L’ho detto, per me uno dei modi più efficaci per allargare la percezione della musica, è ascoltarla mentre faccio uno sforzo fisico. Capisco perché un sacco di gente corre con gli auricolari nelle orecchie. E’ che si crea come un circuito virtuoso: la musica mi distoglie dal concentrarmi troppo sulla fatica (che la amplificherebbe senza costrutto) e nello stesso medesimo tempo, la fatica mi permette di ascoltare la musica più libero dallo strato fastidioso di pensieri che spesso – troppo spesso – si mettono di mezzo tra me e  le esperienze sensibili, tra me e la vita.
In casi simili, sembra non valgano le usuali leggi di conservazione: c’è un guadagno globale e non c’è nessuna perdita. In effetti, succede anche per un sacco di altre cose, ma spesso non me ne voglio accorgere. C’è un guadagno totale e nessuna perdita a seguire il proprio cuore (anche se ho paura di farlo), ad accettare ed accogliere tutto quello che accade (idem), a renderci docili al progetto che il Destino ha predisposto per noi (idem, paura fortissima: mobilitazione guerresca dell’ego con tutte le sue armate). 
music
Foto By craigCloutier
Tornando al correre con la musica. Ieri mattina, sceso al parco, ho lanciato il player musicale del mio Xperia Ray e l’ho lasciato sulla selezione casuale di brani. Va detto, di norma non sono un grande fanatico delle selezioni casuali: semplicemente mi sembrano abbiano poco senso, almeno nel mio caso. Nella scheda SD dello smartphone ho musica classica, jazz, pop/rock, e una selezione casuale di brani porta invariabilmente ad una eccentrica sequenza di cose tipo Pat Metheny seguito da un pezzo di chitarra classica seguito da un brano strumentale di Mike Oldfield seguito da una canzone live di Paul Simon seguito da un pezzo di pianoforte di Chopin seguito… avete capito.
E proprio qui sta il bello.

La cosa che mi ha fatto cambiare idea, rovesciare la prospettiva.

Che correndo mi sono accorto con cristallina nitidezza, che la musica è una. Non ci sono distinzioni di genere, non vi sono steccati che funzionino veramente. Ecco, in un certo senso, potrei essere tacciato di scoprire l’acqua calda (che è sempre e comunque una gran bella invenzione, soprattutto l’inverno). Probabilmente i più avveduti se ne accorgono anche stando fermi, lo concedo. A me però succede quando faccio muovere le gambe. Così mi accorgo che la modalità di attenzione che metto nel comprendere un brano di Chopin non è troppo diversa da quella che impiego per godere veramente di un brano di Bill Evans. O anche, di una canzone di Norah Jones. Insomma la musica è una. 

Anzi, come diceva qualcuno, vi sono due tipi di musica. Quella bella e quella brutta.

Qual è la musica bella? Secondo me, è quella che insieme (a) veicola una sensazione estetica positiva, cioè che dice implicitamente che tutto ha un senso e una armonia (che poi è proprio la funzione dell’arte, a mio avviso) e che (b) lo dice regalandoci un certo grado di complessità, una articolata imprevedibilità – cioè esponendo un flusso di informazioni denso e non banale, almeno parzialmente decriptabile dal cervello (a volte, previo ‘allenamento’, ‘studio’). Che tutto questo sia affidato a basso/chitarra/batteria oppure ad un pianoforte solo oppure ad un ensemble jazz oppure ancora ad una orchestra di mille elementi oppure ad un tappeto di sintetizzatori, oppure ancora ad una cantante celtica o ad un cantautore californiano, non fa la vera differenza.
Certo, c’è un certo grado di soggettività in tale definizione. Perché ognuno è stato creato in modo diverso, con una sensibilità differente. Ognuno ha una sua strada attraverso la quale comprendere, attraverso la quale affacciarsi alla percezione del bello. Ecco perché imporre una data visione musicale o una gerarchia codificata di valori forse non ha proprio tanto senso. Perché c’è gente che stravede per Gustav Mahler (per esempio io) e gente che lo detesta. Gente che parteggia per Verdi oppure per Puccini (io scelgo il secondo). Gente che ama i Beatles (ancora io) oppure i Rolling Stones.

Così al di là degli steccati artificiali e anche al di sopra delle costruzioni mentali di molta gente (sopratutto di quella ‘di cultura’), spesso uno si ritrova a procedere (e a correre) con universi musicali ricchi ma estremamente eterogenei. Dalla nona di Beethoven ad Amarok di Mike Oldfield, da Mark Knopfler ai Pink Floyd, e poi attraversando Mahler, Bruckner, Mozart, Brahms, Keith Jarret, Brian Eno…

La luce si diffrange in tanti colori ma è una sola.
Pure la musica, si articola in mille modalità espressive, ma è una sola, in fondo.

Ricomporre lo spettro, risalire dalla differenza all’unicità.
Dalla superficie contingente all’essenza più nascosta.
Ecco l’avventura dell’ascolto. 

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