Blog di Marco Castellani

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Grido

La verità, quella verità per cui si muore a Bruxelles o si vive in politica da corrotti cercando di arraffare quanto più possibile, quella verità per cui vediamo ogni giorno ondate di migranti sulle nostre coste o ai nostri confini, è molto semplice: dentro di noi c’è un grido che solo se viene fuori, solo se il cuore lo esprime in tutta la sua imponenza, può davvero essere abbracciato, amato e voluto.

 e per una volta sento le parole che esigono che si esca, che si esca dal parlare tanto per parlare, dalla terribile e temibile dinamica per cui il parlare – in fondo – non fa che propagare sé stesso. Il parlare tanto per parlare convinti che non cambi nulla, è il vero inferno, è il posto dove non accade nulla, non accade nulla che già non si sappia, che già non si conosca. 
Qui invece la parola scava e ricerca una consapevolezza nuova, ci interpella perché si faccia un percorso, si inizi e si riprenda un cammino. Il cammino verso noi stessi, esattamente. D’altra parte una storia di fede è sempre un cammino verso la scoperta di sé, il disvelamento di sé. 
Ed ogni cammino interessante è un cammino di cura, è un percorso verso la Cura.
Quel grido, appunto, è un cardine della cura, di ogni cura. Qui c’è la vera rivoluzione. Quel grido che così spesso nella vita cerchiamo di soffocare, di normalizzare, deve invece venire fuori, deve esprimersi. Deve occupare tempo e spazio, riprendere una sua integra dignità. Deve esistere. 
lo sono il mio grido e il mio grido deve esistere.
D’altra parte cosa vuole il grido, se non esprimersi? Cosa vuole il bambino ferito dentro di noi, se non farsi ascoltare, una buona volta? Se non sentire che la sua immensa paura non è più condannata o nascosta, ma amorevolmente accolta? Solo così, una volta tranquillizzato, inizierà a dialogare con noi, a mostrarci anche dei giochi, ad interessarsi ed incuriosirsi. E torneremo a respirare, a darci pace. Attraverso il dolore, inevitabile in certa misura, arriveremo ad essere più umani…

 … il dolore ci mette in ginocchio e ci apre la possibilità che il misterioso desiderio che ci abita emerga, esploda e — infine — possa essere ascoltato. Non c’è risposta senza domanda.

C’è tutto un mondo a rovescio, c’è il modo di rovesciare il nostro mondo troppo spesso male-detto, male interpretato. C’è il modo di rovesciare il mondo per il quale il dolore non è (appena) una iattura, ma una possibilità. Perché riguarda eminentemente il grido, la possibilità di una risposta.  La risposta a quella ferita aperta, per cui il primo passo, il primo fondamentale passo, è riconoscerla. E’ mostrarla, perché riprende vita la speranza, la speranza di tutte le speranze: la speranza che la ferita venga sanata. 
E siccome la ferità in fondo in fondo si alimenta di questo, della paura di morire, la speranza di risanamento non può che sovvertire questo, affermare assai scomodamente questo, riprendere la dolce speranza di non morire mai. Ovvero di morire ma non morire. 

Il grido infatti è questo, alla fine: fa che io non muoia, che io non scompaia. 
La risposta può germogliare nel cuore, quando uno meno se lo aspetta, quando uno non spera più. Perché la risposta è un imprevisto, è esterna al nostro sistema di pensiero. 
E’ un avvenimento, non un pensiero. 
Non è un capire, la risposta. Ma un essere presi per mano.

Essere accolti. Noi, con il nostro grido.

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Mancanza

Così disperso in quello che manca, da non vedere quello che c’è. Perché sono puntato sulla mancanza, forse per una ferita antica. Sì, quella ferita. Che ancora mi chiede di tornare in aiuto al me stesso di allora, di stipulare una nuova inedita amicizia. Quella per cui veramente diventi possibile darsi pace, per guarire e fiorire in una nuova stagione della vita. Del cuore.
A volte la mancanza si fa così sentire che faccio fatica a respirare. Fermo la realtà come in un fotogramma sospeso, e sento acutamente quello che, appunto, non c’è. Sento la mancanza di un istante di compassione in grado di attraversare – come un’onda benefica – tutto me, di legare tutto insieme, nuovamente.

Photo Credit: vale ♡ via Compfight cc
Non c’è, a volte non c’è proprio altro.
Non c’è nulla che non sia la compassione, in grado di legare tutto insieme e di attraversare tutto. C’è un insieme di cose che – se non ammorbidite così – ben presto si innestano accanite in una lotta senza quartiere, una mutua ostilità che rischia proprio di far perdere la pace. 
Non riesco a pensare alla possibilità di pace senza la misericordia. Non mi viene possibile. E’ chiaro che essendo tutto pieno di una mancanza, a volte così mancanza che straborda nel suo mancare, non c’è in fondo altra possibilità per rilassare i muscoli, per trovare un piano dove appoggiare la mente.
Ci vuole proprio qualcosa, una struttura, un luogo al quale tornare, per confutare perennemente le storture di una errata percezione di me stesso, io sono così e non sono a posto… Una struttura, un luogo, dove viene sussurrato pacificamente tu sei così e vai benissimo. Credimi, ti prego. Tu sei così e mi piaci, mi piaci tanto.

