L’oscurità dello spazio profondo e l’orizzonte terrestre, sullo sfondo della foto. Davanti, i moduli Unity costruiti in Russia (sinistra) e negli Stati Uniti (destra), dopo poco dopo aver lasciato la stiva di Endeavour. Era il dicembre del 1998. Era l’inizio dell’avventura chiamata Stazione Spaziale Internazionale. Era l’inizio, appunto: tutto il resto si sarebbe assemblato, con il tempo, attorno a questo nucleo essenziale.

L’inizio della Stazione Spaziale Internazionale
Crediti: NASA

I componenti dell’attuale stazione spaziale sono stati costruiti in vari paesi del mondo, con ogni pezzo che viene portato nello spazio e collegato agli altri da complessi sistemi di robotica e dall’abnegazione di umani protetti da tute spaziali: una testimonianza di un affiatato lavoro di squadra e di una grande coordinazione tra persone e tecnologie di varie culture.

Al presente, abbiamo missioni importanti (tra le quali Euclid) che all’ultimo momento hanno rinunciato ad essere inviate nello spazio da vettori russi, per la crisi Ucraina. Argomentava un illustre docente universitario, ad un recente convegno, che si è sempre collaborato con la Russia, anche quando ne combinava di tutte con gli stati più piccoli a lei vicini. Non c’è alcuna ragione sensata per smettere, adesso.

Non sono un analista politico e non mi ci voglio improvvisare, ma ritengo che nessuna vita umana sarà salvata dalla rinuncia alla collaborazione, mentre proprio dal non tagliare tutti i ponti e lasciare un margine di dialogo – fosse pure un dialogo tecnologico e spaziale – potrà venire qualcosa di buono e forse riaprirsi un sentiero di speranza.

La Stazione Spaziale mostra all’universo cosa possiamo fare quando collaboriamo: quando non vince l’io egoico-bellico ma l’anelito alla cooperazione e alla collaborazione che pure è iscritto nel cuore di ogni donna e di ogni uomo.

La corsa alla Luna probabilmente ci ha salvato, negli anni Sessanta, da una guerra nucleare sulla Terra. La nuova corsa allo spazio può avere ricadute benefiche innumerevoli. Se sono riusciamo ad alzare la testa. O riusciamo, tra tanti pensieri di guerra, ad inserire un respiro profondo.

E a volte l’essenziale della giornata è la pausa di riflessione tra due profondi respiri, e quel tornare a guardarsi dentro durante una preghiera di cinque minuti.

Bisogna ripartire, da questa annotazione di Etty Hillesum, questa ragazzetta di una felicità intestirpabile, che nemmeno la morte in un campo di concentramento ha potuto intaccare. Capiremo sempre un po’ di più, allora, che siamo fatti per grandi cose. Che questo tempo così aspro ci spinge potentemente a rinnovarci, a rinascere. E che l’universo, ci attende.

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