Blog di Marco Castellani

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L’universo che osserviamo

In un certo senso c’è tutto. Tutto il nostro mondo fisico. Il modello di mondo che conosciamo, che riteniamo il più valido. A volte capita che mi chiedano, in occasioni pubbliche, come mai ci riteniamo contenti dei nostri modelli, quando sappiamo a malapena di cosa è fatto il 5% del contenuto di massa ed energia del cosmo.

L’universo osservabile. Crediti & LicenzaWikipediaPablo Carlos Budassi

Risposta facile. Siamo contentissimi, non contenti. Per la prima volta nella storia dell’umanità, ed esattamente in questi anni, abbiamo tra le mani una mappa scientifica del (nostro) Universo. Mai accaduto prima. Mappe come queste si sono sempre fatte, certo: ma erano basate sul mito e non sulla scienza. Il mito è fondamentale, riempiva un vuoto e inseriva la vita dell’uomo in un contesto di senso. E in fondo era un modello anch’esso, sia pur difficilmente falsificabile.

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In cerca di un modello…

Lo abbiamo visto più volte, lo abbiamo toccato con mano anche nell’evento recente della rilevazione delle onde gravitazionali, di cui si è ampiamente parlato: la gente ha fame di informazione scientifica. in particolare, per l’ambito più prettamente astronomico, ha fame di una informazione che la aiuti a comprendere l’Universo, a capire cioè la natura e la forma dell’ambiente all’interno del quale – in senso più globale – è stata chiamata a vivere.

Se ci pensiamo, è una cosa assolutamente naturale. In ogni tempo e in ogni epoca le persone hanno posseduto un proprio modello di universo, uno schema comprensibile dove poter collocare idealmente il proprio percorso di vita. Poco importa, da questo punto di vista, se il modello a cui si riferivano risulti – alla luce della moderna cosmologia – decisamente inattuale, palesemente falsificabile. Certo, potremmo legittimamente sorridere ripensando al modello a guscio di tartaruga dell‘antica mitologia cinese: del resto, oggi quasi nessuno penserebbe più di poter vivere davvero sul dorso di una tartaruga gigante. O anche, che il Sole derivi, come formazione, dall’occhio destro del gigante Pangu.

Un modello fisico dell'universo ci trasporta dal mito alla scienza. Con che conseguenze?

Un modello fisico dell’universo ci trasporta dall’immagine mitica alla scienza empirica. Con quali conseguenze?

Però il punto non riposa tanto nella moderna facilità nel falsificare il modello stesso. Il punto è che un modello qualsiasi è – per la mente – molto meglio di nessun modello. Un modello di universo è uno schema che rende il cosmo pensabile, prima di tutto. Affrontabile dall’intelletto umano. Il cosmo, filtrato e concretizzato dal modello stesso, esce ipso facto dal novero vaporoso e intangibile delle cose che non si possono dire, diventa pronunciabile. Il modello così si innesta in un percorso ove potrà essere perfezionato, integrato, perfino sostituito con un altro, in una scala che probabilmente – almeno finché esiste la specie umana – non vedrà mai l’ultimo gradino.

Si potrebbe dire, in altri termini, che l’universo è fatto per essere pensato. Per essere pensato è necessario un modello, qualcosa che sia – come dicevamo – lavorabile dalla mente. Del resto, nell’approccio scientifico in senso più vasto, il modello è proprio l’interfaccia necessaria ed insostituibile attraverso la quale possiamo (ri)appropriarci del reale, in senso squisitamente misurabile: possiamo ricondurlo nell’ambito di ciò che comprendiamo. Possiamo pensare un modello come ad una rete di rapporti logici stesa sopra la realtà, che ci guida e ci aiuta nel percorso della sua progressiva comprensione.

Il punto è che – per la prima volta nella storia umana – è come se non avessimo alcun modello di Universo. Per essere più precisi: è chiaro che ce lo abbiamo, in realtà. E’ che non è più patrimonio delle persone comuni, in sostanza. E questo, proprio quando tale modello è così definito ed articolato come non lo è stato mai. Di più, con Einstein il modello cosmologico è entrato a pieno titolo nell’ambito dell’empirismo scientifico, aderendo ai suoi canoni e sposando la sua impostazione ideale, il suo schema di pensiero.