Dice bene Eugenio Borgna, non a caso (dico io), professore emerito di psichiatria:

«A differenza della ragione fredda e astratta, il cuore imbattendosi nella realtà, ascoltandola, ci consente di coglierne il significato profondo fino però a percepire una mancanza struggente: la mancanza di infinito. E in questo ne sente tutta l’essenza dolorosa e straziata. Una mancanza che Leopardi, Pascal e lo stesso don Giussani hanno descritto come qualcosa di strutturale dell’uomo» 

Ecco qui. Io non sento proprio di aver bisogno di particolari prescrizioni o proibizioni, non cerco affannosamente riparo in una casistica morale strutturata e dettagliata. Al limite, la normativa mi lascia un po’ freddo, un po’ preoccupato per la mia perenne – quasi strutturale –  inadempienza. Sento invece di aver molto, molto bisogno di sentire questa voce rassicurante, dentro di me… tu sei così e accidenti, mi piaci, mi piaci tanto.

Se ascolto questo tu mi piaci (che a volte – per grazia celeste – si intravede come spuma brillante sotto l’ordito del reale) comincio a far pace con me stesso, almeno un po’. Poi forse l’ipotesi di cambiare, in qualche modo imprevisto, può innestarsi naturalmente perché uno da subito comincia a respirare in modo diverso, a guardarsi in modo diverso, a guardare le persone in modo diverso. Nel complesso, ha meno affanno di afferrare qualcosa da portare via dal freddo, perché il freddo ha fatto un passo indietro, o almeno mezzo passo indietro.

Si può timidamente iniziare a coltivare l’idea di una qualche forma di bellezza che affiora qui e là. Transitoria e momentanea, se volete, ma anche irresistibilmente affiorante. Visibile.

E’ anche – e soprattutto – una cosa di respiro. Magari si può iniziare a respirare un po’ meglio, magari si inizia a rilassare l’elastico tra quello che uno vorrebbe essere e quello che è, perché non è poi così decisivo il fatto che uno metta tutto a posto, subito. Se perfino come è, impresentabile come è, viene amato, ecco, uno comincia a dire ok, va bene, posso iniziare a rilassarmi. 

Certo un amore senza condizioni è un flusso benefico dove uno inizia a tranquillizzarsi, a distendere le gambe, a rilassare gli arti troppo spesso contratti, nell’inseguimento inutile di certi modelli di comportamento. Messo così in ordine, inizia un po’ anche a guardarsi intorno, a guardare davvero. Tanto la faccenda fondamentale è a posto, uno è amato. Così sente meno la mancanza, almeno, non la sente proprio sempre. E l’allarme rimane, certo: ma si smorza un po’. E appena si smorza si vedono un po’ meglio le cose, si sentono meglio. 
I sapori.
I colori.
Gli odori.
Il tocco di una persona.
Gli istanti mezzi accennati.
I giorni lustri del ricordo.
Un parlare sommesso
Qualcosa che va avanti ed è
sottilmente grandissimo e 
tu ne fai parte –
come per un dono
proprio per un dono – 
ne fai parte

Cambia il livello di gioco, è diversa la partita. La mancanza non devi più sforzarti di riempirla. Ma poi: non riusciresti mai, lascia stare. Quel che puoi fare è cedere, allentare le rigidità, renderti materia plasmabile, non fare opposizione. L’idea di mettersi a guisa di spettatore di sé stessi, vedere se viene ripianata – almeno ogni tanto – senza tuo sforzo è veramente intrigante.

Forse il senso di mancanza è lo stimolo più persuasivo a dismettere la pretesa sempre riaffiorante di angosciosa, irriflessiva autosufficienza. E finalmente lasciarsi fare, lasciarsi plasmare, lasciarsi amare.

Non per dire, ma mi consola parecchio capire che questo atto del cedere è qualcosa di sempre possibile, perché in fondo ha a che vedere con il nostro atteggiamento e non con la nostra capacità .

Qualcosa che potrebbe perfino, chessò, rimettere un po’ tutto in ballo.

