Per quanto il titolo possa apparire roboante, bisogna dire che non è troppo lontano dal vero, in questo caso. Ed è tutto merito loro, se ci spingiamo fin quasi ai confini del cosmo: merito senz’altro di questi grandi telescopi spaziali dei quali ragiono in questa recentissima chiacchierata svolta in compagnia di Alberto Negri, di SpazioTesla.
Certo di telescopi nello spazio ormai ce ne sono tantissimi, la lista è davvero lunga. Solo per questioni di esempio e per la loro indubbia rilevanza nella storia e nella attualità astronomica, che sono stati scelti questi tre: Hubble, James Webb ed Euclid, tutti e tre già ben presenti tra gli articoli di questo blog (se cliccate sui link sotto il nome dei singoli telescopi potrete verificarlo).
Veramente una immagine festosa quella che ci mostra una gran varietà di giochi di luce che interessano i residui spumeggianti non di una, bensì di (almeno) due stelle esplose. La regione è nota agli astronomi come 30 Doradus B ed è in realtà parte di una zona di cielo ben più ampia, nella Grande Nube di Magellano (lontana da noi circa centosessantamila anni luce) dove nuove stelle si stanno formando continuamente, da circa dieci milioni di anni.
Questa particolare immagine è stata realizzata combinando i dati in banda X provenienti dall’osservatorio spaziale Chandra, il telescopio ottico di quattro metri di ampiezza Blanco (in Cile) e i dati infrarossi provenienti dal telescopio spaziale Spitzer. Per impreziosire poi questa già sapida preparazione, sono stati aggiunti dati provenienti da Hubble, sempre in banda ottica.
Le motivazioni, per me, sono diverse. Intanto, un voler restituire qualcosa per tutto ciò che di buono si è assorbito, si è vissuto. Anche, accogliere l’invito ad essere più creativi, che mi pare così organico al percorso stesso. A mettersi in gioco secondo le proprie capacità, le personali competenze. Il percorso in Darsi Pace costituisce per me, fin dall’inizio, uno stimolo straordinario a guardare il mio lavoro di astrofisico, fuori dalle brume dell’abitudine. Da questa prospettiva, posso farmi toccare ed interrogare in modo inedito da ciò a cui dedico tanta attenzione, nella mia giornata. Sì, posso (anzi, devo) vedere anche le stelle, in modo nuovo. E così, raccontarle.
Cos’è studiare l’universo, cosa c’entra con la nostra umanità? Ed ancora, è davvero importante in quest’epoca travagliata? O è una cosa da prendere così, come un divertimento intellettuale, per chi ha la fortuna di potervisi dedicare? Prima ancora che formulare frettolose risposte, stare in queste domande è per me un primo, necessario passo… [Continua a leggere sul sito di Darsi Pace]
C’è bisogno di portare il cosmo più decisamente dentro le nostre vite: la sua “rimozione” è infatti funzionale all’assetto neoliberista del sistema in cui siamo avvolti, perché estraniandoci dalle stelle diventiamo solo più predisposti al consumo e al consenso verso un “ordine del giorno” dettato dalle oligarchie: proprio come quei “polli di allevamento” di cui già Giorgio Gaber parlava profeticamente anni fa. C’è bisogno delle stelle come fattore che contribuisca e inneschi la vera rivoluzione, l’unica ancora possibile, l’unica sempre possibile.
Per questo ci serve il cielo: non è un qualcosa di lassù, un qualcosa qualsiasi. Un qualcosa staccato da noi. Serve nella nostra vita quotidiana, nella vita affannata di mattine corse verso il metrò con magari la pioggia già appiccicata addosso, oppure di incastramenti metallici in lentissimo movimento sulla tangenziale, la testa piena di cose da fare e magari di ruminazioni sulla serata precedente o su quella scadenza saltata o su quella persona che vorremmo conoscere meglio o quell’altra che conosciamo ormai da una vita ma che proprio ieri abbiamo trattato – ancora una volta! – con stizzita sufficienza, non pensando al mistero stellato che lei, che ogni persona, è nel cosmo.