Con questo ha abbandonato definitivamente il territorio del mito, territorio che è stato suo per molti secoli. E’ stato un passaggio certamente necessario, portatore di una grandissima quantità di ricadute pratiche e teoriche. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che insieme ai benefici questo ha portato anche alcuni problemi. Problemi che vanno esaminati: non certo per tornare indietro o per discutere sterilmente la linea di sviluppo della scienza, ma per tentare un recupero di alcuni aspetti del sapere che riportino, in prospettiva, verso una scienza meno tecnicistica ma più organica al sistema umano dei saperi.

Il primo e il più grave dei problemi è stato – come si accennava – il progressivo scollamento dal senso comune delle persone. I modelli mitici di Universo erano – ad un primo livello – tutti facilmente comprensibili, erano assimilabili dalla gran parte delle persone. Erano proprio elaborati per essere comprensibili. Ripeto, non si tratta in questa sede di discutere quanto fossero improbabili (agli occhi moderni), non è questo il punto. Si tratta di vedere quanto, con la loro comunicabilità, potessero facilmente entrare in circolo nelle persone, formare una base di ragionamento e di esperienza comune, costituire un framework entro cui, idealmente, la vita delle persone poteva innestarsi, crescere, prosperare.

Ecco, questo forse si è perso, nell’epoca moderna. L’uomo di oggi, che non sia uno scienziato, guarda con sfiducia e sospetto alla possibilità di comprendere ancora la natura intima del cosmo. Di poter dire una parola sull’universo. Perché di fatto, tale natura – sposando necessariamente un formalismo matematico complesso – è diventato un appannaggio esclusivo di alcuni iniziati, ai quali solo sembra ormai riservata la possibilità di sapere davvero come questo Universo realmente sia.

C’è dunque un urgente bisogno di trasmettere al pubblico più vasto una nozione ragionevole di come pensiamo sia adesso l’universo. C’è bisogno, come primo approccio, di mettere da parte il rigore delle formule matematiche – sempre indispensabile a chiunque voglia incamminarsi verso un serio lavoro di conoscenza e verifica – per sporcarsi le mani con una descrizione in forma di racconto che riprenda il fascino degli antichi miti, rivestendolo di conoscenza moderna.

Descrizione raccontata che sarà sempre e invariabilmente perfettibile, e sanamente incompleta. Da diffondere e raccogliere con grande umiltà e accorta consapevolezza del limite intrinseco di questa processo di traduzione in parole, di declinazione in racconto di ciò che per sua natura si esprime compitamente attraverso il mezzo dell’espressività matematica, chiave di accesso indispensabile per operare pienamente con il modello di riferimento.

Un procedimento sempre sanamente rischioso perché – ad uno sguardo superficiale – assai facilmente assimilabile a tante pulsioni new age che pure tentano di sopperire ad un bisogno reale, quello della comprensibilità del mondo e del nostro ruolo all’interno di esso. Tentazioni che non intendiamo qui demonizzare, ma registrare appunto come evidenza sempre più stringente della necessità di un percorso serio e meditato, da svolgersi con competenza ed accortezza. Un percorso che porti la scienza ad essere ancora raccontabile. 

Perché il racconto, la magica concatenazione di parole che gode di un potere di seduzione antico e potente, è per l’uomo la forma suprema di conoscenza ed insieme di fiducia nella struttura del reale, struttura  che sia ancora comprensibile, ed in fondo, ancora amica.

L’evento delle onde gravitazionali ha messo tutti di fronte al fatto che la gente vuole sapere. Vuole sapere dell’Universo, vuole capire cosa si muove anche nei fenomeni più lontani dalla vita comune, come lo scontro e la fusione di buchi neri giganteschi, che genera queste elusive increspature del tessuto spaziotemporale. Vuole capire e partecipare al destino del cosmo.

E’ dunque una sfida attualissima. Ed è una sfida che noi scienziati non dobbiamo lasciar cadere.