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Sepolcro

E’ una parola abbastanza imbarazzante. Non è di quelle che si producono abitualmente in società, potremmo dire. Eppure mi chiedo se uno possa desiderare di più. Se uno onestamente, sinceramente, possa desiderare più di questo. 
Orbene, è certo che molta gente oggi è scettica. E’ disincantata, è cinica. 
Qui non verrei azzardarmi in una ennesima analisi sulla crisi della fede, oggi. Per certo, non ho le competenze e la profondità necessaria, mi manca l’ampiezza di vedute e la conoscenza storica. Vorrei rivoltare la cosa come un calzino, invece.
Perché bisogna avere il coraggio di scoprirsi. Di scoprire i propri desideri, senza censuarli anzitempo. Senza ammazzarli, avvelenarli nelle solite obiezioni. Delle quali dico subito che la peggiore, in termini di danno psichico, è certamente quel è troppo bello per essere vero.
Ecco. Onestamente, io non so quanti danni abbia fatto, nel tempo, una frase di tal genere. Cosa rivela? Un pessimismo di fondo di portata cosmica, una rinuncia preventiva all’azione, alla vera speranza. Al desiderio di cose grandi. 
Prendendo questa frase terribile sul serio, ecco, uno non si muove più. 
Poi, oltre questo, come scienziato mi fa anche girare un po’ le scatole, per la sua palese illogicità. Di cui, sembra, la gente non si accorge. Lo confesso, in questo casi viene fuori il polemista dentro di me. Ma che vuol dire che è troppo bello? Perché “troppo”? Troppo rispetto a che, per esempio? Alla nostra immaginazione asfittica? Al nostro malinteso senso di essere adulti, con i piedi per terra? Alla nostra disperata paura di sognare? 
Se ad esempio faccio l’esercizio di pensare al sepolcro, alla possibilità che qualcuno ne venga fuori in carne ed ossa, al fatto che magari Qualcuno lo ha già fatto, scopro che ho paura di lasciarmi andare a crederlo davvero. Con tutto che (ogni tanto) mi dico “cristiano”, se arrivo a questo fatto, al nucleo pulsante delle faccende della mia fede, quel nucleo senza il quale tutto crolla (tutto! Che tentativo triste quello di tenere su la cultura, i “valori cristiani”, senza questo nucleo pulsante, senza questo “scandalo”), mi prende paura.
Una paura strana. 
Ma se buco un attimo la paura, ci passo oltre, scopro anche che è la cosa che desidererei di più. Che desidero di più. Che questo sia, appena, vero. Perché anche se sono cristiano, c’è come un pensiero in background, una formulazione di pensiero, un ambiente di pensiero, che mi ripete continuamente lascia perdere è troppo bello, lascia perdere… 
Ma il desiderio che sia vero c’è. Accidenti. Gli altri desideri che mi attanagliano, che mi tormentano, al confronto non sono nulla. Perché se fosse vero questo metterebbe veramente tutto in un’altra luce. Le gioie sarebbero ancor più gioie. Perfino le peggiori sofferenze potrebbero venire un po’ attenuate.
Quindi, è un po’ come se tutta la vita potesse essere interpretata – e nuovamente reinterpretata, ad ogni istante – nell’atteggiamento che abbiamo davanti a questo. Ad un sepolcro. Se è la fine di tutto o una scommessa pazzesca e totalmente fuori scala, per un nuovo inizio. Per un inizio senza fine. 
Capisco che siamo strani, in un certo senso. Ma forse è la portata della cosa, che ci fa un po’ paura. Ma di fatto è questo, è così. Siamo capaci di disquisire per ore su quanto ha detto un parroco di campagna, magari finito inavvertitamente sui media per qualche dichiarazione improvvida. Grande interesse hanno in ogni ambiente le discussioni sulle prescrizioni della Chiesa, soprattutto in ambito di morale sessuale. Ancora, la coerenza (o più spesso, la sua mancanza) di tal porporato od ecclesiastico riveste sempre una decisa attenzione e normalmente genera sapidi commenti.
Niente da dire, in fondo. Però, capitemi. Ho la sensazione, trovandomi spesso coinvolto in queste discussioni (“Ah, tu che sei cristiano, che ne pensi del fatto X [dove X = beni della Chiesa, controllo delle nascite e fame nel mondo e/o AIDS, ICI per gli istituti religiosi, etc…], del comportamento del cardinal Y, delle recenti dichiarazioni del Vaticano in materia di XYZ…”) ho la sensazione, non dico che siano giuste o sbagliate, non appena questo. No, ho la sensazione, come dire, che ci si stia concentrando accanitamente su dei particolari molto periferici, per trascurare l’essenziale. Cioè cosa è veramente, empiricamente, storicamente successo in quel sepolcro, un paio di millenni fa.
Che poi diciamolo, se in quel sepolcro non fosse successo nulla di particolare, ogni altra preoccupazione sui pronunciamenti di questo o quello, su cosa dice la Chiesa in materia di questo o quell’altro (perfino sull’accesso ai sacramenti per i divorziati, per dire), sarebbero totalmente inutili. Fiato sprecato. Perché non avrebbe senso niente, non avrebbe senso la Chiesa, i preti, i vescovi, i cardinali. Il Papa.
Se quello fosse stato appena un normale sepolcro, di una persona magari storicamente importantissima, magari un grande dell’umanità, ma insomma, sempre dopotutto un normale sepolcro, ebbene, non avrebbe senso nulla, di quello che stiamo trattando.
Come dice la canzone di J. Breil…

Ditemi se è vero,
Se è vero tutto quello che hanno scritto Luca, Matteo
E gli altri due,
Ditemi se è vero,
Se è vero il portento delle Nozze di Cana
E il portento di Lazzaro

