Blog di Marco Castellani

Mese: Dicembre 2012

La suggestiva semplicità dei Grisembergs

E’ veramente con piacere che ascolto questa seconda prova dei Grisembergs Revival. Un disco solido e maturo, che si muove sulle tracce ben definite dalla loro prima prova, Forgiven, allargando ancora di più – se possibile – il ventaglio di stili e influenze musicali che ha fatto tanto esaltare i critici in occasione dell’uscita del loro primo album.
Curiosamente, mi pare che  in Italia non siano ancora molto noti (qualche rapida indagine tra i miei amici mi ha convinto che nel nostro paese siano ancora pressoché sconosciuti). E’ vero, forse questo peculiare mix di country e di blues vecchio stile forse non è troppo nelle corde dell’ascoltatore italico medio. Tuttavia vi sono diversi pezzi che meriterebbero maggior notorietà, ad iniziare dall’accattivante Please don’t forget my address che tra il malizioso e l’autoironico,  sfodera un riff di chitarra (tutto merito di Cliff Borgstain e del suo personalissimo stile) tanto energico quanto orecchiabile, capace certamente di scalare le classifiche del cuore anche dei più renitenti alla musica d’oltreoceano. Ma tant’è. Va detto con un certo dispiacere che a volte siamo ancora troppo provinciali. Rimane, per i fortunati, il gusto della scoperta di qualcosa di indubbio valore. Da come la vedo io, i sei ragazzotti californiani sono musicalmente dotati e pieni di inventiva, e questo Shadows of forgotten afternoons me lo conferma in pieno.
Devo dire la verità, fosse soltanto per me, probabilmente non li avrei mai scoperti. A volte la vita è strana: vi sono traiettorie esistenziali complesse e imprevedibili, per le quali uno può venire a contatto di una autentica perla, senza che ne possa vantare alcun merito. Un amico mi ha fatto sentire qualche mese fa il loro primo album. In un tranquillo dopocena mi ha offerto un dito di amaro (non troppo amaro) e ha messo su il CD dei Grisembergs. Una folgorazione (il CD, intendo, non l‘amaro-non-troppo-amaro). Arrivato a casa l’ho cercato e subito acquistato su Google Play Music (non mi andava nemmeno di aspettare per farmelo prestare), l’ho masterizzato appena scaricato. E poi me lo sono portato avanti e indietro in macchina. L’altra settimana in pratica ho ascoltato solo quello, e così hanno fatto – giocoforza – i miei passeggeri (a casa non ci vogliono più salire, ormai, nella mia auto). Eh sì. Quando ci vuole ci vuole. Forse hanno ragione i pochi irriducibili detrattori, tutto sommato è musica semplice. Non saprei dirlo. Di certo una ventata di aria fresca, nel fin troppo omogeneo panorama sonoro contemporaneo.
Ma torniamo al disco. Il lavoro prosegue con la frizzante Eyes of a Naked Summer, tre minuti e mezzo di pura energia e di spumeggiante ottimismo. Cliff fa un ottimo lavoro sulle chitarre, ma anche la ritmica non è da meno. D’accordo, il motivo è sfacciatamente orecchiabile – volutamente radiofonico, mi verrebbe da dire – ma non mi dispiace. Non ci vuole un genio per capire che brani come questo possono scalare le classifiche senza troppo sforzo. Vedremo.
Il terzo pezzo di questa prova dei Grisembergs è una ballata molto più meditativa. So much time si affida ad un arpeggio arioso di chitarra e ad una voce calda e malinconica. La ritmica è gentile e non invasiva. Le parole sgorgano come un pacato lamento, capace di toccare le corde più segrete di ogni cuore sensibile (e anche meno sensibile, se ascoltata a volume ragionevolmente alto). Kelly Rogers canta con ispirata delicatezza.

I’ve spent so much time looking for you, my darling.
I thought I’d found peace in your warm brown eyes
I’ve spent too much time looking for you, honey
And since you’ve gone my heart can rest no more
I’m lonely, in this cold long winter
Won’t you please come back, sweet love of mine?