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La pulce che ti rubò l’ombra…

A volte sono troppo pigro perfino per cambiare CD. Il che se ci penso può anche essere un bene. Mi trovavo ieri mattina (in macchina lungo l’Altopiano delle Rocche) a riascoltare un brano che ormai avrò sentito un numero incredibile di volte, una di quelle canzoni con cui praticamente sono cresciuto (considerato che il disco è del 1977…). Perché io non proceda troppo chiuso – direbbe il sommo poeta – specifico che sto parlando de La pulce d’acqua, di Angelo Branduardi. Spesso ascoltavo semplicemente la musica, o seguivo gli arrangiamenti delle varie strofe – sempre diversi – lasciando scorrere le parole come fossero una bella favoletta, quasi  un testo per bambini, senza farci troppa attenzione. Mi sa che sbagliavo. Il fatto che Branduardi piace molto ai bambini d’altra parte dovrebbe convincerci subito di quanto sia serio.

E infatti. Infatti mi perdevo qualcosa. Ieri mattina l’ascolto mi ha spalancato il cervello, di colpo. Un sacco di cose che avevo letto e digerito negli ultimi tempi si sono improvvisamente collegate al testo, illuminandolo. Perché è un testo apparentemente semplice, ma profondo. O perlomeno, è un testo che non ti lega ad un livello di comprensione, ma permette anche che tu scenda in picchiata giù dentro le parole, fino a trovare dei concetti veramente nutrienti. E sempre attuali, perché riguardano la posizione dell’uomo al cospetto dell’esistenza, del reale.
Leggo che il testo si ispira ai miti degli indiani d’america, ma in quanto espongo non seguirò questa strada, certamente valida (di solito il mito ha a che fare con faccende umane interessanti e sempre attuali), ma darò voce alle considerazioni che mi sono venute in mente ascoltando il brano.
Iniziamo dalle prime parole. Dopo la gentile apertura affidata alla chitarra acustica, entra la voce.
E’ la pulce d’acqua che l’ombra ti rubò…
Ecco, inizia subito descrivendo un problema: un furto, un fatto certamente negativo. Una mancanza. Io mi farei quasi ingannare dalla soavità della musica, senza capire che qui si aggancia subito il dramma, il vero dramma (oso dirlo subito) della modernità. Questa strana rottura di simmetria. Ti hanno rubato l’ombra. Ovvero, la consistenza profonda di te stesso, che hai solo nel dialogo con l’ombra, non ti è più permessa. Improvvisamente eccoti, sei confinato su un livello esclusivamente orizzontale. Il terreno di coltura ideale per ogni insoddisfazione, frustrazione, violenza, perché il tuo cuore ha desiderio di ben altro, di altezza e profondità, di una dimensione verticale. Un bel guaio (a dir poco). E secondo la canzone, sarebbe stata appena una pulce… Chi ci avrebbe mai pensato? Un animaletto minimo. Perché le cose apparentemente minime ti avrebbero “punito”? Ossia, perché hai perso il rapporto autentico con il reale, in ogni sua minima declinazione? Azzardo: forse perché non lo valutavi abbastanza? Magari vivevi nel futuro o nel passato, trascurando il presente. Dimenticando che la vita è adesso.
E tu ora sei malato…
Semplice. Tu ora sei malato. E se lo sei, la prima cosa è ammetterlo, anche con te stesso. Già ti senti meglio, vedi? Ammetti la malattia, la debolezza, l’oscurità, il buio. Tu ora sei malato. Smetti di resistere. Vivi anche la malattia, non cercare di farla passare subito. Di passare oltre. Passaci dentro, invece. Tutto avviene per un motivo. Perché ti senti meglio ammettendo la tua malattia (almeno a me capita…)? Perché hai iniziato a mollare, non pretendi più che tutto vada bene così. Porti alla luce le tue ferite, perché il sole le possa risanare…  D’altra parte ogni processo di guarigione, di ricerca di senso del vivere, comporta come primo passo l’accettazione profonda delle circostanze in cui si è: “Se uno vuol venire dietro me, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Matteo 16:24). E’ abbastanza esplicativo: “prenda la sua croce”. Non c’è da scappare da nulla, da censurare nulla.