Se fosse vero tutto questo
io direi sì
Oh certamente direi sì
Perché è così bello tutto questo
Quando si crede che è vero

Mi rendo conto, che siamo capaci di passare una intera vita (e se potessimo, anche di più) nel ragionare – per dire – su torti e meriti della Chiesa, senza osare arrivare al fondo della questione, al fondo pulsante. Se lì è avvenuto qualcosa, qualcosa di strabiliante, oppure no.
Il senso di ogni istante, di ogni minuto, viene investito dalla nostra decisione in merito. Luigi Giussani parlava, giustamente, di decisione per l’esistenza.
Il fulcro è quello. Se davanti ad un dolore, ad una sofferenza –  ma anche davanti al vuoto che tante volte si affaccia nella nostra vita, possiamo avere il conforto di una Presenza, vivente, vicino. 
Insomma, qualsiasi posizione possiamo avere, il punto cruciale è quello della canzone citata: ditemi se è vero
Il resto son davvero conseguenze, molto molto più a valle.

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Ferita

Il sole è ormai alto, entra nella stanza, forte, dichiarativo.
Ti devi svegliare
Apro gli occhi. Un occhio, poi l’altro
Sono qui. Sono io.
 
… bum! 
 
Eccomi, di nuovo. Sono in questo corpo, sono qui dentro. Eccomi come sono. Ora mi sento, avverto il peso. Gli entusiasmi e le pesantezze fanno subito a botte. Ma le pesantezze le sento tutte. Anche la tensione. Vorrei quasi essere un altro.
 
Essere diverso. Essere secondo il mio progetto.
 
Il mio progetto è un bel progetto, sulla carta. E’ molto ragionato (perfino troppo). Si parla di  un individuo pieno di buon senso, capace di risposte pacata e sagge, capace di pazienza. In breve, una sicurezza per  chi gli è intorno. Anche – quasi dimenticavo – capace di gestire con savia tranquillità i suoi interessi, i desideri, e sopratutto le sue pulsioni. Capace di presentare un profilo amichevole e riconoscibile verso l’esterno. Un profilo insomma, in una parola, affidabile.
 
Insomma, in poche parole, un individuo senza la ferita.
 
La mattina è impietosa, in questo. La mattina soprattutto, mi accorgo di come sono anni luce lontano dal mio progetto. Vorrei essere così, senza la ferita, senza quel senso di sbandamento che mi porta fuori strada, mi confonde. Essere preciso e puntuale, rispettato e rispettabile.
 
Quindi, in ultima analisi, sto cercando in tutti i modi di non essere me stesso.
 
Quindi, perdere la mia unicità. Ciò che mi è più prezioso. Ciò che mi fa me.
 
Ce ne vuole di lavoro, per capire che la ferita è la cosa più importante che ho. Per capire che il tempo e l’energia che impiego per tentare di allontanare i disagi sono tempo ed energia perse. Perché vanno nella direzione sbagliata.
 
Se guardo dentro i miei disagi, se oltrepasso l’istintiva ripugnanza, vedo qualcosa che mi interessa, qualcosa che brilla. Trovo una parte di me che mi è più cara di me stesso.
 
Questa parte non si trova in direzione opposta alla ferita, ma si trova assolutamente dentro di essa. E’ buffo, ma la vita è così. Devo cercare proprio nella direzione che più mi ripugna. Devo cercare la pietra preziosa, ma non posso trovarla dentro una teca sapientemente illuminata, deodorata, depurata, asettica. 
 
Non c’è verso. Finche non mi ci arrendo prenderò botte su botte.
Devo cercare la pietra preziosa mettendo le mani nel fango. 
Affondandole nel fango.
 
Mi devo sporcare. Me lo ripeto: mi devo sporcare.
 
Qualcosa di simile ci dice l’abate André Louf,

Spontaneamente pen­siamo che la santità va ricercata nella direzione opposta al pec­cato e contiamo su Dio perché il suo amore ci liberi dalla debo­lezza e dal male e ci permetta così di raggiungere la santità. Ma non è così che Dio agisce con noi: la santità non si trova all’op­posto bensì al cuore stesso della tentazione, non ci aspetta al di là della nostra debolezza ma al suo interno.

Come molta mistica, questa densissima intuizione dice qualcosa di profondo sul reale. Getta davvero una luce penetrante nel mistero dell’Essere. Tanto che, qui come altrove, non è nemmeno sufficiente tirarsene fuori affermando di non credere in Dio. Eh no, temo di no. Si parla qui della stoffa del reale, della struttura intima dell’esistente, della modalità con cui questo interagisce con me. Qualcosa con la quale tutti, a prescindere dalla fede, devono fare i conti. 
 
Ecco. Ci vuole molta strada, molta vita, per capire che la ferita nasconde un tesoro. Ma sono di quelle acquisizione che, capisco, possono ribaltare la percezione del mondo in maniera totale. 
 
