Così più ci sbatto il muso, più ripercorro certe canzoni, certi album, più non capisco, rischio di non capire. Più ci studio meno ci capisco. A volte è così, a volte l’analisi minuziosa dei fattori non ti aiuta. Anzi. Ti butta di più ancora nella confusione. Una meravigliosa confusione, in questo caso.
Perché è questo il punto. I Beatles – i celebri scarafaggi che hanno rivoluzionato la musica dagli anni ’60 in poi – li conosciamo tutti, d’accordo. E siamo abituati a catalogare le loro canzoni in un certo modo, in un certo ambito. Siamo furbi, in un certo senso: non ci facciamo sorprendere, non ci caschiamo nella sorpresa. Siamo vaccinati contro gli entusiasmi a buon mercato. Siamo persone consapevoli, dopotutto. Siamo adulti, dopotutto.
Questo è certamente ragionevole, da un certo punto di vista. Eppure qualcosa rimane fuori. Qualcosa non si riesce ad inquadrare, organizzare, catalogare. Qualcosa rimane con un suo carattere irriducibile di meraviglia. Una meraviglia che sembra localizzata, individuata e individuabile. Diciamo pure, catalogabile. Ma che straborda, invece. Senza alcun senso di economia, straborda.
Ho seguito il ciclo di lezioni sui Beatles dei giornalisti Ernesto Assante e Gino Castaldo, all’Auditorium Parco della Musica. Iniziato l’inverso scorso, si è protratto fin quasi all’estate. E’ stata una bella esperienza. La mia considerazione del quartetto di Liverpool è cambiata totalmente. In meglio.
Però volevo dire questo. A tutte le lezioni sono andato con interesse, con curiosità. Ogni lezione era centrata su un album diverso: dall’inizio alla fine della loro esperienza, sono stati analizzati tutti. Eppure c’è stato un momento. Un momento particolare. C’era una lezione, su tutte, che aspettavo. Che non avrei voluto perdere per nessun motivo al mondo.
Esatto. Proprio quella. Abbey Road.
Lo aspettavo praticamente dall’inizio. Tutto aveva senso perché c’era questo retropensiero, saremmo arrivati ad Abbey Road. E quando è finalmente arrivato il momento, ero emozionato. Sì, quel giorno ero emozionato. Ero emozionato mentre mi recavo all’Auditorium, emozionato come un bambino, avevo addosso il senso preziosissimo di vivere un evento. Non era una cosa tra le tante, tra le tante cose che si possono fare. Non era una normale cosa della giornata, che si fa e poi si pensa ad altro. Oppure, peggio, si pensa ad altro mentre la si fa.
Era una cosa diversa, una cosa speciale, una cosa unica. Era ragionare intorno ad un mistero, riunirsi attorno ad un mistero, farlo brillare, lasciarlo espandere, dedicargli tempo, attenzione. Non da solo, tutti insieme. Come potrebbe essere, chessò, una esecuzione della Nona di Beethoven, della Settima di Bruckner (ora ci sarà chi storcerà il naso, ma non sto mettendo le opere in ordine di importanza, che probabilmente non esiste nemmeno, o se esiste è indietro rispetto a ciò di cui parlo). Ecco il punto, il vero punto: ci stai davanti e sono dei misteri.

Abbey Road, London
Abbey Road in tempi più recenti
(Crediti: adam arseneau su Flickr, CC)

Questa cosa è troppo importante, devo cercare di spiegarla, di scriverla. A costo di essere parziale, imperfetto. Inadeguato, perfino. Devo farlo.

Il reale – non in sé ma per come scegliamo di percepirlo – avvolge il mistero e cerca di neutralizzarlo, cerca di riportarci alle cose comuni, tranquillizzanti, consuete. A rischio dell’aridità, magari.  Ci costruiamo un territorio noto, cerchiamo le cose conosciute, allontaniamo la meraviglia, un po’ alla volta, fino a meravigliarci che … non ci meravigliamo più! 

L’operazione comunque non funziona al cento per cento, ha degli strappi. Del resto non puoi stare tranquillo davanti ad Abbey Road. Non te ne dai ragione, semplicemente. L’analisi dei singoli fattori, lo strutturalismo più esasperato, non rende nulla. Smontare i pezzi ti fa soltanto capire che quando li monti insieme c’è di più, molto molto di più dei singoli pezzi. Come in ogni opera d’arte. Come ogni opera d’arte, porta dentro un mistero che sfugge ad ogni analisi, ad ogni riduzione. Porta addosso una irriducibilità esasperata.

Scavare dentro la vita degli artisti, se pur interessante, è alla fine ugualmente frustrante. Non dà ragione, non spiega. Arrivi giù fino a trovare gente comune, con lati belli e lati brutti, arrivi a uomini. Che forse hanno – questo sì – il guizzo geniale di non censurare la propria umanità (diventando perciò stesso creativi).

