Blog di Marco Castellani

Mese: Febbraio 2020

Chissà chi lo sa?

Si chiamava proprio Chissà chi lo sa? e può darsi che qualcuno tra i lettori non proprio giovanissimi ancora se lo ricordi. E’ stato infatti un programma televisivo per ragazzi trasmesso negli anni sessanta sul Programma Nazionale (oggi diremmo su Rai 1). Due squadre di ragazzi, provenienti da diverse scuole medie, gareggiavano nel rispondere ad indovinelli di cultura generale. La squadra vincitrice della puntata faceva guadagnare alla propria scuola una fiammante ed ovviamente cartacea enciclopedia (no, wikipedia era ancora lontana, a quell’epoca…).

Sicuramente il quiz è uno dei modi più di successo per giocare con la cultura, e benché semplice e diretto, a volte è utile per riprendere quello spirito del gioco che è sempre più necessario riprendere e coltivare, perché dopotutto è proprio il gioco l’occupazione più “seria” alla quale possiamo dedicarci, per capire e crescere.

Anche per le cose del cielo, il quiz è una possibilità di gioco e di istruzione…

Così viene spontanea la domanda, perché non dedicare uno spazio ad un quiz a tema astronomico? L’idea mi è venuta notando che la piattaforma Telegram ha appena implementato una modalità quiz, dove si possono formulare varie risposte di cui una è quella esatta, e al momento del voto viene rivelato se si è “acchiappata” la risposta giusta o no.

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Stato fondamentale

Follia inutile è il cercare
di non migrare non
decadere sullo

stato fondamentale.

Quale senso nel restare
aggrappato
al margine incerto di un proposito se è
uno sforzo quando è solo
uno sforzo,

come appena può piegare
la linea magnetica del campo,
se tutto non è una pace.

Poi chini sorprendersi a mormorare
nell’ombra segreta del chiostro con
strana dolce fiducia d’acqua pietà di me
peccatore…

Da “In pieno volo” (Ilmiolibro, 2014)

Disegno di Davide Calandrini (diritti riservati)

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Quel volo di stelle, oltre le parole

Le cose sono fatte di memoria e di novità, insieme. E’ come una filigrana tessuta insieme stretta stretta. A volte ci vuole solo questo, appena questo: un posto dove mettere le cose, dove sistemarle e farle respirare. Perché si intreccino con la vita, la vita di adesso, perché reagiscano con l’istante, lo fermentino e gli restituiscano profondità e spessore. In gioiosa rivolta contro la civiltà ultrapiatta che lavora a togliere, lavora a togliere colorito e sapore e a disperdere quella ultima carnalità infinita delle cose, che sola porta al respiro profondo e alla pace.

Ci sono cose belle, sì. Mi guardo indietro e vedo cose belle, in realtà vedo tante cose da qui, certo anche delle cose da sistemare, o meglio da lasciar respirare. Da tornare a guardare con occhi nuovi. E certe cose belle, che sono passate e passano nello scrivere, come architettura possibile, come possibilità non invasiva, risanante, ricostituente. 

Così ho pensato di aprire una piccola sezione, dove inserire piano piano alcuni testi, da qualcosa che è passato in alcuni libri, o anche senza passarci, è arrivata direttamente qui. Dalla stessa vita, dall’idea costante di sporcare il foglio con tracce di vita, di farlo per un desiderio di più vita ancora, ecco che arriva qui. Magari con qualche immagine, qualche disegno. Qualche collaborazione, innesco di relazione, possibilità di un cammino di guarigione. Cercando intrecci, modi per cui parole e immagini possano incontrarsi, possano baciarsi. 
Spesso le cose belle sono legate alle parole, per me. E’ strano, sono cose legate alla parole, ma a parole che cercano sempre di esondare da sé stesse. Il discorso di parole oggi è qualcosa di molto particolare. Ci affezioniamo sempre tanto, ai discorsi. E’ facile, viene semplice, con poca fatica. Rischiamo, in un certo modo, rischiamo di rimanere in un certo mondo. Un mondo dove le parole non dicono che sé stesse, qualcosa che è strutturalmente incompleto. Dove la parola amore rimane una parola, per esempio, e non si sporca di niente che abbia a che vedere con l’amore, quello vero. Quello che si riceve e quello che si dà, che è immensamente più bello e disordinato e profondo e sporco e slabbrato e doloroso ed incantevole, della parola amore. Dove perfino dire stelle ti mette comunque al sicuro dallo sperdimento del cuore e della pelle e della coscienza che ti può accadere sotto un cielo stellato. Ma no, tu usi le parole per distanziare il tuo corpo dall’accadere purissimo, per quella ultima paura di metterti in gioco, di giocare a vivere tra tutta l’irrazionalità magica che ti immagini, quando lasci la briglia, finalmente lasci correre, ti godi l’aria addosso e basta.

Oltre la parola, è l’immagine che ci guarisce… 

Dobbiamo svelare il gioco, dobbiamo tornare alla connessione tra parola ed immagine. Dobbiamo legare le parole al mistero perpetuo ed istantaneo del flusso del sangue nelle vene e delle pulsazioni periodiche dei tempi, della luna piena, del mestruo e della fecondità, del respiro del cosmo. Delle stelle in volo, adesso. Dal giorno e della notte, fuori da questa architettura artificiale di iperattività al neon, che non ci appartiene, che non ci soddisfa, che non ci rispetta.