Ho ripescato quasi per caso un post del 2014 in cui spiegavo perché “stavo con Apple” riguardo la scelta di un tablet. E con una certa curiosità mi sono messo a sfogliare la lista dei motivi per cui al tempo la mia scelta era caduta su iOS e non su Android. Questo mi fa capire ancora di più come le cose cambino velocemente, in campo tecnologico.
Per gioco, provo a riprendere i quattro punti dell’articolo orignale e aggiornarli. Inserisco qui di seguito una piccola tabella, a sinistra la voce originale del post del 2014, a destra la situazione odierna.
Non lo uso più. Ormai ci sono un sacco di buoni software per note, per tutti i sistemi operativi
In effetti molti dei motivi che avevo prima per preferire un dispositivo iOS sono ormai svaporati. E difatti da tempo uso un tablet Huwei, il glorioso – e per certi versi imbattuto – Huawei Mediapad M5, insieme con un Samsung Tab A8 acquistato più di recente, in caso serva uno schermo un poco più grande.
Per essere completi, andrebbe anche detto che se alcuni motivi sono spariti, se ne sono aggiunti altri che prima non avevo listato. Prima cosa il software per scrivere: su iOS potrei far girare Ulysses come pure iA Writer. Su Android Ulysses non esiste proprio e lo stesso iA Writer, pur esistendo, è decisamente più primitivo rispetto alla sua controparte per il mondo Apple.
Su iA Writer, come pure sullo struggimento per Ulysses e suoi miei ondeggiamenti verso il mondo Apple per (ormai) sua quasi esclusiva responsabilità, ho già scritto di recente.
Piuttosto, il vero problema, da come la vedo io, è che per qualche motivo – soprattutto nell’universo Android – c’è pochissima attenzione ai tablet di piccolo formato, che io invece trovo comodissimi. Basti dire che le caratteristiche del mio MediaPad (uscito, vorrei ricordare, nel lontano 2018), lo rendono ancora superiore – per molti versi – rispetto ai tablet contemporanei di comparabile grandezza.
Avevo ben sperato, per la verità, nell’uscita del Galaxy Tab A9 della Samsung, per poi patire l’ennesimo disappunto. Nella versione a 8.7 pollici, è decisamente un tablet economico con poche pretese: basti confrontare la risoluzione dello schermo, che è di 1340 x 800 pixel, con quella del MediaPad, che è invece di 2560 x 1600 pixel invece… bella differenza, no?
Per dirla tutta, il MediaPad infatti se la cava ancora più che bene. Tra l’altro a differenza degli Huawei moderni, ha pieno accesso al Play Store di Google, perché è stato prodotto prima dell’infausto blocco decretato per la casa produttrice cinese. Gli unici punti in cui senti di avere in mano qualcosa di un po’ datato, sono la memoria interna che al giorno d’oggi risulta davvero scarsa (miseri 32 GB, il che mi costringe a continue lotte per mantenere un po’ di spazio libero) e il fatto che la versione di Android sia bloccata, da tempo immemore, alla release numero nove.
Aggiornamenti, da tempo non ne vedono più: fino ad un certo punto sono arrivati quelli di sicurezza, ora mi pare che dalla casa madre non arrivi più nulla. Tutto tace. Ed è un vero peccato, perché il dispositivo di suo è veramente ottimo. Ribadisco, da tempo volevo sostituirlo con un altro circa della stessa dimensione, ma non trovo ancora nulla di percettibilmente migliore.
C’è insomma questa idea, che quello piccolo è quello economico, pensato per chi vuole spendere poco. Ma perché mai? Che c’entrano le dimensioni dello schermo con la spesa che si vuole affrontare? Quello piccolo è comodissimo da portare in giro, e potrei volerlo preferire ad uno più grande in diverse occasioni – pretendendo comunque un dispositivo dalle prestazioni onorevoli. Il fatto che il Tab A9 di dimensioni maggiori (indicato significativamente come Plus) abbia caratteristiche tecniche ben più allettanti rispetto al Tab A9 piccolino, del resto, la dice lunga su ciò che pensa Samsung.
