Blog di Marco Castellani

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Arte

Va così, lo sappiamo. Che ti chiedono come va e tu per non dire una bugia, metti la testa di taglio e rispondi così. Lasciando all’interlocutore il compito di immaginare qualcosa tra spazi grigi della tua risposta. Va così.

Poi prendi in mano un libro, un romanzo, o delle poesie e ti ci metti dentro per un po’. O nemmeno serve. Già basta che pensi di poterlo fare. E tiri sù il naso dal libro (davvero, o col pensiero) e già ti senti un po’ meno all’angolo, un po’ meno costretto, un po’ meno grigio, un po’ meno sballottato dagli eventi. Anche se intorno non è cambiato niente. O forse sì, è cambiato tutto perché vedi tutto con un po’ più di speranza (con buona pace di chi dice che la letteratura è evasione).

Embrace Art | 078/365
Mike Hiatt, su Flickr, licenza CC
Così ti accorgi che la letteratura è qualcosa di speciale. Che tutta l’arte lo è. E’ quando sei stretto dalle circostanze, dopotutto, che vieni più vicino a quello che conta. Che non ti puoi permettere di girare largo, di stare giorni o settimane a soppesare: devi prendere forza da quello che capisci sia più vero, e devi farlo presto. Così capisci che la letteratura, la poesia, non sono cose da aggiungere, da mettere sopra a qualcos’altro di essenziale. Non sono sforzi di conoscenze da esibire al momento giusto. Tipo, qualcosa che uno mette lì come orpello culturale. No, niente affatto. Almeno per te non è così. E’ una cosa necessaria, indispensabile. Dunque rozza e semplice e nuda, come ogni cosa necessaria. Necessaria al cammino per la ricerca di senso.

Così come lo scrittore può aver sudato sangue, aver studiato come un matto, per riuscire a rompere i formalismi e arrivare all’arte e alla sua semplicità. Per arrivare a m’illumino d’immenso di Ungaretti. Che tu capisci come un lampo tutto quello che c’è dietro, ma che non pesa più, non ostacola. Così ti arriva addosso come una cosa semplice, immediata. Che ti dice qualcosa, che ti parla in un modo che dici, soltanto dici, finalmente.

Semplice. L’arte vera sembra aver rimosso ogni cosa inutilmente complessa, per guadagnare un linguaggio e una modalità espressiva che semplicemente parla un linguaggio che coinvolge pensieri e sentimenti, umori e sensazioni. La complessità rimane allora, sospetti, un luogo privilegiato soltanto della pseudoarte. L’arte è semplice. La quarta sinfonia di Brahm è giocata su questi gruppi di quattro note, semplici semplici (vi sono canzonette, penso, anche più complicate). Ed è straordinaria, lo sappiamo. Ma gli esempi sono infiniti.

Il punto è questo. C’è come una nebbia che finalmente si alza, quando trovi un romanzo che ti aggancia, quando ti imbatti in un parlare poetico che risuona nelle tue corde, che si fa spazio dentro di te. Quando ascolti una musica che scende direttamente al cuore. Quando ammiri un dipinto che d’improvviso, ti taglia il fiato. Ti guardi intorno ed il reale, ecco, ti sembra finalmente più comprensibile, più decifrabile. La bellezza ha questo mistero in sè, che non ti fa mai fuggire dal mondo. Al contrario, ti aiuta a mettere radici più forti e robuste, nel mondo. Perché accade così, tutto ti scivola via se ti sei dimenticato che esista la bellezza, che possa essere cercata, spiata, domandata, implorata. Desiderata.

Ci sono sensazioni e sfumature di sensazioni e sensazioni articolate e complesse, che tu sai. Nascoste dentro di te. Che pensi che siano tue in maniera strana e quasi imbarazzante. Fino a qui. Fino a quando trovi un brano, una strofa, una immagine, una descrizione in un romanzo… un qualcosa che ricrea questa tua sensazione, che aderisce all’involucro di essa, si congiunge alla tua necessità espressiva, in maniera totale, imprevista, indicibilmente precisa. Così adesso questa tua sensazione non è solo tua, è come se si fosse allargato uno spazio sociale, dove sei in condivisione con altre persone, dove sei meno solo in questo sentire. Dove questo sentire acquista dignità e sicurezza, e tu rientri in gioco come attore di questo stupore sottotraccia alle cose, che le cose hanno più di quanto sembra, di quanto si misura.