Segue una curiosa parentesi strumentale, un brano lungo che supera di poco i dieci minuti, Faraway morning, in cui una delicata struttura armonica decisamente blues viene innervata e arricchita da una struggente linea di violino (qui marcatamente elettrificato). Va detto come per l’occasione la band si sia avvalsa della preziosa collaborazione di Jonathan Much, un autentico virtuoso dello strumento, celebre nella West Cost anche a in seguito della partecipazione – a suo tempo – al ben noto Deja Vu di Crosby, Stills e Nash. Sono pezzi come questo che a mio avviso manifestano la limpida volontà del gruppo di distaccarsi da taluni stereotipi di genere, per osare qualcosa di diverso e decisamente inconsueto (da notare negli ultimi due minuti il curioso e piuttosto ardito impiego del Flauto di Pan, che si unisce assai efficaciemente al violino in un complesso gioco di echi e contrasti).
Il CD prosegue poi con alcuni pezzi decisamente più convenzionali, anche se suonati sempre con l’inventiva tipica del gruppo. Troviamo un paio degli immancabili standard, come While you’re away, il famoso e ultraeseguito pezzo di Jackson Rogers, che però qui acquista una coloritura più energica, quasi rock. Reflections of you di Paul Smith, altro inossidabile classico, è giocato su un tempo decisamente lento, e l’uso (qui decisamente inconsueto) del sitar lo trasforma insospettabilmente in un brano dal sapore quasi indiano, arricchendolo di un alone di etereo misticismo.
Probabilmente il pezzo che è destinato a rimanere più impresso, almeno al primo ascolto, è però quello che chiude l’album, My hearth, exposed. Qui sicuramente la barra del timone punta più lontano, la ritmica si fa più complessa (significativa la partecipazione di Bob Greys, il celeberrimo batterista jazz), l’impasto strumentale è percettibilmente più elaborato – rispetto ai canoni del blues o del country ma anche rispetto allo stesso primo disco dei Grisembergs. Anche il testo del pezzo sembra un tantino più meditato rispetto ai canoni della band. In luogo della consueta celebrazione dell’amore, o della nostalgia, della lontananza da casa, tema di molte delle loro canzoni (e dello stesso genere country, bisogna ammettere) , nei quasi nove minuti di My heart, exposed si fa strada una riflessione che non esiterei a definire esistenziale e quasi metafisica. Colpiscono in questo senso le ultime parole pronunciate da Rogers quasi in recto tono sul tappeto fine e delicato delle chitarre acustiche e della ritmica leggera. Difficile spegnere il lettore senza che le tali parole continuino a riverberare nella testa, degno coronamento di una opera – a mio parere –  destinata a durare nel tempo.
And after all
all in all as it could be
do you know, honey did you know
that it’s just a joke
yes honey, just a joke
And under the sun,
you’re certain by now
that this song do not exist
and this album does not exist too…
And honey, how can I say
you know, I’ve no secret for you
my heart is exposed.

(all’ascolto notate, vi prego, il sapido gioco di basso e batteria sulle parole chiave del pezzo, my heart is exposed)
You know the truth, by now. 
This band does not exist
Yes honey, it was just a joke
You know, baby, just a joke.

Siamo d’accordo, potrebbero sembrare cariche di una malinconia quasi eccessiva, soprattutto le ultime strofe. Tuttavia il pessimismo del brano (se di vero pessimismo si tratta) non convince, mentre le parole stesse rimangono come sospese nell’aria, al termine del CD, come prolungando misteriosamente l’esperienza già appagante dell’ascolto. Così uno spegne il lettore, mette il disco nella custodia,  torna alle occupazioni consuete.
E intanto, continua a trattenere nella mente la mirabile sequenza di chiusura… Just a joke,  just a joke …

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Vuol dire nascita

Mi è venuto in mente l’altro giorno, mentre accompagnavo Paola in giro per negozi. Sì, perché non scrivere un racconto per Natale? Beh c’erano davanti appena un paio di giorni, avrei dovuto mettermi al lavoro subito. Ma cosa scrivere? Di una cosa ero sicuro, non volevo affrontare il Natale in senso diretto, enunciativo. Volevo come toccarlo di striscio, come sorprendere una sua intersezione nella vita ordinaria.