Niente, su questo rimane solo Apple – piaccia o no – che sembra crederci, nei piccoli tablet. Per dire, il suo iPad Mini del 2021 non è affatto una versione degradata di un tablet più grande, ma rimane in sé un aggeggio di tutto rispetto (noto tuttavia che la sua risoluzione non raggiunge ancora quella del MediaPad, attestandosi su 2266 x 1488 pixel). E già si vocifera che una prossima versione di iPad Mini arriverà sugli scaffali dei negozi tecnologici, in questo stesso anno.
Già, ma Apple è Apple, nicely overpriced (come recitava una delicata presa in giro uscita tempo fa), e per ottenere un iPad Mini attualmente bisogna cavare fuori dal portafoglio la cifra non del tutto trascurabile di 659 Euro, stando al prezzo di listino. Lo so bene, non è la prima volta che mi spiaccico addosso alla politica dei prezzi della casa di Cupertino, riportandone varie contusioni.
E dunque? Niente, per ora mi tengo i miei due tablet Android. E vediamo un po’ cosa succede, nei prossimi mesi. E intanto che li uso, mi meraviglio delle stranezze del capitalismo internazionale, per cui un tablet di quasi cinque anni fa, fermo ad Android 9, è ancora – per certi versi – il meglio che si possa avere.
Per la prima volta, gli astronomi hanno combinato i dati del glorioso Osservatorio a raggi X Chandra con quelli del telescopio spaziale James Webb per studiare il famosissimo residuo di supernova Cassiopea A. Questo lavoro ha contribuito a spiegare una struttura piuttosto insolita nei detriti della stella distrutta, che viene chiamata “Green Monster” (mostro verde), a causa della sua somiglianza con il muro nel campo sinistro dello stadio di football Fenway Park, in quel di Boston.
Combinando i dati Webb con i raggi X di Chandra, i ricercatori hanno concluso che il cosiddetto mostro verde è stato creato da un’onda proveniente dalla stella esplosa, che sbatte contro il materiale che lo circonda.
Dal suo lancio, avvenuto nel 1990, Hubble ha cambiato profondamente la nostra comprensione del cosmo. Le osservazioni compiute sono circa un milione e mezzo, più di ventimila gli articoli scientifici pubblicati a seguito di sue scoperte. Senz’altro Hubble è la missione più produttiva nell’intera storia della NASA.
In questo periodo ci si imbatte in una molteplicità stellare, direi, di auguri ed auspici per il nuovo anno. Astronomicamente parlando, come fanno notare alcuni, questo è appena l’inizio di un altro giro intorno al Sole: tuttavia penso che debba trattenere una sua carica di evocazione, di suggestione. Perché qui è stato detto molte volte, l’astronomia che ha ancora valore è ormai soltanto (e non è poco) quella che ha un collegamento di senso con l’avventura umana, un collegamento forte e stabile. Siamo noi a dar significato al cielo in qualche maniera, è il nostro modo di guardarlo che lo fa esistere in un certo modo e non in altri.
Allora un altro giro è anche l’occasione per fare il punto, vedere dove si vuole andare noi come persone, perché se la Terra compie un altro giro, astronomicamente assai simile a quello che lo ha preceduto, noi non possiamo rimanere sempre sugli stessi percorsi. Dobbiamo crescere, dobbiamo evolverci: rifiutarlo è fonte di sicuro disagio, perché è come opporsi ad una legge di natura, ad una regola dell’universo. Dobbiamo evolverci, altrimenti perdiamo il senso del nostro tragitto, aggrappati a questo pianetino che è a sua volta lanciato dentro un sistema di lanci e rilanci che ci fa viaggiare nella Galassia e con lei, nell’Universo intero.