L’arte ti fa riconcilare con l’idea di una compiutezza totale, sopra e oltre la frammentarietà che percepisci dolorosamente ogni giorno. L’idea di tale compiutezza appaga il cuore e alimenta la speranza. Così grande, così spaventosamente necessario, il compito dell’arte. E dell’artista.

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Carnevale della Fisica #40, i risultati

Con questo post ci accingiamo a tirare le fila della quarantesima edizione del Carnevale della Fisica. E’ la seconda volta che il nostro sito ha l’onore e sopratutto il piacere di poter ospitare il Carnevale: la prima volta è stato per la ventisettesima edizione, con il tema Fisica e Letteratura, mentre in questa occasione ci siamo dilettati con un tema affine, Fisica ed Arte.

Abbiamo il piacere di listare dei contributi di indubbio interesse, così preferiamo non rubare altro spazio in discorsi introduttivi e scegliamo di buttarci senza indugio nella lista dei post pervenuti. Nonostante il tema  scelto sia da intendersi come suggerimento e non come obbligo, quasi tutti i contributi si sono attenuti all’argomento da noi indicato. E’ dunque con un piacere ancora più vivo che procediamo alla rassegna, ringraziando in anticipo i partecipanti, e rimandandovi al Carnevale #41che si sta aprendo sulle pagine dell’eccellente blog dell’amico Umberto Genovese, Il Poliedrico (sì, anche se siamo in tempo di Quaresima, possiamo ben dire che – grazie a questa manifestazione – per la fisica è sempre carnevale…). Siamo certi che sarà un’altra edizione eccellente, non mancate di consultare il suo sito!

Apriamo la nostra rassegna… in musica, con il post Helmohltz e la dissonanza redatto da Leonardo PetrilloSeguendo il suo contributo veniamo condotti nell’affascinante analisi della dissonanza in ambito musicale, con tanto di abbondanti esempi presi dalla storia della musica e corredati di una spiegazione fisica approfondita. Lo stesso autore ci fornisce una illuminante sintesi del suo esteso intervento: 

Il post va ad analizzare il rapporto sussistente tra Fisica e Musica. In particolare, l’attenzione è rivolta al concetto di dissonanzaDopo un’introduzione in cui spicca la figura di Keplero, che aveva proposto nell’opera Harmonices Mundi un modello cosmologico di tipo musicale, l’articolo si focalizza appunto sulla descrizione della nozione di dissonanza. Viene illustrata anche la cosiddetta dissonanza sensoriale o tonale, dovuta soprattutto al fenomeno acustico dei battimenti, analizzato nello specifico attraverso un rigoroso formalismo matematico. La narrazione procede con la presentazione delle cosiddette armoniche, cioè frequenze che sono multipli interi di una frequenza fondamentale. Da qui in poi entra in scena il fisico Hermann von Helmholtz, di cui viene delineata la biografia e presentata la sua ricerca in merito alle dissonanze sensoriali, approfondita nel 1965 dai ricercatori di psicoacustica Plomp e LeveltIl post volge al suo termine con l’adagio-allegro dal quartetto n.19 di Mozart, denominato “Quartetto delle dissonanze”.

Hermann Ludwig Ferdinand von Helmholtz

Hermann Ludwig Ferdinand von Helmholtz

Dalla musica ci spostiamo poi all’arte più in generale, con il post Fisica o Arte redatto da Annarita Ruberto. Ecco come l’autrice stessa ci porta nel mondo magico che si trova all’incrocio tra queste due discipline…

Il titolo non deve stupirvi più di tanto perché, procedendo nella lettura del post, la domanda “Fisica o Arte?” sorgerà spontanea. Fidatevi! Per i più scettici, che non credono alle connessioni tra l’Arte e la Fisica, e più in generale la Scienza, basti pensare che l’Arte può essere considerata come la scienza che rivela la creatività umana e la sua capacità di materializzare la Bellezza. Molti artisti hanno fatto ricorso alla Fisica nelle loro opere. Picasso, ad esempio, ricorre al concetto di relatività einsteniana, superando la geometria euclidea che viene letteralmente “frantumata” in nuovi modi di interpretare lo spazio e la prospettiva. L’introduzione della quarta dimensione, il tempo, rende le sue opere multiprospettiche e calate pertanto in una realtà più completa e complessa. L’opera “Les demoiselles d’Avignon”, il suo capolavoro, introduce il cubismo nella storia dell’Arte.

