco manzoniana peraltro ripresa esplicitamente nel messaggio del Papa per l’apertura del meeting
Allora ti dici (tu, sedicente cristiano, notare bene), ti chiedi, quasi come un Manzoni minore, ma dove sta il trucco, cosa ci guadagnano questi qua? e pensi magari ai ragazzi del parcheggio, che non sono a gustarsi il meeting come te, ma sono lì a cuocersi al sole epperò nonostante la cottura indubbiamente avanzata, ti accolgono con insolita gentilezza quando arrivi in automobile, ti stanno a sentire, magari scherzano addirittura, se tu scherzi.

Niente, roba che già per me sarebbe impossibile. Cioè, io mi stupisco ancora prima di entrare.

Qual è il vostro trucco, ragazzi? Dài, ditemelo.

In effetti un trucco, dopo tre giorni che giri e giri, ancora non lo trovi. No, non dico affatto che sei piombato nel Paradiso in Terra, ci mancherebbe altro. Niente di tutto questo, nessuna sperticata idealizzazione. Ma nella media, ti trovi così, ti trovi davanti ad uomini contenti, anche nella fatica (che poi, a livello personale, lo sai bene: la contentezza nella fatica, è uno dei tuoi fallimenti più eclatanti, caro Marco). Beh ok, non sarò così, ma posso almeno guardare chi lo è. In fondo, proprio il guardare è a tema, in questo meeting. 
Allora ti lasci condurre, scruti il programma, inizi – appunto – le corse da un padiglione all’altro, per intessere la tua personale traiettoria dentro il meeting, e dipanarla momento per momento (tra un momento e l’altro c’è spazio per ristorarsi con una granita o qualche altro genere di conforto, e dopotutto siamo in vacanza).

La mostra su Etty Hillesum, quella la vuoi vedere assolutamente. Dalla lettura del Diario (leggetelo, in forma integrale, vi prego), sei totalmente innamorato di questa ragazzina, e della sua sconfinata apertura al Destino. E la mostra certo non ti delude. Scansata assai bene la tentazione di presentarne una versione addolcita per i benpensanti, per le persone di parrocchia, viene fuori Etty in tutta la sua rugosa lancinante dolcissima scabrosità inondata dalla Grazia. Viene fuori che Dio sceglie chi vuole, assolutamente chi vuole, come diceva Marina Corradi parlando di lei (e questa è la più pazzesca delle buone notizie, per ognuno di noi: Dio sceglie chi vuole, pescando anche tra i più cattivi).

Lei non era esattamente una santa, una madonnina infilzata. Lei che ha convissuto con tanti uomini, anche contemporaneamente, che ha abortito con una determinazione ferrea e che oggi spaventa anche i più convinti (e incoscienti) assertori della libertà totale di far tutto (“ti sbarrerò l’ingresso a questa vita e non dovrai lamentartene” annota nel diario, il sei dicembre del 1941), sempre lei che alla fine parte per il campo di sterminio, cantando… Lei – esattamente lei – è stata investita dalla percezione concreta della presenza del Mistero, tale da rivoltare completamente lo scenario di desolazione ed odio, scavandone fuori una luce così pura, che ancora ci confonde. Lei, che replica ad un “vecchio ed arrabbiato militante di classe“, che la accusa – assai scandalizzato – di delineare con il suo progetto di purificazione interiore, un ritorno al cristianesimo, “E io, divertita da tanto smarrimento, ho risposto con molta flemma : certo, cristianesimo – e perché no?”

Etty è un mistero pulsante ed uno scompaginamento salutare della nostra tentazione perenne di avvicinarci al divino a botte di sforzi di “bontà”, e non invece cedendo semplicemente alla Sua potenza.

