Si chiama Abell 3322 ed è un ammasso di galassie piuttosto grande. Per la cronaca, al centro si trova la galassia 2MASX J05101744-4519179 (lo so, non è esattamente un nome facile da ricordare, fortunatamente è improbabile che vi troviate a doverla citare in una conversazione con gli amici).
L’ammasso di galassie Abell 3322 Crediti: ESA/Hubble & NASA, H. Ebeling
Importantissimo è studiare gli ammassi come questo, perché da questi studi dipende molto della nostra comprensione dell’evoluzione della materia (oscura e luminosa) in queste gigantesche strutture cosmiche. Le quali si rivelano anche prodigiosi “telescopi naturali” che amplificano la luce di oggetti da noi lontanissimi, attraverso il fenomeno delle lenti gravitazionali.
Devo dirlo, anche a rischio di apparire utopista: io credo che quella nuova umanità che tutti indistintamente attendiamo, dovrà avere – quasi a pelle – una percezione del cosmo molto più viva di quella che abbiamo noi ora.
Siamo ancora immersi in una poderosa stortura, se ci pensiamo: siamo dentro uno spazio immenso e pieno di cose da guardare – che sfidano la nostra immaginazione – ma facciamo perlopiù finta di niente. Cose da guardare, come questa qui sotto: l’ammasso di galassie Abell 2744 ripreso dal James Webb, una poderosa fusione di tre distinti ammassi di galassie a circa tre miliardi e mezzo di anni luce da noi.
L’ammasso di galassie Pandora Crediti:NASA, ESA, CSA, Ivo Labbe (Swinburne), Rachel Bezanson (University of Pittsburgh), Processing: Alyssa Pagan (STScI)
Può essere un caso che soltanto in quest’epoca abbiamo accesso ad immagini come questa, soltanto ora il cosmo si svela ai nostri occhi in una ricchezza soverchiante di varietà e di configurazioni, davvero da travalicare ogni pensiero? Basta fare un giro nell’ammasso di Pandora (la voce che accompagna è in inglese ma già le immagini giustificano il viaggio) per accertarsene oltre ogni dubbio.
La galassia medusa JW39 fluttua serenamente nello spazio, in questa immagine del Telescopio Spaziale Hubble. O perlomeno, così sembra.
La galassia “medusa” JW39 Crediti: ESA/Hubble & NASA, M. Gullieuszik and the GASP team
A dispetto delle apparenze, la galassia si trova a nuotare in un ambiente ferocemente ostile: un ammasso di galassie. Rispetto alle loro controparti isolate, infatti, le galassie negli ammassi combattono delle aspre battaglie. E ne portano i segni: spesso appaiono distorte dall’attrazione gravitazionale di vicini invadenti (e grandi), che le possono distorcere in una varietà infinita di modi. Tutto sommato, per l’ambiente in cui si trova, JW39 conserva una apparenza tutto sommato ordinata e simmetrica.
Con una parola (troppo) in voga, potremmo forse chiamarla una galassia resiliente. A guardarla bene, questa maestosa galassia lontana quasi un miliardo di anni luce da me, mi insegna che si può splendere anche nella fatica, si può brillare anche dentro la battaglia.
Certo, io me lo scordo sempre. Ma forse lei, sta lì per questo.
Un campo come questo si apre a mille considerazioni. Prima di tutto, si scorgono miriadi di galassie ellittiche, “colte” in diversi orientamenti. Sulla sinistra, anche un paio di stelle brillanti, vicine a noi, come simpatiche “intruse” nell’immagine a largo campo.
L’ammasso di galassie Abell S520 visto da Hubble Crediti: ESA/Hubble & NASA, H. Ebeling
Questa preziosa collezione di curiosità astronomiche è l’ammasso di galassie Abell S520 (anche ACO S520), che si trova ad una distanza da noi di circa 2,6 miliardi di anni luce. Veramente ricco: le galassie che ne fanno parte sono quasi trecento.
Come mai l‘ammasso di galassie di Perseo brilla così evidente in un particolare “colore” nella banda X? Nessuno lo sa con certezza (tante sono le cose del cielo che ancora dobbiamo capire). Però potrebbe essere qualcosa che ha a che fare con la materia oscura.