Les demoiselles d’Avignon- Fonte

Les demoiselles d’Avignon

Ed è soltanto l’inizio di un articolo che ci porta dentro una intrigante carrellata di esempi in cui la fisica si colora di arte e appaga tanto il senso estetico quanto il ragionamento astratto. Arrivati in fondo davvero ci chiediamo, con l’autrice… la domanda Fisica o Arte è giustificata ? Giustificatissima, diremmo noi… 😉

Annarita partecipa poi con altri due articoli, La teoria della Luce di Newton e Mescolanza di colori puri da raggi laser. Nel primo si delinea un interessante approccio alla Teoria della luce di Newton anche per quanto concerne l’avvicendamento storico degli eventi scientifici ad essa connessi. Decisamente da leggere per capire come la ricerca scientifica non procede quasi mai in linea retta, ma è risultato di percorsi a volte tortuosi e anche di accanite dispute tra addetti ai lavoro.

Schizzo di Newton del suo esperimento cruciale (experimentum crucis), in cui la luce del sole è rifratta attraverso un prisma. Un colore viene rifratto attraverso un secondo prisma per dimostrare che non viene ulteriormente modificato. Viene poi  mostrato che la luce è composta dai colori rifratti attraverso i secondi prismi. Fonte dell'immagine: Warden and Fellows, New College, Oxford

Schizzo di Newton del suo esperimento cruciale (experimentum crucis), in cui la luce del sole è rifratta attraverso un prisma. Un colore viene rifratto attraverso un secondo prisma per dimostrare che non viene ulteriormente modificato. Viene poi mostrato che la luce è composta dai colori rifratti attraverso i secondi prismi.
Fonte dell’immagine: Warden and Fellows, New College, Oxford

Nel secondo, si tratteggia un esperimento in cui si osservano tre getti di liquidi di tre diversi colori rosso, verde e blu che vanno a cadere in una bacinella, dove essi si mescolano dando un liquido di colore bianco! Non lasciarsi ingannare dall’apparenza – avverte l’autrice! – perché i colori provengono da un laser rosso, uno verde e il terzo blu posti dietro i tre bicchieri.

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(Image: Alexander R. Albrecht, University of New Mexico)

La scienza comunque non è solo arte, anche se come abbiamo visto con essa ha diversi punti di contatto. C’è un altro aspetto che vale la pena di approfondire: la scienza può mettersi – lei stessa  – al servizio dell’arte. Proprio questo ci insegna il post di Orfeo Morello, La scienza a servizio dell’arte, i sistemi a scansione laser per creare copie di opere da preservare.

Arte e scienza, cosa mai possono avere a che fare tra di loro due mondi apparentemente così distanti? La scienza ha innumerevoli campi di attuazione e anche l’arte non è esente da questa contaminazione. In particolare in questo breve articolo voglio presentarvi un processo che basandosi sulla costruzione di un modello virtuale di opere d’arte, ne permette la duplicazione.

Interessante seguire l’esempio citato nel testo, che si riferisce alla realizzazione di copie di “due preziosi e fragili rilievi” provenienti dalla necropoli di Saqqara e attualmente conservati presso Museo Civico Archeologico di Bologna.

Dettaglio della copia del rilievo del maggiordomo regale Ptahemwia

Dettaglio della copia del rilievo del maggiordomo regale Ptahemwia

La fisica è dappertutto: e come potrebbe essere altrimenti? Ma è interessante esplorare come si possa vedere dal punto di vista fisico un’arte che sembra spesso ignorare le leggi fisiche – o almeno ce ne restituisce sovente l’impressione. dance

Parliamo qui della danzaFisica e arte della danza di Paolo Pascucci ci porta a comprendere – anche attraverso un video – come arte della danza e fisica sono, in realtà, una cosa sola. La premessa è un valido ingresso ad un mondo intrigante… “nonostante il movimento e il ballo siano manifestazioni di giubilo e attività che pratichiamo nei momenti di allegria e benessere, e quindi apparentemente eseguibili da quasi tutti a piacimento in ogni istante, non sono affatto un esercizio semplice.” La cosa sorprendente è quanta parte la fisica e le sue leggi possano avere in una attività apparentemente libera come la danza!

