Visto il coro unanime di consensi devo dire che nel discostarmene sono un po’ imbarazzato. Anzi ieri sera ero abbastanza avvilito di non riuscire a pensare come gli altri. Gli amici, le recensioni, i contatti su Facebook. Tutti erano entusiasti per lo show di The Wall con Roger Waters all’Olimpico, ieri sera.
Certo motivi di entusiasmo ci sono, assolutamente. Intanto l’impatto visivo. Favoloso. Ineguagliabile. Entri all’Olimpico e lo vedi subito, questo grande muro che unisce i due lati della curva sud. C’è un varco davanti al palco vero e proprio. Poi durante il concerto scopri che viene pian piano chiuso anche quello. Il muro viene costruito proprio mentre suonano. Ero in curva nord, decisamente lontano dal palco (anche questo magari non aiuta una valutazione obiettiva), e mentre aspettavo l’inizio, rendendomi conto della scala delle distanze in gioco, paventavo una fruizione veramente minimale dello spettacolo. 
Su questo, ecco, mi sbagliato. Perché il muro stesso faceva da gigantesco schermo dove venivano di volta in volta proiettati i primi piani di Roger o degli altri interpreti, sequenze video, cartoni, e altri effetti, a volte decisamente suggestivi. 
Eppure dovessi dire che sono stato preso dall’entusiasmo, no, non ci riuscirei.

wall
Un muro, un’idea, un concetto…
(CC by marcel_borsboom on Flickr)
Aspettavo le recensioni sui giornali oggi, ma non vedo traccia delle mie perplessità. Allora provo a ragionarci, per cercare di capire se sono motivi oggettivi o legati ad uno stato psicologico personale. E ci ragiono nel modo che mi viene più consono, scrivendo.
Cosa non mi è piaciuto? Intanto non è un concerto, ma uno spettacolo. L’enfasi non è sul suono, ma sul mix – spesso geniale – di effetti sonori, musica, video, animazioni, effetti speciali. Spesso non si vedono nemmeno le persone che suonano o cantano (io ho un sospetto di playback, ma magari mi sbaglio: mi dicono che era solo la mancanza di sincrono tra audio e video). In ogni caso, il suono è funzione di altro, è al servizio di altro.
Perché il mio coinvolgimento è stato parziale? Devo scavare nel profondo dello scorso secolo, per capirlo…
Il concept del muro è della fine degli anni ’70. A ripensarci è veramente un album che apre il decennio successivo come pochi altri avrebbero fatto. C’è già tutto – ogni grandezza e ogni limite degli ’80, è già lì. La genialità di certe orchestrazioni insieme con la piattezza quasi ideologica di certe altre, drastico e definitivo saluto alle sperimentazioni del rock progressivo che tanta parte ebbero nel decennio precedente. Così Another brick in the Wall Part Two è quanto mai lontano dalle suggestioni di Echoes, è sequenzialità semplice e dichiarata. 
Che il concept abbia più di trent’anni mi sembra che si possa avvertire traversandolo da vari angoli. Anche nella sottile e pervasiva denuncia dello straniamento prodotto dai mezzi di comunicazione, lo avverto come una cosa obsoleta. In The Wall la televisione è simbolo privilegiato di distrazione/alienazione da sé stessi, dalla ricerca di significato
Got thirteen channels of shit
on the TV to chose from

 Il rumore bianco e gli infiniti canali che appaiono ogni tanto sul muro, l’idea di un aggancio disperato con una realtà che si mostra aliena al cuore. Non ci pensiamo, ma è tutto simbolo di un’era passata. L’era pre-Internet. Oggi probabilmente non ci avrebbe sfigurato un riferimento a Facebook. Al telefono si aggrappa il tentativo frustrato di connessione con un altro essere umano, per sfuggire alla schiavitù del potere e alla sua alienazione. Pink chiama ma non trova mai nessuno in casa.
When I try to get through
On the telephone to you
There’ll be nobody home