Che ti possono far respirare, di nuovo.
 

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Silenzio

Ciò che mi avvince di più di questi due giorni che precedono la Pasqua, è che sono i giorni del silenzio. Il silenzio è spettacolare, per me. Semplicemente spettacolare. Più vado avanti nella vita più sento che il silenzio è uno spettacolo. Più cresco più avverto il silenzio come confacente al cuore.
E’ proprio strano. A volte ciò che mi fa più paura e ciò che mi fa bene coincide, viene a sovrapporsi. Il silenzio è una di queste cose. Sì il silenzio fa paura, siamo abituati a temerlo. Nel flusso continuo di informazioni che proviene dai media, non c’è ormai più niente che possa preoccupare davvero, che possa imbarazzare, che possa agitare. Tutto quello che fluisce in televisione, in radio, su Internet, viene immediatamente scansato, sovrastato da quello che passa un momento dopo. Tutto si dimentica, ogni scandalo, ogni eccesso, ogni apparente trasgressione. Tutto.

Tutto, certo, tranne il silenzio. 
L’unica regola, lo sappiamo, è che il flusso non si può interrompere. The show must go on. Questo è l’unico vero problema, l’unico vero scandalo. Il resto passa. Il resto è spesso tristemente funzionale al mantenimento dello status quo, anche quando si ammanta di pretese sovversive o rivoluzionarie.

Dico ciò, sia chiaro,  non per indulgere nella critica della cattiveria dei tempi, perché questi sono tempi per molti versi immensamente migliori di tante altre epoche, e di questo dobbiamo essere grati. Lo dico piuttosto come tentativo di uno sguardo onesto sulla realtà, uno sguardo amichevole ma onesto.

Perché mi rendo conto che nell’epoca attuale l’unico scandalo è il silenzio. L’unica cosa completamente altra rispetto alla trama ordinaria della comunicazione globale. Nell’epoca della globalizzazione informatica, la rivoluzione è l’assenza di segnale, il silenzio.

Tolta la pressione esterna, può avvenire il riequilibrio. Interrotta la bulimia informativa, quella che trattiene inesorabilmente in superficie, riparte quasi spontaneamente la connessione con strati più profondi.

Avviene, riprende almeno come possibilità, il lavoro interiore, l’ascolto di sé, la ricerca di senso. Pervade il cuore la dolce possibilità di un ricominciamento. Quel lavoro su di sè che davvero rende giovane l’anima, accende qualcosa che palpita e riscalda da dentro, profondo e robusto.

Qualcosa di fragile, fragilissimo, che va coltivato amorevolmente, perché anche un poco di questo lavoro umile, questo affondare le mani nel (proprio) terreno, subito ripaga. Così ci si può accorgere che il silenzio, l’attesa, riverbera la possibilità inesausta di fare pace con sé stessi, di darsi pace.

Che poi è l’unico vero importante lavoro della nostra vita. Questo paziente lavoro sull’anima – più di tanti proclami e roboanti risoluzioni – è quello che davvero può cambiare la vita, può innescare la vera, unica rivoluzione.

Può veramente assumere un riverbero pasquale, può veramente rimetterci in vita. 

Questo post rappresenta il mio secondo contributo al sito Darsi Pace. 

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Economia (ex rivoluzione)

“Per uscire dalla crisi non basta una correzione alla finanza” dice un interessante articolo apparso sul sito PiccoleNote.it. E’ piuttosto emblematico ai miei occhi, perché già stabilisce un ponte, un collegamento. Una ipotesi di relazione. Con qualcosa che vive al di fuori dei meccanismi economici-finanziari.

Già stabilisce, in poche parole, come l’universo dell’economia non sia chiuso in se stesso ed in sé completo, autoreferenziale. Che in esso trovi le regole e che possa interamente giocare la partita per il risanamento senza scomodare altri ambiti, non è più dato per scontato.

Euro 447214 640

C’è la percezione ormai diffusa che questo non sia vero. Che cioènon basti mettere insieme – magari con accortezza e bravura – dati dalle pagine Affari & Finanza dei vari giornali, per far tornare i conti. Che framework del tutto distanti possano giocare un ruolo. Anzi, che possano essere (ri)scoperti come attori indispensabili e fermenti ineludibili, per questo compito.

E non è banale, tale acquisizione. Almeno secondo quanto vedo, quanto sento.

E’ una cosa dell’aria.

E’ questione dell’aria che respiri, non so se hai presente. Tu non è che devi argomentare qualcosa, decidere qualcosa di particolare. Ragionare su un insieme di problemi, di relazioni, di priorità. C’è qualcosa che respiri nell’aria, che informa le cose e i rapporti tra le persone, suggerisce in maniera sottilmente ipnotica una scala di valori. Qualcosa che cambia nel tempo, e magari nemmeno te ne accorgi. Non te ne accorgi e segui. Perché seguire il flusso è la cosa che ti fa fare meno fatica. Segui pensando di essere originale, addirittura. Invece immetti solo una tua debole modulazione su un segnale portante, che viene fuori da te, e tende prepotentemente a pilotarti. 