Claudio Pasqua ci conduce ad un viaggio affascinante all’interno dello studio di un artista la cui opera esplicitamente si ispira alla fisica e alla cosmologia in particolare. Vittorio Varré: Big Bang d’artista ci porta dentro l’attività di un artista peculiare e molto interessante. Estraiamo una domanda dall’intervista presente nell’articolo, rimandandovi al post di Claudio per una lettura integrale.

Il Big Bang è un modello cosmologico riguardante lo sviluppo e l’espansione dell’universo. Cosa ha spinto un artista ad occuparsi di questo tema? 

“L’idea di ciò che si avvicina a quella dell’infinito, di uno spazio in continua espansione, una idea che spaventa se pensiamo alle grandezze in gioco. E’ questo che ha ispirato il filo conduttore che lega tra loro queste opere.”

LAMPI DI LUCE 100X80 2010 ciclo big bang  tecnica acrilico su doppi pannelli (particolare)

LAMPI DI LUCE 100X80 2010 ciclo big bang,
tecnica acrilico su doppi pannelli (particolare)

Arriviamo adesso al contributo di Andrea Mameli, che è significativamente titolato Fisica + arte = stupore e piacere. Ecco come l’autore stesso ci presenta il suo interessante lavoro: Il piacere e lo stupore nel momento della contemplazione e della comprensione, in Arte e in Fisica, si possono accomunare e nel caso dell’attività creativa la loro intensità è moltiplicata per 10, forse anche 100 volte. Questo accostamento tra le sensazioni del fisico e dell’artista è qualcosa di profondo e a tratti indescrivibile. Mentre altri tentativi di avvicinamento tra le due manifestazioni del pensiero e della creatività possono risultare meno fondate, più che altro frutto di esercizi effettuati a posteriori, ma non per questo meno interessanti.

"Dinamismo di un cane al guinzaglio" (Giacomo Bella, 1912)

“Dinamismo di un cane al guinzaglio” (Giacomo Bella, 1912)

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Evidenze di strutture frattali sono diffuse ovunque nel corpo umano, polmoni, cervello, sistema circolatorio…

Cambiamo ambito (ma rimaniamo sempre nella fisica) con il post di Felice Russo, Considerazioni allomertriche sembrano indicare un piccolo errore nella formula del BMI proposta dal professore Trefthen. Può essere sorprendente scoprire che nella trattazione accurata dell’Indice di Massa Corporea (in breve, “BMI”) possano entrare anche … i frattali! Un altro esempio di come nozioni matematiche e fisiche possano trovare spazio anche in ambiti apparentemente lontani.

Leggiamo infatti ad un certo punto della trattazione: “L’assunzione che nella formula del BMI vada considerato un esponente 2.5 (o meglio 2.33?) anziche’ 2 significa assumere che il volume del corpo umano scala come un frattale di dimensione pari a ~2.5. L’esponente 2.5 indica che il corpo umano non e’ assimilabile ne ad un piano ne ad un cubo, ma sta nel mezzo. Questo non ci deve sorprendere in quanto sappiamo che tutti noi siamo dei frattali. I nostri polmoni, il nostro sistema circolatorio, il nostro cervello sono tutte strutture frattali. La geometria frattale permette di avere figure geometriche con area finita e perimetro infinito, volume finito e superficie infinita. La maggior parte degli oggetti naturali sono composti da molti differenti tipi di frattali intrecciati uno nell’altro, ed ognuno con una sua dimensione frattale.”

That’s all, folks! Per questa edizione è tutto. Vi invitiamo a seguire i link e leggere per esteso gli articoli che più vi interessano: scoprirete probabilmente dei tesori, come è successo per noi in redazione. Anche questa è la bellezza del Carnevale della Fisica 🙂

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Creare qualcosa

Ragionavo nel post precedente sul fatto che cercare di comprimere la musica dentro degli steccati, delle articolazioni di genere, ha una rilevanza limitata. D’altra parte, la musica è così. L’arte è così. Si fa una gerarchia di valori, ma è soltanto per comodità. Poi ti imbatti in quel pezzo di quel compositore minore e ti sorprendi di come ti si avvolge addosso, sembra fatto per te. Potresti averlo fatto tu. Anzi, vorresti. 