Le parole da sole, sono così e a volte da certi usurati percorsi verbali sbuchiamo fuori e ci accorgiamo he non abbiamo toccato niente, e non ci siamo fatti toccare da niente. Così le parole sono sterili, tratteggiano un mondo senza carne, un mondo abitabile soltanto in apparenza. Infatti arriva il momento che ci accorgiamo di non farcele bastare, le parole, e stiamo male. Non ci stiamo più in questi confini, soffriamo. Un sorriso, uno sguardo, un tocco, un profumo, un odore, un corpo. Certe parole disegnano involucri vuoti, più ne costruiamo più sentiamo la mancanza di un pieno che ci sostenga. 
La civiltà televisiva è un fiume di parole, ma tutto rimane strutturalmente confinato in uno schermo piatto, asettico. Un sorriso di donna attraversa lo schermo ma è appena una manciata di pixel, lei non mi vede, non riorganizza il suo universo corporeo, per mia presenza. Non modula gli sguardi, la sua biochimica non ritorna a negoziare la tavolozza degli odori, il ritmo del respiro, per il fatto semplice d’esserci, insieme. Così gli schermi dei computer, le baruffe sui social, le dispute politiche e le foto dei piatti cucinati. I sorrisi per i follower. Manca carne e sangue in questo mondo virtuale, manca sempre di più. 
La parola che buca l’universo stesso al quale appartiene, è la parola poetica. Lo buca non perché è più capace, ma perché è più onesta. E dunque il passaggio è facile che si apra da sé, il passaggio in un cosmo diverso, più carnale. Dove dire una parole vuol dire quasi mangiarla, dire un’idea è assimilarla (sempre geniale Gaber, soprattutto quando cantava se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione), è farei conti con il nostro corpo, il nostro respiro. 
Insomma la parola onesta è quella che non nasconde, non nasconde il suo immenso bisogno. Il suo bisogno strutturale, cosmico. La poesia vera non nasconde mai il bisogno strutturale dell’uomo. Di amore, affetto, di senso, di essere salvato. Possiamo provarci a nascondere questo bisogno quotidiano, a volte così scomodo. Possiamo esercitarci in questo, ma ci allontaniamo da noi stessi, e dalla poesia. Lei, proprio non può nasconderlo questo bisogno. 
C’è un pieno da ricercare dietro le parole, oltre le parole, e le parole hanno senso quando ti lanciano oltre, ti spingono verso qualcosa che loro non ti possono dare, ti fanno da trampolino e si arrestano all’imbarco, al tuo imbarco verso il centro di te, verso le stelle, verso quell’ambito sacro dove le parole non arrivano.

E tu ritorni a guardarti amorevolmente, e le stelle ritornano tutte in volo. 

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Darsi Pace

Ogni giorno è sempre il
primo giorno,
di questo lavoro ed è tutto

ancora nuovo e non importa
non ci importa affatto
quante volte cadi se una
o dieci cento mille (che di questo
nulla rimane, sai) ma

soltanto resta l’adesione a questo
lavoro cordiale
(da sempre, in tua attesa)
piacevole ed impegnativo
che può far la vita bella.

Di nuovo, bella.

Da “Imparare a guarire” (Di Felice Edizioni, 2018). Disegno di Davide Calandrini (diritti riservati)

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In pieno volo

Così dicevi nel giardino spazzato dal sole
prima di andare, forte e lieve della
tua più fonda età.

Salutandomi ricordavi
mi raccomando non smettere
non smettere di scrivere.

Non smettere. Parole che rimanevano appese.
Appiccicate dentro, arrese.
Acciottolate strette

restano, tuttora.

Non smettere.


Da “In pieno volo” (Ilmiolibro, 2014)


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C’è un vento

C’è un vento
fuori

muove gli alberi forte
nella sera.

Con mia moglie
più volte guardiamo
dalla finestra.

C’è luce in casa,
un quieto sostare

nella domenica
che ormai declina.

Protetta nel silenzio
é la mia opera:

addomesticare l’inquieta paura,
dicendo di sì:
sì vieni, sì, va bene, sì.

E’ questo il mio lavoro, sì.

Alimentando placidamente
un tranquillo desiderio
della Sua perenne compagnia.

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Imparare a fiorire

Non sapevi, timida,
verificare la sequenza limpida
d’ogni segmento esploso, eroso
in questa spietata e petrosa
intersconnessione.

Sapevi appena questo – come
adatta, adattata dalla pratica
resa morbida dalla
pratica, resa quasi morbida quasi
meno aspra, dalla costante
pratica.

Sapevi di questo lavoro
che ripesca gioia dove
non avevi sentore, fin tra il tuo
stesso identico
odore oppure

ti fermi feconda in quell’oppure
gravida ormai di formula e azione nel tuo
stare e pensi oppure,
il lavoro.

O il lamento o il lavoro non
c’è infatti terreno in mezzo e l’attesa
ricama l’intimo compimento come

parto d’un mondo terminale, che
nelle tue mani giunte già
ricomincia a
fiorire.

Da “Imparare a guarire” (Di Felice Edizioni, 2018)

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