Natale
Crediti: Marina Salomone su Flickr
Perdonatemi, ma lo dico: in un certo senso mi sembra vi siano in giro troppe parole, sul Natale. Come cristiano avverto un disagio, come un rischio che le parole scorrano in una strada bella larga ma superficiale, senza il “rischio” che possano entrare dentro a muovere qualcosa, senza che inducano all’avventura del significato. 
Come disse Luigi Giussani nel 1987, “ciò che manca non è tanto la ripetizione verbale o culturale dell’annuncio. L’uomo di oggi attende forse inconsapevolmente l’esperienza dell’incontro con persone per le quali il fatto di Cristo è realtà così presente che la vita loro è cambiata. È un impatto umano che può scuotere l’uomo di oggi: un avvenimento che sia eco dell’avvenimento iniziale, quando Gesù alzò gli occhi e disse: “Zaccheo, scendi subito, vengo a casa tua”

Allora volevo manifestare questo, come qualcosa che accade quasi di nascosto. Qualcosa che è per tutti, indipendentemente da quello che uno crede o spera, perché sempre può essere sorpreso. Anzi spesso chi si figura di essere a posto dal punto di vista spirituale (come se fosse una questione di avere una tessera, e non fosse la vertigine dell’apertura del cuore!) è proprio l’ultimo disposto a farsi sorprendere.
Così il Natale credo ci sia nel mio racconto, come apertura e possibilità. Lo lascio alla vostra lettura,  insieme con i miei auguri: spero che vi piaccia e vogliate accettarlo come il mio piccolo regalo per il Santo Natale 2012.


Vuol dire nascita.

Alla vigilia di Natale era tutto per aria, completamente in aria. Carla era andata, stavolta lo aveva fatto davvero. Un punto all’orizzonte che non si sarebbe più avvicinato, mai più. Una serie di consuetudini strappate via, di contatti brutalmente interrotti. Con una decisione che brucia via ogni attesa, elude ogni eventuale ritorno.

Era la mattina del ventiquattro e Alessandro non aveva risorse diverse dal guardare il tempo fluire via, senza poter intervenire… (leggi tutto il racconto)


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Come un perpetuo inizio

Finisce il mondo.

E ricomincia.

Ricomincia quando uno sorride, accetta il limite, stringe la mano, si mette su un progetto, perdona, rischia il ridicolo per una cosa a cui tiene, pensa che non è poi così male, pensa a quello che ha e non a quello che gli manca. Pensa che non merita tutto il credito e l’affetto che gli viene dato, ma va bene, va bene così, non è una roba a guadagno zero questa. Pensa al sorriso delle donne, all’amore della sposa. Pensa che anche quando non si capisce nulla è bello essere qui. Che fantastica storia la vita.

Landscape

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Marciapiede

Ci sono cose apparentemente banali che nella propria esperienza capita di veder piano piano scomparire, senza che la cosa sia stata minimamente messa a tema. Così l’esperienza di camminare su di un marciapiede, che pure ha fatto tanto parte della mia vita, è come andata assottigliandosi pian piano dal mio orizzonte quotidiano, senza che me ne rendessi conto, senza che ne fossi consapevole.
Al solito, me ne accorgo quando mi capita di nuovo. Un sabato mattina che andiamo a piedi al mercato. Una domenica che esco a prendere il giornale. Allora la cosa che mi sembrava il massimo dell’ordinario, mi colpisce come una novità. Camminare su un marciapiede è intanto una attività molto più sociale di quanto può essere spostarsi in automobile. Anche più democratica, dopo tutto: camminiamo tutti allo stesso modo, più o meno. Mentre la BMW che ti sorpassa in un rombo mentre tu arranchi in una sgangherata utilitaria, dice al mondo qualcosa di univoco ed inequivocabile, sullo status del sorpassato e del sorpassante.
Ma ecco, è proprio la socialità potenziale inerente al marciapiede che più mi colpisce. Mentre cammini sei esposto, sei in potenza di una serie di contatti e di incontri, di sorprese (piacevoli o no). Vedi e sei visto, non sei nascosto come nell’abitacolo di una macchina, dove guardi e quasi non sei visto. In strada sei anche troppo esposto, per i tuoi gusti postmoderni. In auto forse ti senti protetto, mentre se in realtà sei isolato.