Ed eccoci arrivati a toccare un tasto importante. Il motivo per cui creare qualcosa, per cui osare creare qualcosa ha molto a che vedere con questo, da come la vedo io. Prendiamo lo scrivere, ad esempio. Scrivi perché vorresti leggere una certa cosa e non la trovi. Certo, ne trovi a milioni, di cose, a miliardi. Ma non esattamente quella: con quel bilancio di colori, sensazioni, con quella esatta visione del mondo, con quell’impasto di attitudini, distanze, relazioni, esitazioni, che ti senti in fondo al cuore. 
Così scrivi e provi a portare a galla il tuo mondo. E la prima impressione può essere devastante. Il tuo mondo vien fuori ma ecco, è molto meno screziato, articolato, complesso, ambivalente, di come   pensi che debba essere, di come sai che deve essere. 

writing like the wind
Writing like the wind, foto di snigl3t

Il punto è questo. Pensavi di essere arrivato ed invece sei appena partito. Sei partito per una meravigliosa e drammatica avventura. Perché devi acquisire gli strumenti tecnici, devi fidarti, devi capire che a scrivere si può imparare. Che quello che hai dentro è un tesoro, ma per esprimerlo devi applicarti, devi lavorare. Il lavoro è quello di continuare a pescare dentro di sè, ascoltarsi, allevare la propria voce. E intanto acquisire gli strumenti per esprimerla. Quindi è un allargamento: verso l’interno (ricettività) e verso l’esterno (la tecnica, il mestiere). 
Mi viene da pensare, come una traiettoria spirituale. Lo spalancarsi di una ricerca, che diventa sempre più vasta e intrigante quando ti accorgi dell’incontro con una corrispondenza.

L’importante non è arrivare subito, ma rimanere in viaggio.

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Ciò che rende uomo l’uomo

Lo dico. Mi sembra a volte di giocare in posizione di difesa. Giocare troppo corto, anche quando non ce ne sarebbe bisogno. Quando la partita non è messa male, non ci sarebbe necessità di arroccarsi. Catenaccio completamente inutile, direbbe il cronista. Perché mettere i gomiti davanti? Ricadere nel pensare gli altri come soluzione dei propri problemi? Pretenderla dagli altri, la soluzione?
Non mi è concesso più, di relegarti i miei casini
Mi butto dentro, vada come vada
(Lorenzo Cherubini, Mezzogiorno)
Dice bene Lorenzo. C’è come un’aria velenosa di rinuncia preventiva, un’idea di rimanere sul solito percorso, magari giudicandolo insoddisfacente ma non facendo davvero nulla per cambiarlo.

S’è avvolto nelle tenebre il mondo, non temere.
Non credere durevole tutto ciò ch’è oscuro.
Sei vicino ai piaceri, amico, alle valli, ai fiori:
osa, non ti fermare. Ecco, già sorge l’alba!

(Costantino Kavafis)

Ecco, la vita è lì, variegata ed imprevedibile in ogni istante. Colorata e multiforme. Sono i pensieri a bassa energia che ci trattengono. Sono tutto questo. Ecco. I pensieri a bassa energia, i pensieri stinti, sono la vera volgarità: sono tutto il contrario dell’arte.

Che c’entra ora l’arte?

Secondo me c’entra, eccome. L’arte è come la testimonianza impudica che una felicità concreta esiste e si allarga nel tempo. Io penso che il mondo abbia sempre avuto una grande necessità dell’espressione artistica. 

Sei qui. Io smaniavo, ti volevo.
Sei ventata d’aria fresca sul cervello incendio di passione.

Sembrano versi moderni, più moderni anche di Kavafis. Io li vedo così, vi passa attraverso tutta la tensione del contemporaneo, innervata d’impazienza – ci leggi l’impulsività, la forza della passione. Li vedo passare bene nell’aria di oggi, attraverso le strade, i palazzi, i negozi. La gente che si incrocia, si rincorre, si evita, si cerca.
Sei qui. Io smaniavo, ti volevo.

C’è tutta la rapidità quasi informatica del tratto, la forza che nasce dell’aver assorbito e superato ogni accademia, ogni forma retorica. Il contenuto che detta la forma stessa, l’urgenza espressiva che regna. Il sentimento, così esplicito. Insomma, niente di più attuale. Non dice avrei piacere della tua gentil presenza, oppure come la lontananza tua il cor mi ferisce, no no. Dice  proprio smaniavo, ti volevo.