E’ una tendenza messianica deviata, se dovessi proprio dire cos’è. Un anelito di assoluto, che per una tensione di impazienza, cerca di declinarsi in una modalità interamente conosciuta e conoscibile. Interamente razionalistica. L’inganno può durare un tempo limitato, comunque. Cosicché sottilmente sfuma, ad un certo punto, ed ecco che subentra un’altra cosa: sorge un altro miraggio, un altro orizzonte, un’altra fraintesa percezione di salvezza.

Se affondo la memoria del mio poco più di mezzo secolo di vita, arrivo fino agli anni ’60 e ’70. L’aria era allora  davvero satura di questa vibrante aspettativa di rivoluzione. Era quello il nuovo, era quello che sembrava rilucere di promesse. Le cose che non andavano erano semplicemente contro la rivoluzione. Era difficile scappare da questo sistema di pensiero, che innervava profondamente la cultura la scuola, i libri di testo (anche più della politica realmente esperita). 

Poi, è cambiato. Il vento è cambiato. La tanto attesa rivoluzione del popolo – sanguinosamente smentita dagli eventi – ha smesso di essere la salvezza per gli uomini colti e gli intellettuali, ed è rimasta opzione valida (nella sua forma originale) appena per qualche nostalgico affezionato. Comunque sia, ormai fuori dal mainstream. 

Un altro idolo si affacciava ormai alla coscienza collettiva.

E ad un tratto era lei, l’economia. Era il reale. Il resto erano orpelli, sovrastrutture. L’economia era il nucleo. Era lì dove avvenivano le cose: il resto erano – appena – bei discorsi. 

E se l’economia si ammala, il problema in questo quadro è del tutto economico. E’ qualcosa che rivela una malattia all’interno e dunque – secondo tale logica – si deve poter risolvere parimenti dall’interno. Muovendo priorità, definendo procedure, architettando vie di soluzioni. Senza andare al di fuori, espandere. Rendendo il modello inossidabile e completamente blindato all’imprevisto.

Dice Luigi Giussani che “l’attesa dell’imprevisto è la nota dominante di tutta la storia della coscienza umana.” Se questo è vero, la rimozione della categoria di imprevisto (in questo caso, dalle analisi politiche ed economiche) – come ogni rimozione psicologica – non è senza conseguenze.

Notate come, fino alla fine, l’idolo tende comunque ad autoorganizzarsi. Un tempo, davanti alle rivoluzioni finite nel sangue, si diceva che erano state rivoluzioni sbagliate. Ovvero non si cercava al di fuori del paradigma. Semplicemente, si diceva che il paradigma era stato applicato male, era stato tradito. 

Con la piccola imbarazzante evidenza (per uno che appena ragioni) che il paradigma diventa così totalmente non falsificabile. Può resistere a qualsiasi evidenza storica. A qualsiasi devastazione, qualsiasi quantità di sangue versato, di libertà tolte, di diritti umani violati. 

Questo gioco si realizza anche per l’economia, come possiamo facilmente vedere. Persiste la tentazione di cercare all’interno del gioco dell’economia stessa gli strumenti correttivi che comunque, per convergenza universale, si rendono necessari.  

L’articolo citato in apertura è interessante perché denuncia una industria malata di finanziarizzazione. Ancora più interessante la nota a margine, dove leggo 

… resta il dubbio se sia possibile che la risposta a questa situazione globale possa venire da un ambito, quello economico, che ha manifestato  in questi anni tutti i suoi limiti strutturali, che tra l’altro hanno impedito a quasi tutti gli “esperti” del settore di allarmare il mondo sui rischi prodotti dalle derive economiche degli anni pre-crisi (e oltre).

 Qui la necessità di allargare lo sguardo viene introdotta nel discorso – sia pure a livello di ipotesi –  come elemento cardine. 

Non c’è nulla di sbagliato nell’economia (come nell’anelito all’uguaglianza, peraltro). E’ che vanno trattati, azzardo, non dimenticando altri fattori. Altrimenti diventano parzialità impazzite di un tutto la cui organicità corre il grave rischio di disperdersi sempre di più.

Leggo dal libro di Marco Guzzi, “La nuova umanità”

Dovremmo comprendere che in realtà è la carenza di idee adeguate alla sfide del tempo che rende, per esempio, la nostra Europa cos’ stagnate e depressa anche da un punto di vista economico. La fecondità e l’autentico sviluppo economico, infatti, quello cioè che non distrugge ma arricchisce l’umanità corrispondendo a tutta la complessità dei suoi bisogni, dipende e discende dalla vitalità inventiva e creativa dei popoli, non la produce

Dunque bisogna guardare più alto. Unificare e non parzializzare. Ricongiungere e non segmentare, dividere e distinguere in una fuga infinita di saperi impazziti nella loro stessa parzialità. L’economia da sola non si spiega, non si comprende: rimanda ad altro. 

C’è un uomo nuovo da creare, una nuova umanità, appunto.