sull’acqua del ruscello forse tu troppo ti sei chinato…
Andiamo alla sorgente del problema (per rimanere nelle analogie idriche). Ti sei forse chinato sull’acqua a guardarti troppo a lungo? Hai guardato te stesso, hai lasciato che il tuo ego si gonfiasse, divenisse ipertrofico, invece di abbandonarti al flusso della vita? Ti sei fermato su te stesso, chinato troppo su di te, invece di vivere, di abbandonarti, di vivere il momento presente? Hai preteso (magari per un tuo desiderio anche buono, per una intenzione di far del bene) di tenere tutto sotto controllo? Di fare tu, invece che di affidarti, di essere fatto, creato di nuovo ogni momento?
Tu chiami la tua ombra ma lei non ritornerà…
Senza l’ombra non stai bene, l’hai capito. La chiami, la consistenza di te. Hai capito che senza l’ombra non puoi stare, che devi accettare anche le parti oscure, dialogarci. Allora la chiami, la tua ombra, ma lei  no, non torna, non ne vuol sapere. Certo non torna subito, perché non puoi volerla come il tuo ego vuole le altre cose, non puoi volerla senza accettare una trasformazione, senza lasciarti davvero andare, senza cambiare atteggiamento, senza un nuovo modo di vedere il mondo, senza una conversione…
E allora devi a lungo cantare per farti perdonare…
Non puoi avere indietro la consistenza subito. Ci vuole tempo, se non accetti uno sviluppo nel tempo sei nella vecchia logica, parla ancora il tuo ego, che vuole solo prendere, accumulare, per la sua frenetica corsa contro la paura della morte. Invece ti tocca di abbassarti alle piccole cose, per godere veramente di tutto. Devi allinearti al ritmo dell’universo, smettere di resistere: devi cantare. Mollare le pretese tue, allentare la morsa. E cantare. E cantare a lungo, dice la sfrofa. Cioè devi fare un cammino, devi essere disposto a stare su una strada (aspettatevi un cammino, non un miracolo, avvertiva anni fa don Luigi Giussani, e l’invito è valido tuttora, è un aiuto prezioso a stare nel reale nella giusta modalità, ovvero nella modalità nella quale il cuore può essere più lieto). In ultima analisi, il tuo ego si comporta come se con la morte scomparisse tutto, il tuo essere profondo capisce che non è così. E che il cammino può durare tutta la vita, che non si può affrettare nulla, ma che è bello camminare.
E la pulce d’acqua, che lo sa, l’ombra ti renderà.
Se cambi atteggiamento, in profondità, il reale “se ne accorge” (non perché se ne accorga nel senso che noi diamo al termine, ma perché adesso risuona sulle tue stesse frequenze, perché è stato creato così), se sei disposto a vivere la vita così come viene, se sei amico della vita, la vita lo capisce. Dolce è la vita a chi bene le vuole, canta (appunto) il poeta Carlo Betocchi.
Così il reale (le pulci dell’acqua, le serpi dei boschi) è come se rispondesse al tuo mutato atteggiamento. L’ombra ti ritorna, ti viene resa. Non perché sei stato più bravo, più buono, più coerente. No. Non è un problema etico. Ti ritorna perché hai ceduto, hai cantato.
Quindi puoi riprenderti l’ombra. C’è la speranza di poter guarire, abbandonando l’angosciosa  illusione dell’autonomia (Giussani). Salvi così la vita dal semplice trascorrere, investendola di un significato denso, capace di fugare l’apparente banalità di tanti momenti. Perché ogni cosa, ogni situazione contiene una carica di sfida. In ogni momento, devi rispondere. Ora, devi rispondere. Non conta il passato, devi rispondere ora.
Ci stai, a questo cammino? Ti vuoi bene abbastanza, per cercare la consistenza di te?
Ecco, mi fermo perchè sono arrivato ad una  domanda abbastanza fondamentale, che chiama in causa la mia libertà, momento per momento. Dopo questo lavoro sul testo, la canzone finalmente parla per me, parla a me. E tocca argomenti così universali che, immagino, parla anche al cuore di tanti altri. 

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