La mostra che ti spiazza di più però, contrariamente alle tue previsioni, non è nemmeno questa. E’ Bolle, pionieri, e pionieri e la ragazza di Hong Kong. In un modo felicemente non lineare, dalla storia del popolo americano sei ricondotto alle tue personali domande. Come ci dice la curatrice della mostra, è una esperienza che diventa interamente personale, dove tu stesso, di fronte alla varietà e provocatorietà del materiale esposto, porti a galla le tue domande, le tue esigenze, la tua specifica fame di senso. Che bello, venire destrutturati almeno per un pochino, in modo che la curiosità autentica, seppellita sotto strati e strati di “già l’ho visto” possa ridestarsi, almeno un attimo, almeno per una microscopica debacle del pensiero ordinario. Leggo adesso che hanno detto, meglio di me, quanto sia straordinaria questa mostra. Posso solo seguire, assecondare. E’ proprio così.

Ma tu sei una persona che scrive, Marco. E quindi sei attratto da quelli che scrivono, appunto. L’incontro con Daniele Mencarelli, venuto a parlare del suo La casa degli sguardi (ma ci fate caso, come il titolo del libro riverbera il titolo del meeting?), è di quelli che inizi con una vaga curiosità, e poi ti affanni a trovare un qualche device su cui appuntare delle frasi, delle gemme di verità che senti utili per te, che non vuoi che vadano disperse.

E poi, ecco, poi ci sono le persone, ed è bello quando avviene il contatto tra persone, il contatto vero, vivo. Daniele aveva letto il mio post sul meeting esprimendo apprezzamento, così mi presento dicendo che sono quello del blog, e intanto che mi faccio firmare il libro, gli consegno Imparare a guarire. C’è molta gente, parliamo pochi istanti, ma sono sufficienti.

Beh ci sarebbe tanto da descrivere ancora, e naturalmente mi sono accorto – come da incipit – che sto trascurando colpevolmente alcuni bellissimi incontri. Ma tant’è. Almeno in questo, sono di parola, e lascio il post così terribilmente incompleto, come dicevo. Cerco un momento di sintesi, cerco un filo di significato.

Lo so, lo so. Si potrebbe dire tanto e tanto altro, in effetti. Avete ragione. Ma avviene anche questo al meeting, avviene un segnale di umanità di un cuore urgente, come si diceva esattamente un anno fa.

Avviene, ed è bello quando avviene.
Sempre bello. 

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Centodiciotto anni più tardi…

Oggi è così, ma non è sempre stato così. Oggi certo, siamo abituati a catturare immagini facilmente, di qualsiasi cosa. Abbiamo sempre con noi uno smartphone che dispone ormai di un apparato fotografico di soddisfacente qualità, in modo che non ci stupisce più il fatto di andare in giro catturando immagini di mondo, di quel mondo che i nostri nonni si accontentavano – quasi sempre – di vedere con gli occhi, e basta.

Tra l’altro, è ben noto che i telefoni cellulari – e le moderne macchine fotografiche – siano equipaggiate con quelle CCD (nome che sta per Charge Coupled Device, ovvero Dispositivo ad accoppiamento di carica) che sono state ideate e sviluppate proprio in ambito astronomico.

Tutto questo, lo sappiamo, è storia di oggi. Ed appunto, non è sempre stato così. E non parlo della preistoria tecnologica, tutt’altro. Quando il sottoscritto iniziava a muovere i primi suo passi nel mondo dell’astronomia, per dire, le immagini dal cielo venivano ordinariamente registrate su lastre fotografiche. Con tutti i problemi di linearità, saturazione, rumore, che ogni buon astrofilo potrebbe spiegarvi (e spiegarci, anzi).

E’ utile allora tornare un attimo indietro, fare storia, capire la strada fatta, ed anche le meraviglie che già si potevano realizzare tanti anni fa, attrezzati di entusiasmo e dedizione.

Eccone certamente una, di autentica meraviglia.