Siamo appena sulla soglia. Eppure da qui, dal formarsi di persone con questa consapevolezza, può forse (ri)partire tutto…  

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Disordine

Esiste una forma di disordine che è benefica, che è pulsione vitale. C’è quel senso di apertura, di salutare provvisorietà di forme e di situazioni, che fa respirare. Quel margine quasi sacro di imprevedibilità che ti porta a pensare non è tutto qui, c’è altro. 
Come se ci si trovasse di fronte non ad un fenomeno composto ed in sé compiuto, ma ad un segnaposto per la realtà, segno di qualcosa che la attraversa in verticale, che la salva dalla terribile comprensibilità di essere senza sfumature (interamente comprensibile, e dunque, limitata). 
Altrettanto chiaramente esiste un ordine che è malato, deficitario, segno di mancanza. Quell’ordine che riduce il reale alla presentazione razionale ed anzi razionalistica degli enti (appunto) ordinati, che manca di quel guizzo di creatività e mistero per far intuire qualcosa ma non pienamente.
Certe figurazioni psichiche malate possiedono un ordine apparente superiore del disordine fisiologico dello stato più sano. Certi stati fisici di massimo ordine (come i cristalli) sono segno di qualcosa di fermo, di bloccato, di statico: di morto, in ultima analisi. Mentre il disordine, il caos, può essere tipico di sistemi in movimento, in evoluzione. Non lineari, ovvero di difficile prevedibilità. Non li inquadri con un pensiero pigro, non li incaselli facilmente in qualche tua categoria bella e pronta: ti sfuggono da tutte le parti. Ci vuole una grande quantità di informazione (potrei dire, di fatica, di attenzione) per descrivere un sistema di questo tipo, ce ne vuole pochissima per descrivere uno stato di massimo ordine.
A volte quando tutto è troppo al suo posto mi sento a disagio, mi viene una misteriosa stretta al cuore. E’ tutto a posto, va bene, però manca un punto di fuga, un margine di evasione, uno spazio per dire, per pensare, che questo possa essere appena il bordo, la rappresentazione di altro.
A volte un ordine è come per dire non c’è niente oltre questo mentre a volte è proprio per dire il contrario, per dire siccome c’è qualcosa di bello posso farlo riverberare anche con l’ordine. Che buffo.
Dunque un ordine è bello se funziona come apertura a qualcosa, se attraverso la bellezza richiama ad un ordine più profondo (abbastanza profondo che sfugga alla piena comprensione e catalogazione). E un disordine è bello se non è chiuso in se stesso, ma perfino nella sua provvisorietà, nella sua scomodità, rimanda ad una domanda, ad un grido.

Ha avuto una vita disordinata, si dice a volte. Forse il disordine è per questo, è un tentativo graffiante  -scomposto, se volete – di cercare un ordine nelle cose, rilevare un segno luminoso, stanare una pista. Cercare una strada di percorribilità al reale.

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Fede

La fede cristiana ci riporta cioè ad una esperienza del tutto ordinaria, quella in base alla quale noi nasciamo e cresciamo attraverso la parola umana, e specialmente quella parola benevola e amorevole che dice Bambino mio, quanto ti voglio bene e se non ce lo dice con pieno affetto noi soffriamo da morire: Questo è il rapporto di Dio con l’uomo: DIo parla con l’uomo bene-dicendolo, e parlando con lui con amore incondizionato gli forma una identità spirituale libera, lo risana da tutte le male-dizioni familiari e storico-culturali che lo hanno ferito… 

(Marco Guzzi)

Così la fede calma e soddisfa il bisogno di amore e protezione che ti porti dentro, viene a levigare quella ferita che segna i rapporti con le persone, con le cose. Quella ferita originata tanto tempo fa, che ti porti ancora appresso, che segna i rapporti con il mondo e con le cose. Non è niente di automatico: è’ una sfida, per cui ogni volta bisogna ripartire. Ogni volta e sempre si può ripartire. Ogni mattina si può dire di no (anche se magari gestiamo diecimila attività parrocchiali o di gruppi cattolici, movimenti) oppure dire di sì. In fondo, mi dico, quello che conta – quello che ora serve – non è tanto l’enunciazione teoretica di alcune verità, ma il lavoro che facciamo su queste.

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Per guardare il mondo con amore, serve questo, appena questo, sentirsi amati…

Così vedo le cose, e  possiamo ben dire che non è la prima volta che su questo blog si ragione intorno a questi argomenti. Eppure ogni volta che ci ritorno, mi sembra di illuminare la cosa da un angolo leggermente diverso (come il satellite GAIA, che vedrà una stessa stella anche settanta volte, ogni volta portando nuovi dati, così possiamo fare qui, per quello che ci preme di più… )

Queste cose le scrivo qui per me, in fondo, e fanno parte di qualcosa non sistematizzato, ma in perenne ebollizione interiore. Le scrivo per me per coltivare e far crescere un luogo dove io possa riflettere su me stesso e sentirmi a mio agio. Un luogo che penso in questo modo, morbido e conciliante. Un luogo dove le parole non servono a ferire, a distinguere, a separare: ma servano innanzitutto per guarire. Sempre da Marco Guzzi, prendo in prestito un’altra frase: 

.. La scrittura, infatti, possiede di per sé un’incredibile potenza di autoconoscimento e di guarigione.