Come quella incredibile canzone che chiude il primo lato di Abbey Road.

I want you,
I want you so bad.
It’s driving me mad,
It’s driving me mad.

(The Beatles, I Want You)

Insomma, siamo nella modernità. Tu pensi, finalmente l’espressività moderna ha superato ogni convenzione, si è affrancata dalle sovrastrutture formali. Pensi finalmente insomma.

Poi scopri che questi versi proprio modernissimi no, non lo sono. Sono di Saffo, una poetessa greca che scriveva circa seicento anni prima di Cristo. 
Allora questi versi, che si agganciano così bene agli scenari di palazzi, strade, automobili? Non c’è qualcosa di eterno nell’arte, qualcosa che ci ricorda che noi siamo più di un conglomerato di atomi e molecole sapientemente combinati? Per me è così. 
E’ perché Saffo ha scritto questi versi, in un attimo magari, un impulso di un istante, ha voluto fermare una sensazione. E dopo migliaia di anni, migliaia, queste poche parole mi parlano e si allargano nel cuore. Trovano un significato; una corrispondenza. 
La poetessa Saffo
Perché questo riverbero positivo? Azzardo un’idea. La faccio breve, ci sarebbe da scrivere molto di più, arrivarci per gradi. Invece vengo al punto. Perché il positivo? Perché queste persone, scrivendo questi versi, testimoniano – in ogni epoca – di prendere sul serio la propria umanità, di volerle bene. Di volersi bene. 
Hanno cioè mostrato in atto, con l’atto stesso di scrivere, quella che Luigi Giussani chiama una coscienza tenera e appassionata di sè. Tutto il contrario rispetto alla tentazione della trascuratezza, di cui si parlava all’inizio del post.
Prendere sul serio la propria umanità è la chiave per aprirsi, mettersi in gioco, lanciarsi finalmente alla ricerca del significato. Di una Presenza innamorata di noi.

“Non sarebbe possibile rendersi conto pienamente di che cosa voglia dire Gesù Cristo se prima non ci si rendesse ben conto della natura di quel dinamismo che rende uomo l’uomo. Cristo infatti si pone come risposta a ciò che sono “io” e solo una presa di coscienza attenta e anche tenera e appassionata di me stesso mi può spalancare e disporre a riconoscere, ad ammirare, a ringraziare, a vivere Cristo.”

(L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, citato qui)
Penso sia impossibile essere artisti senza aprirsi, mettersi in gioco, assecondare la natura di questo dinamismo. Non sto parlando di artisti cristiani, sto parlando di artisti. Del movimento primigenio fondamentale che mette in gioco l’arte, questa incredibile connessione tra i millenni. Figlio di quel dinamismo che rende uomo l’uomo. 
Così la vita entra nelle parole. E le parole trattengono la vita e tu ne vieni a contatto, anche dopo migliaia di anni.
Perché la vita entra nelle parole
come il mare in una nave…
(Luis Garcìa Montero)
Ciò che fa sì che mi possa rivestire dei versi dei poeti come uno strato intermedio tra me e l’esterno, come una possibilità più morbida di vivere il reale. Per essere più umano. Più vicino al cuore.

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Un quadro, del settantatré

Domenica pomeriggio, mettiamo su i quadri. Sono appoggiati in camera da letto da una vita, ormai. Su quel carrello ormai vecchio e rovinato, che dobbiamo buttare. Scomoda, come sistemazione. Anche perché c’è il fatto che se ti alzi di notte per andare in bagno ci puoi sbattere contro (succede, succede…).   A dire la verità, niente come l’iPod Touch – o roba simile –  per muoversi a mò di felino a notte alta con un minimo di luce (se poi non ti riviene sonno, puoi leggere qualcosa o controllare la posta… anche se, chi ti scrive a quell’ora di notte?)
Ma sto divagando…Torniamo ai quadri. E’ incredibile come cambia l’aspetto della casa mettendo due o tre quadri appena. Io e Paola li prendiamo uno alla volta, li puliamo, cerchiamo di capire dove stanno meglio. Ne giro uno, fatto da mio nonno materno (dipingeva per hobby, ma dipingeva bene, secondo me). Vedo la firma e la data. Aldo Poli. Settembre 1973. 