Crediti: George Ritchey, Yerkes Observatory – Digitization Project: W. Cerny, 
R. Kron, Y. Liang, J. Lin, M. Martinez, E. Medina, B. Moss, B. Ogonor, M. Ransom, J. Sanchez (Univ. of Chicago)

E’ una fotografia della Nebulosa di Orione, realizzata appunto sopra una lastra fotografica. Eravamo all’alba del secolo che si è concluso, nel 1901. Sono passati ben centodiciotto anni, due guerre mondiali e tante altre cose (anche meno drammatiche, grazie al cielo), ma l’immagine conserva tutta la sua carica di meraviglia. Per la cronaca, l’autore fu un certo George Ritchey, astronomo e costruttore di telescopi.

Il bello, è che abbiamo ancora tantissimo materiale in lastre fotografiche (spesso a largo campo) che risultano molto utili per le ricerche attuali: esse naturalmente vengono digitalizzate con grande cura per poi poter esplorarne il contenuto informativo – a volte preziosissimo.

Perché in fondo, ogni vero futuro inizia così: con i piedi ben piantanti nel passato.

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Ventuno chilometri, dopo

Questa splendida immagine (che quasi non ci si crede, sia un altro pianeta, visto il grado di dettaglio), è un mosaico fotografico prodotto dal rover Curiosity di stanza su Marte, e risale appena ad un paio di mesi fa, quando noi qui a Terra si iniziava (chi può) a pensare alle vacanze.

E’ presa dalla posizione attuale del rover, una zona – per la cronaca – chiamata Teal Ridge. Al momento dell’acquisizione, il 18 giugno, correva il giorno 2440 per la permanenza di Curiosity sulla superficie del pianeta rosso.

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Nominare le cose

La poesia è bella, è importante, mi dico, soprattutto per questo. La poesia prende sul serio le parole, le prende sul serio e le ama una per una. Il poeta smonta e rimonta un verso, ed è attento ad ogni singola parola. La rispetta, la onora. Anche una congiunzione, addirittura un carattere sospensivo, una virgola. Ecco, anche questa. Muovere un virgola in un verso a volte è cambiare tutto.
Il poeta ascolta le parole e ne estrae il succo, le mette insieme alle altre e controlla la miscela, gestisce l’alchimia. O almeno prova a farlo, perché poi la vera poesia, sfugge sempre di mano, esonda dai calcoli ordinari, acchiappa quell’aggancio di infinito che ha appena sfiorato e ci fa dimora, ci fa casa. Da lì si comunica anche ad altri, perché è irresistibilmente missionaria. E si realizza la magia, la rinnovata fratellanza tra gli uomini, legati dal comune anelito del cuore. 
Viviamo in una epoca diametralmente opposta alla poesia. La quantità di parole scritte è altissima (sui social, sulle reti di messaggistica), ma una gran parte di queste è utilizzata al minimo potenziale, è svilita, è prostituita. La parola così depotenziata è volgare, sempre volgare. E’ questa, a ben vedere, la vera pornografia. Perché è la più perniciosa: induce un pensiero parimenti depotenziato, servile, non libero. La vera poesia è liberante, non sopporta costrizioni ideologiche o morali, non le sopporta affatto.

Nacque il tuo nome da ciò che fissavi è il titolo del meeting di Rimini di quest’anno, ed è soprattutto un verso di una poesia di Giovanni Paolo II. Il segnale che raccolgo è positivo, confortante. In tempi di slogan e pensiero semplice, dove i cinguettii informatici di illustri ministri fanno a gara in inciviltà e nel rilancio del pensiero pigro, mettere un verso di una poesia a titolo di qualcosa, è andare in salutare controtendenza.

Come dice assai bene l‘articolo di Fabrizio Sinisi,  Tornare a nominare le cose, riscoprirne il nome, è un modo di sancire un nuovo inizio: è come nascere di nuovo. E cosa chiede il mondo d’oggi più di ogni cosa, se non il dono di poter rinascere? 