Ci vedo dei colori pastello, leggeri. Ci vedo l’idea di un tranquillo pomeriggio di sole, vissuto al riparo di un fresco pergolato, magari. Una casa riparata e tranquilla, ma non isolata. Qualcosa costruito con le parole, parole di guarigione…

Fateci caso. Le parole che guariscono sono sempre quelle che intendono correttamente le cose. Tante cose sono state dette sulla fede, tanto alto è il rischio di fraintendere, di restare imprigionati in definizioni sbagliate, limitanti, castranti. Quella di Marco Guzzi che ho messo in apertura, fa risuonare qualcosa di bello in me, tiene vivo e zampillante un desiderio buono di pace e di assestamento psicologico costruttivo, di superamento di tutto ciò (laico o clericale che sia stato) che mi ha fatto male, mi ha ferito… un desiderio dolce di guarigione, appunto. 

Perché il punto è questo. Mi accorgo che la fede viene vista da molti come qualcosa… che non è. Come se un cristiano (o un buddista, un induista, se volete) dovesse avere un ricettario, una lista di cose che non può fare, di curiose limitazioni – come se fosse uno che vuole complicarsi la vita. Invece vuole semplificarla, vuota gustarsela. Senza starsi a tormentare troppo per il fatto che siamo limitati, che possiamo sbagliare. Peccato, davvero peccato,che ti fanno credere che per gustarla devi starci lontano, dalla fede… 

Insomma, cosa è per me, la fede? La fede è – anche – la possibilità di scorgere un significato in ogni cosa e in ogni circostanza. E’ non giudicarsi (io non giudico nessuno, neanche me stesso, diceva Don Giussani), è essere lieti di essere amati, come si è (anche se io sono un mucchi di letame, Cristo è più grande del mio mucchio dl letame, sempre Giussani).

Su tutto, sapere… sentire… che io sono amato, adesso.

Sapere che mi posso rilassare, perché sono molto, molto amato. 

Ecco il punto. Ecco il punto vertiginoso fondamentale dell’universo. Essere amati.

E’ tornare a giocare col mondo, come si faceva da bambini. Perché si giocava fino a che si pensava, si intuiva, che tutto avesse un significato. Che ci fosse una presenza buona a proteggerci, a tirarci fuori dai guai, qualsiasi cosa avessimo combinato. Quando abbiamo bevuto il veleno che – a volte con le migliori intenzioni – ci hanno somministrato (niente ha valore, tutto è opinione, niente esiste in fondo, tutto è appena una accorta flessione del discorso), ecco che abbiamo anche immediatamente smesso di giocare. Magari abbiamo detto sì sì, così stanno le cose, siamo adulti, siamo cresciuti e – fateci caso – abbiamo smesso subito di giocare, di divertirci.

Senza la fede la vita ti diventa una cosa dannatamente seria. 

Ora a me pare una cosa, cioè che a volte siamo così impastati di questo veleno, credenti e non credenti, che si dura una fatica da matti. Ogni giorno dire e ripartire, rifiutando il nichilismo e la sottile (più o meno quieta) disperazione. Ogni giorno scegliere di appartenere…

Al fai ciò che vuoi perché niente ha valore in sé preferisco il Ama e fai ciò che vuoi di Agostino.

C’è un abisso, in mezzo. Grande come la possibilità di avere un cuore – di nuovo – lieto.

Poi non facciamo noi le cose, anzi se ci mettiamo di mezzo noi, di solito facciamo guai. Perché abbiamo questa tentazione di decidere noi, di voler sistemare noi, di non lasciarci andare, di non affidarci. Di pensare che ci sia sempre un’alternativa più furba. Penso che sia una tentazione nota ai praticanti di ogni religione, di qualsiasi forma di spiritualità. 

Tanto che sempre Giussani, individua proprio qui la drammaticità della vita: “La drammaticità della vita consiste nella lotta tra la pretesa affermazione di sé come criterio della dinamica del vivere e il riconoscimento di questa Presenza misteriosa e penetrante” (citato in Vita di Don Giussani di Alberto Savorana, al Capitolo XVI).

Questa drammaticità, d’altra parte, fa sì che venga perennemente chiamata in causa la nostra libertà. E che nessuna adesione sia mai un atto meccanico ed automatico, come una sorta di tessera acquisita una volta per tutte – ma qualcosa che va scavato ed indagato sempre. 

La cui convenienza, appunto, è da ricercare ogni giorno. Così che uno si butta, idealmente, nella vita e fa la verifica. La verifica della convenienza della fede. 

E’ questo il cammino, mi pare di poter dire. E’ questo che può rendere la strada, una strada  bella.

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