Non c’è nessuno a casa. A casa? Oggi il protagonista, Pink, proverebbe a contattare la moglie direttamente al cellulare. Così come l’idea di sedere aspettando vicino al telefono, è definitivamente una immagine del passato.
Hey you! out there on your own
Sitting naked by the phone, would you touch me
Questo non è un limite, o forse sì. C’è come un’idea di congelamento di una buona intuizione, una volontà di non sviluppare oltre, di riprodurla uguale a se stessa. Ecco, forse il mio fastidio è questo. Non assisto ad un evento, cioè a qualcosa che interviene nel mio punto di spazio tempo rendendomi spettatore di una cosa unica e irripetibile, con un suo specifico carattere. E’ come un gigantesco (e geniale e sicuramente costosissimo) contenitore di melodie, ritmi, rumori,  immagini, capace ormai di autoreplicarsi uguale a se stesso in diversi posti e diversi tempi. Ieri a Padova, oggi a Roma. Domani a Vienna. Non è aperto al fluire del tempo, non è influenzabile dal luogo.
Anche la musica. Le elaborazioni rispetto al disco di trenta anni fa sono veramente minime e quasi sempre secondarie. E’ tutto così, come è stato registrato allora (con poche e rimarchevoli eccezioni, come l’interessante rifacimento di Outside The Wall alla fine). Cioè il punto non è la musica, è l’idea. O l’apparato ideologico. Che purtroppo assorbe di ogni apparato ideologico anche la impermeabilità al reale e alla sua complessità cangiante.
Che poi, diciamolo, pure questa condanna della società consumistica, che pure ci va tutta, se pensi che passa attraverso le modalità espressive della medesima, a volte ti può dare sui nervi. Cioè, critichi il sistema essendo integralmente parte del medesimo. La sensazione è di una specie di entità liquida che incorpora in se stessa anche un (apparente) dissenso, come dire non ti manca niente. Se vuoi protestare, eccoti qui servita anche la protesta.

Così l’ambiguità presente nel disco originario non viene sanata ma congelata in una reiterazione perpetua, in irrisione anche del trascorrere degli anni. La dolorosa domanda che viene fuori da alcune canzoni, l’apertura a qualcosa di altro, intravista e poi obliata, come in quella che è la frase più bella e vera – per me – di tutto il lavoro
When I was a child
I caught a fleeting glimpse
Out of the corner of my eye

C’era qualcosa che ho intravisto da piccolo. Non sono riuscito ad afferrarla, ma c’era.

I turned to look but it was gone
I cannot put my finger on it now
The child is grown
The dream is gone
And I have become
Comfortably num
Qui sento finalmente l’umano. Ecco, quello che ho intravisto ho deciso fosse un sogno. Ho rinunciato e sono diventato piacevolmente insensibile. Qui si vede l’umano di fronte alla vertigine della decisione. Una decisione per l’esistenza, non una decisione teorica, accademica.
Questo fleeting glimpse, questa fugace visione, era un sogno o no? Come mi rapporto a quello che ho provato? Ecco dove si gioca la libertà dell’uomo, in ogni momento. Ecco dove brilla l’umano, ora e sempre. Di fronte a questa libertà davanti alla quale l’universo stesso sembra inchinarsi…
Ecco, questa vertigine convive con immagini da manuale di psicologia di seconda mano, come il gioco di mutamento continuo tra le figure oppressive femminili moglie/madre, con il trito cliché della prima che al momento topico del processo si trasforma nella seconda; dove il rimprovero tu non mi hai mai parlato abbastanza si trasforma in un abbraccio materno assai più soffocante che protettivo. Una moglie/madre che non introduce il figlio ad avere fiducia nel mondo, ma con uno strato di protezione esasperante lo aliena ancora di più.
Oppure il rapporto con l’altro sesso, nel gioco inquietante dei fiori che si avvicinano e si uniscono – metafora scoperta dell’unione sessuale – dove l’attrattiva iniziale che si trasforma rapidamente in accerchiamento/oppressione. 
Oppure ancora, lo sbrigativo Ehi Teacher, leave the kids alone. “Professore, lascia stare i bambini.” Sei solo un mattone nel muro. Educazione uguale repressione, rinnovata alienazione, allontanamento da un mondo ideale e (si suppone) spontaneo.
Ecco, questa provocazione degli anni ottanta non viene elaborata, ma viene ancora adesso propagata (quasi) uguale a se stessa. Non basta un accenno alle vittime di moderne ingiustizie per regalare una ventata di novità. Tutto quanto abbiamo visto ieri era in fondo già stato detto nel disco e nel relativo film di Alan Parker.
Pensavo ieri, invece di tutto questo apparato multimediale al servizio (mi pare) di una staticità asettica, mi sarebbe piaciuto di più un tentativo più estremo, che mettesse in luce alcuni aspetti dell’opera, magari trascurati. Chessò, magari una elaborazione unplugged, una rivisitazione in forma acustica. Il materiale secondo me lo permetterebbe, e sarebbe – quella sì – una nuova avventura… 
L’arte è perennemente sovversiva dell’ordine costituito, perché apre alla novità e alla capacità di stupirsi, mettendo in discussione nozioni date per acquisite. Ma l’arte presuppone uno sguardo vigile e attento, non una perpetua ripetizione. L’arte impara dal reale, non vi si sovrappone. Perché nel reale c’è sempre molto di più di quanto possiamo immaginare, e l’unica cosa, è rimanere aperti. A venti anni come a settanta.

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