Faccio un rapido conto, e mi colpisce una coincidenza. Mio nonno lo dipinse quando io avevo l’età di Agnese, la nostra bimba più piccola. Quante ne ha viste passare quel quadro! E ancora è lì, ancora svolge la sua funzione. E’ ancora bello. Ancora mi trasporta indietro, mi fa pensare all’infanzia, al nonno. E’ un bel quadro. Ma anche se non lo fosse, sarebbe lo stesso importante, per me. Per la mia famiglia.
Dipingere
Il fatto di creare ha qualcosa dentro, un mistero che non puoi esaurire, comprendere. Spesso ragiono – nel giudicare i miei tentativi letterari-  per categorie semplificate; o una cosa è pienamente riuscita, è un’opera d’arte, diciamo, o non lo è. E se non lo è quasi non si capisce perché uno abbia perso tempo, magari molto tempo, per realizzarla. 
Però questo ragionamento semplificato manca diversi punti. Uno è che creare di per sè è un’attività terapeutica d’eccellenza. Seguendo la spinta interiore a creare capisco meglio il mondo e me stesso, mi muovo verso un equilibrio, affermo la positività ultima del reale (anche se scrivo una tragedia… se sto scrivendo di per sè è come se dicessi vale la pena). Reprimere un impulso a creare non fa mai bene alla salute. A prescindere dal “valore” di quello che riesci a creare. Il secondo punto è che – sappiamo bene – tra il capolavoro e il tentativo da buttare esiste uno spettro larghissimo di possibilità; il mondo è sempre più vario e sorprendente di come riusciamo ad immaginarlo. 
Inoltre dimentichiamo spesso che dietro tantissimo capolavori c’è il lavoro paziente e tenace, ci sono tanti tentativi parzialmente riusciti, che dunque acquistano un loro specifico valore, come può essere la strada che conduce (in un tempo e in un modo non deciso da noi) alla realizzazione di sè.
Assecondare la propria vocazione, mi sembra analogo ad accettare di stare su una strada, di rimanere in un cammino, di cui magari vedi appena pochi metri avanti. Ci sono tante curve, non vedi oltre la prima. A volte ci può essere nebbia. O ti trovi a percorrere una selva oscura, magari. Sei inquieto o triste o insoddisfatto, forse non sai nemmeno perché. Non per questo, devi smettere di camminare: “Guarda che dopo splende il sole; sei dentro l’onda, ma poi sbuchi fuori e c’è il sole” (Luigi Giussani). 
Non per le difficoltà, il tuo diventa meno ragionevole. 

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Notte stellata sul Rodano…

Potrebbe mai essere meglio espressa in pittura, la maestà del cielo notturno? Davvero, il tentativo di catturare la bellezza del cielo stellato per Vincent Van Gogh – il famoso pittore della seconda metà dell’ottocento – ha rappresentato una continua sfida: lo testimoniano molti dei suoi lavori, dove con tecniche innovative e riusultati sorprendenti è riuscito a declinarne il tema, così suggestivo per ogni uomo dalle epoche più antiche fino ad oggi (dove putroppo spesso la meraviglia del cielo notturno è preclusa a motivo dell’inquinamento luminoso dei grandi addensamenti urbani).

“Notte stellata sul Rodano” di V. Van Gogh.

Qui sopra è mostrato il famoso dipinto della Notte stellata sul Rodano, dove la città francese di Arles è raffigurata con tanto di luci a gas che si riverberano nel fiume Rodano.  Il bello dei cieli di Van Gogh è che appaiono davvero “vivi” con tanto di immagini stellari turbolente, le quali riescono ad evocare  un cosmo attivo e in perpetuo mutamento. Sopra il fiume, si puà scorgere il familiare asterismo del Grande Carro.

Molto interessante il fatto che, seguendo una linea che collega  le due stelle del Grande Carro sulla destra (come sanno quasi tutti gli appassionati osservatori della volta celeste), si può rintracciare la Stella Polare, l’altezza della quale può essere stimata, tanto da darci anche, di “riflesso” la latitudine di dove è stato dipinto il quadro stesso.

La fedeltà della rappresentazione della volta celeste è certo un indizio della passione e della meraviglia che suscitava al grande pittore, capace come pochi di intendere il perenne spettacolo del cielo…

Adattato da un articolo originale di APOD del 21.09.2010

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