MARCIAPIEDE
Sempre in cammino…
Infine, c’è il fatto non trascurabile di camminare. Ti arriva palpabile l’evidenza che ogni obiettivo – geografico, in questo caso – che vuoi raggiungere implichi strutturalmente un percorso, un tempo. Non arrivi subito dappertutto, devi metterti in cammino. Non hai la (pericolosa) tentazione di spingere sull’acceleratore per questa strana autodistruttiva pulsione, di azzerare l’attesa, di correre verso la prossima cosa. Sei sul marciapiede e devi camminare. Certo puoi correre, ma soltanto per brevi tratti, altrimenti ti stanchi. E ti fermi.
Se mi guardo vivere, mi sorprendo in azione, mi scopro desideroso di ottenere quel che voglio, fosse un oggetto o una condizione di maggior maturità spirituale, senza camminare, come azzerando l’attesa. Come cercando di svicolarmi dalla necessità di un percorso, di un cammino.
“Aspettatevi un cammino, non un miracolo” avvertiva Don Giussani, con paterna attenzione e premura. Non possiamo pretendere un miracolo, dobbiamo lavorare su noi stessi, affezionarci a noi stessi, rimetterci sempre in cammino dopo ogni deviazione.

Specifico: non ci credo al fatto che l’importante è viaggiare, indipendentemente dalla meta. Credo però che ogni meta veramente seria (a parte casi straordinari) implichi un viaggio, che è anche interiore. E ogni fioritura implichi un’attesa.

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Scrittore

Se ti comporti da scrittore, lo sei. Uno scrittore fa questo, scrive. A prescindere dal fatto che venga pubblicato, oserei dire. Sì, perché poi la vocazione trova comunque un suo sbocco, una sua strada. L’importante è che tu non decida di bloccarla (cosa che ti potrebbe costare un bel pezzo di salute psichica, ovviamente).
Così capita che si vada, come domenica mattina, al centro culturale a vedere il presepio allestito dalla pittrice, tua parente acquisita. Capita anche che lei sia una tua entusiasta lettrice. Davvero, entusiasta. Che il librettino di poesie che le hai regalato abbia subito una circolazione ben più vasta di quanto si pensava. Che te ne chieda insistentemente altre copie, per poterlo regalare a Natale ad alcuni suoi amici.
Capita che entri nel centro e vieni presentato come lastrofisico scrittore (non me voglia la mia amica Licia Troisi), che ti si chieda se sei disposto ad un incontro. E tu dici sì, certo. Ti viene spontaneo. Ed è vero. E ti senti tranquillo e a posto, nel rispondere a queste cose. Non senti sforzo, finalmente, non devi adeguarti ad essere qualcuno o qualcosa. Non hai modelli da tener presente. Ti viene naturale essere attento e gentile. Forse perché sei te stesso, finalmente. Sei riconosciuto per quello che senti di dover fare. E la cosa ti porta una bella pace interiore, una maggiore capacità di gestire le circostanze, un senso dolce di stare facendo quello per cui sei al mondo.

the writer
Scrivere, è fare amicizia con il reale
nel modo in cui ci è stato richiesto.
Sono ormai diverse le situazioni in cui il semplice fatto di scrivere ha fatto la differenza. Occasioni di incontri, di rapporti, di conoscenze, in cui aver dato voce a questa tensione interna – peraltro difficilmente ignorabile – mi ha di fatto portato su percorsi differenti e migliori.
Poi è come se uno si scavasse un posto nell’universo. La gente prende atto che scrivi, magari apprezza quello che fai, e si aspetta naturalmente che tu faccia questo (se lo fai per mestiere o no, è assolutamente inessenziale). Gente che non si sognerebbe mai di scrivere, probabilmente, sa che tu lo fai e si aspetta di leggere qualcosa da te. E’ come se avessi occupato quel posticino. E da quel momento fosse naturale che tu lo tenga occupato. Nella sola maniera possibile, scrivendo.
Ecco, lo vedo, quel posticino. C’è una targhetta, lì sopra. C’è scritto, scrittore.