Roba così. Roba che tu provi in tutti i modi a disinnescare la meraviglia: non è che lo fai con deliberata cattiveria, diciamolo, in fondo ti farebbe comodo, no? Solo questo: ti farebbe comodo che non ti scomodasse. La meraviglia ti scomoda, ti rimette in corsa, non è roba da pantofolai.
Non è questione di biasimarsi. Non è così strano, ammettilo. Hai delle idee sulla vita, sulla morte, sull’arte, sull’uomo. Sull’universo. Ci hai messo anni ad ottenere una posizione su questo, una posizione che magari ti pare stabile. Tutto sommato ti va bene, almeno per ora. E non è che ora un semplice disco pop/rock ti può venire a sovvertire tutto, no? Non è che questo senso di meraviglia e mistero ti faccia correre il rischio di farti sentire ancora provvisorio, non sistemato… ovvero ancora vivo. 

Perché a volte – mi pare – è comodo dire di essere vivi e in realtà non esserlo. Essere tanto ricoperti da strati di consuetudine e buone maniere (condite con una certa moderata ed educata delusione, molto moderna e in quella forma da salotto che perdipiù non infastidisce, ed è abbastanza gestibile, almeno in pubblico). Non è che sei disposto a farti bucare tutti gli strati protettivi messi sù in anni ed anni, da un disco rock di quattro ragazzetti degli anni ’70, dopotutto. 
Dopotutto hai le tue idee, non sei sprovveduto. Sì d’accordo, il genio pazzo, la libertà, ma poi l’irresponsabilità, ma poi le droghe… si sa come sono gli artisti, si sa cosa gira intorno al mondo della canzone. Hai insomma tutto questo bel bagaglio di nozioni e giudizi e pregiudizi, che dovrebbe funzionare abbastanza bene nello schermarti dal rischio di meraviglia e stupore. Così, rischi poco, in fondo. Ti aspetti poco e rischi poco. E ti credi furbo e moderno nel tuo rischiare a scartamento ridotto. E invece, fattelo dire, ti perdi il meglio.

L’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere sempre intensamente il reale (Luigi Giussani)

L’hai letto e riletto, sei d’accordo, ma spesso fai altro. Spesso dimentichi. 

Poi però – grazie al cielo – in ogni istante, può saltare tutto. Nonostante tutto, salta tutto. Qualcosa fa saltare il banco quando meno te lo aspetti, il tuo gioco a sponda ridotta viene spazzato via. Ti senti vivo come tutto un mondo di finte gentilezze e rifinite cortesie non ti facevano più sentire. Vivo! Non sai come o perché, ma sei a contatto con il cuore. Con la parte grezza emozionale profonda, insieme con la complessità articolata, che delizia il cervello. Tutto insieme, ti fa palpitare.

Che poi diciamo c’è questo, del disco. Ti prende dall’inizio, siamo d’accordo. Ma lo fa con garbo, lentamente. Dopotutto Come Together può essere fin troppo lennoniana, puoi metterci un po’ per entrarci (ora cerco di smettere di dire che è geniale, dovrei usarlo troppe volte). Ma poi entri. Something segue a ruota ed è forse una della cose più belle uscita dall’estro dei quattro di Liverpool.  Vai avanti e finisci il primo lato con I want you. E tu ormai sei cotto. Completamente catturato. L’inizio del secondo lato non ti fa più stare nella pelle. Non ha senso nemmeno speculare sui singoli brani, non ha più senso frammentare, analizzare, ormai. Aspetti giù il medley che occupa tutta la lunga parte finale. E’ un caleidoscopio di stili e di trovate, non hai tempo di respirare che veramente sei come sovrastato. Creatività incredibile e precisione geometrica ineguagliabile. Ogni suono, ogni rumore, è lì dove dovrebbe essere. Ed è sorprendente, sorprendente la libertà gioiosa di questi quattro, sorprendente pensare che correva l’anno 1969 …
No, rinuncio a fare un resoconto puntuale del disco. Nun je la fo. Perdonate, recensioni ne troverete dovunque. A me piace tornare a questo senso di mistero, a questa bellezza che fa pulsare il cuore. Fa quasi piangere di gioia. Sleep pretty darling do not cry…

E così è stato. Ho sbattuto di nuovo la testa davanti ad un mistero. Non so se è così per tutti, forse nemmeno mi interessa. Questo mi pare di sapere, che comunque per tutti c’è qualcosa che frantuma la corazza, spazza via le protezioni, fa sentire improvvisamente vivi. Può essere un attimo, un momento, una sera quasi magica (come quella che ho vissuto io all’Auditorium), ma c’è e può tornare sempre, quando meno ce lo aspettiamo.

Può tornare a ricordarci che abbiamo un cuore, e che ascoltarlo può essere il lavoro della vita. Un lavoro che, comunque, non andrà sprecato.

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