Abbiamo bisogno di un nuovo inizio, ne abbiamo sempre più bisogno. Ne abbiamo bisogno a livello personale e a livello sociale, in maniera inscindibile. Abbiamo bisogno di riprendere a sperare, di comprendere che erigere muri (dentro e fuori di noi), chiudere gli accessi (personali e nazionali), serrare i confini (di ogni tipo), non è la risposta alla sete di sicurezza, che è solo un ingabbiamento ulteriore nelle nostre paure e nella nostra solitudine. E chi fomenta tutto questo, giocando sporco sulle nostre paure e le nostre fragilità, non sta facendo un buon servizio, ai singoli e alla società.

La poesia è un superamento allegro e curioso, di ogni recinto… 

Abbiamo bisogno di un riscatto, di una ripresa. Diceva Don Giussani, alcuni anni fa, che abbiamo una sola legge: riprendere, ricominciare, risorgere. La poesia ci aiuta in questo, solo che le diamo udienza. Se accogliamo il suo modo di parlare al cuore, il nostro cuore si riapre, si allarga di nuovo. Possiamo ascoltare, di nuovo, il canto del mondo. E noi, di nuovo, respiriamo.

Ritorna bella e invitante, seducente e accogliente, la prospettiva di guarire, di ritrovare un modo e un mondo di rapporti più sereni, distesi, pieni ed appaganti. Ed il cielo ritorna a vivere dentro di noi, come recita il titolo della mostra su Etty Hillesum al meeting (e questa, a Dio piacendo, dovrò proprio contemplarla nella mia visita).

Etty non ha scritto poesie, che io sappia, ma il suo diario è un’opera incredibilmente poetica, e profetica anche. E’ un punto di partenza prezioso per ogni progetto di umanità nuova, che non eriga a sistema le sue paure, non le congeli dentro la vergogna di controversi decreti di sicurezza, ma le attraversi costantemente, slanciandosi verso l’ideale e la sua scintillante bellezza.

Non abbiamo bisogno di tanti discorsi, non c’è bisogno di retorica. Abbiamo bisogno di poesia, che è l’antidoto emozionante ad ogni sclerotizzazione ideologica, è una delle poche risorse per venire a galla dai discorsi, dai discorsi che non servono più.

Come già scriveva Alda Merini, nella lirica Ho bisogno di sentimenti,

Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia la pesantezza delle parole,
che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.

Il meeting (se uno non si fa imbrigliare dai discorsi, appunto, e dall’idea che si è fatta di Comunione e Liberazione, ma semplicemente procede ad occhi aperti e cuore allargato) è una splendida occasione di sperimentare una umanità in ricerca, aperta agli stimoli della modernità e affezionata al valore buono delle tradizione, ai valori della cultura e della solidarietà (cosa non troppo banale, di questi tempi). Ed è sempre propositivo, un calderone – anche a volte affastellato, piacevolmente confuso – di proposte perché si comprenda che una vita migliore, più umana, è sempre possibile.

E non si ottiene certo chiudendosi dietro un limite, ma attraversandolo continuamente.

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Dopo lo scoppio…

Lo sappiamo bene, le stelle piccole sono le uniche che durano davvero. Quelle grandi bruciano così furiosamente il loro combustibile (tecnicamente, con potenza superiore alla massa) che possono durare niente più che pochi milioni di anni. Niente, se pensiamo che una stella come il Sole, piccolina tutto sommato, di miliardi di anni di vita ne ha a sua disposizione (per nostra somma fortuna) circa dieci.

Tutta l’esistenza di una stella – soprattutto quelle massicce – può essere interpretata come una dinamica di produzione di elementi complessi: a partire infatti da idrogeno ed elio, messi a disposizione dal Big Bang, la stella riesce a produrre, per fusione nucleare, gli altri elementi che poi disperderà nello spazio, provvidenzialmente, con il meccanismo dello scoppio di supernova.

Crediti immagine: NASA/CXC/SAO

Davvero, le stelle sono le fabbriche degli elementi senza le quali, niente di quello che vedere attorno a voi, potrebbe esistere. Anche noi, anche i nostri atomi, sono stati prodotti all’interno delle stelle!

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