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Sogno (dunque son desto)

Ecco una parola decisamente interessante. Sogno è quello che si fa quando si dorme, e in questo senso ha il particolare sapore di una cosa quanto mai fatua, brillante forse ma inconsistente, senza vera sostanza. Oh, ma era soltanto un sogno, viene da dire. Poi si sa bene, nei sogni accadono le cose piu strane possibili, non si può mica pretendere abbiano il minimo aggancio con la realtà.
E questa è una cosa. Poi c’è altro. C’è la cosa davvero interessante. Il sogno come espressione di una chiamata, di una vocazione. Siamo fatti tutti in modo diverso, quello che va bene ad uno non va bene all’altro. Non posso decidere cosa fare della mia vita sulla base di quello che fanno i miei amici, mia moglie. Devo decidere cosa fare sulla base dell’ascolto della mia vocazione. Lo ripeto, perché a me ha preso molto tempo e anche sofferenza il capirlo: io – come essere umano – non ho mai veramente il problema di decidere cosa devo fare nella vita. Io ho soltanto il problema di assentire, lasciarmi andare, a quello che è stato deciso per me (che devo leggere anche attraverso le circostanze), oppure resistere. Non fare resistenza vuol dire inserirsi in maniera gentile nel flusso delle cose, e implica necessariamente ascoltare con attenzione i propri sogni, le proprie aspirazioni. Un bel libro al proposito è I sogni dell’anima, di Valerio Albisetti, ma mi ha molto colpito anche il libro (in inglese) Ten Billions of Dreams, di Ralph Marston.

Oil on canvas "Dream Girl."
Ascoltare i propri sogni è un lavoro per la vita…

Torno un momento al punto. Questa è una cosa interessante, per me. Ci sono arrivato relativamente da poco. Prima ritenevo che fossimo come contenitori riempibili da qualsiasi cosa, più o meno. Sulla base di un imprecisato ragionamento, una analisi di costi/benefici, diciamo, uno avrebbe potuto tranquillamente scegliere di cosa occuparsi. Ora molti fatti esterni e interni, diverse letture, mi hanno fatto capire quanto sbagliavo. Grazie al cielo, perché siamo unici e ognuno ha dei sogni da realizzare. La prima cosa allora è crederci. Questo è tutt’altro che immediato perché venire a contatto con la propria unicità universale può far paura. Seguire un sogno è uscire dalla propria zona di conforto, dove ci adagiamo e dalla quale spesso ci lamentiamo di questa e quella situazione, senza agire. Eppure siamo importanti, decisivi nell’intero universo. Siamo il punto focale in cui, in un certo senso, la creazione viene a conoscere se stessa, acquisisce consapevolezza. Attraverso di noi passano le cose che “devono” essere fatte. I romanzi da scrivere, le canzoni da creare, tutto, fino ad ogni lavoro fatto con passione. Chi ci ha creati ha dato un compito ad ognuno di noi, e la cosa importante allora è appena fare spazio. 
Fermarsi ed ascoltare i propri sogni. Intraprendere passi verso la loro realizzazione, senza spaventarsi per quanto tempo ci possa volere, se ci sentiamo inadeguati, se non ci sembra di essere in grado… E’ una rivoluzione possibile e rinnovabile ogni momento. Possono passare anni e anni prima di rientrare in contatto con i propri sogni, ma questi, se sono veri, ti tornano sempre a trovare. Ogni volta che ho chiuso la porta ai miei sogni si è aperta una voragine piena di disagio. Si sono accese tutte le spie lampeggianti rosse, come se dal profondo si diramasse un messaggio di massima allerta, su verso la superficie. Qualcosa in me usava tutti i mezzi a disposizione per scuotermi, farmi tornare in me. Come dire, se non  posso scuoterti con niente ricorro al disagio, sempre meglio questo che tu smarrisca la tua strada.

Riflessioni personali e diverse letture mi danno motivo di ritenere che buona parte del disagio sociale e dello scontento è dovuto al fatto che le persone hanno chiuso la porta ai propri sogni. Magari per tante (apparentemente) “buone” ragioni. Come ho fatto io tante volte. E l’ho pagata, ve lo assicuro. E se serve a farmi tenere la porta aperta alle mie profonde aspirazioni, sono anche assai contento di averla pagata.

E’ curioso, ma qualcosa in me agisce e le cerca tutte per non farmi allontanare dai miei sogni (uno dei quali certamente è scrivere, come sto facendo adesso). Anche a costo di scatenare i peggiori disagi. Devo dare ascolto ai miei sogni, o prima o poi finirò a vivere imbottito di psicofarmaci. E non si bara. Posso scrivere anche cinque parole nei momenti in cui sono più occupato, ma l’anima se ne accorge, se baro o se sto camminando nel mio sogno. In una cosa che non ho deciso io, ma alla quale evidentemente sono stato chiamato.

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