L’ammasso di galassie in Perseo (Crediti: X-ray: NASA/CXO/Oxford University/J. Conlon et al.; Radio: NRAO/AUI/NSF/Univ. of Montreal/Gendron-Marsolais et al.; Optical: NASA/ESA/IoA/A. Fabian et al.; DSS)
Di fatto, l’ammasso presenta una notevole peculiarità, quando osservato nella banda dei raggi X (tecnicamente, intorno ai 3.5 Kev). Ebbene, in questo “colore”, la parte esterna appare particolarmente brillante, mentre la zona centrale, che probabilmente circonda un buco nero di grande massa, risulta invece peculiarmente oscura.
Questo fatto non è per niente facile da interpretare, con le caratteristiche note dell’ammasso di galassie.
Una ipotesi che potrebbe forse spiegare questa stranezza, è quella della “materia oscura fluorescente” (per i più arditi, qui l’articolo originale). Questa strana materia potrebbe essere particolarmente abile nell’assorbire la radiazione a 3.5 KeV, responsabile del “colore” di cui stiamo trattando. Dopo l’assorbimento, la materia oscura fluorescente sarebbe in grado di riemettere questa radiazione (proprio con un effetto analogo alla fluorescenza) creando dunque questo eccesso di colore. Dappertutto, tranne nella zona intorno al buco nero centrale, dove – per le condizioni peculiari dell’ambiente – vincerebbe invece l’effetto di assorbimento.
Insomma, fluorescente o no, le ipotesi sulla materia oscura (e sull’energia oscura), continuano a fioccare. E’ un campo aperto della ricerca cosmologica, anzi un campo apertissimo. Le teoria ci dicono che materia ed energia oscura formano circa il 95% della massa-energia dell’Universo. Capire questo “quasi tutto” è una sfida emozionante per la cosmologia moderna: forse, è la sfida in assoluto più intrigante, che oggi si ponga lo scienziato che guarda il cielo.
Le lenti gravitazionali sono strumenti formidabili per investigare l’universo lontano, ne abbiamo parlato diverse volte: dalla deviazione dei fasci luminosi ad opera di una grande concentrazione di massa, possiamo conoscere importanti dettagli di oggetti lontanissimi. In più, sono strumenti che non dobbiamo allestire noi (come potremmo?) ma la natura stessa ci mette assai amorevolmente a disposizione. In fin dei conti non si tratta di inventarsi nulla ma di sfruttare intelligentemente quello che c’è.
Prendiamo il caso dell’ammasso di galassie Abell 383. In pratica, un bel grumo di galassie e materia oscura, a circa 2,5 miliardi di anni luce da noi. Con la sua massa enorme è una potentissima lente gravitazionale, ma per usarla veramente bene bisogna calibrarla – il che vuol dire, in questo caso, arrivare ad una stima della massa totale (per poter valutare la deflessione dei raggi luminosi che essa opera). Come dire, la lente è già in posizione, la troviamo bella e pronta all’uso. L’unica cosa che ci manca è il foglietto delle istruzioni, dove viene dettagliato il potere di ingrandimento della medesima. Per la lente ottica il fattore di ingrandimento è determinato dalla curvatura delle superfici, per la lente gravitazionale è semplicemente il valore della massa.
L’ammasso Abell 383 Crediti: NASA, ESA, C. McCully (Rutgers U.) et al.
Per prima è l’attesa, potremmo dire (perdonate la sfacciata autopromozione, ma non ho resistito…!). Sì perché gli scienziati hanno capito che per calibrare questa lente così sui generis non bisogna far nulla, soltanto… aspettare. Sì. Aspettare che una supernova – non una qualsiasi, ma di un tipo molto specifico – capiti dietro l’ammasso di galassie, e poi cercare di capire dalle osservazioni quanto la luce della supernova sia stata enfatizzata dalla nostra lente cosmica. Questo perché delle supernovae sappiamo ormai molto, e ci sentiamo abbastanza sicuri – non sempre, ma in alcuni casi sì – della luce che producono. E’ una delle tecniche più’ affidabili per la “messa a punto” di queste lenti.
Nell’immagine di Hubble l’ammasso di galassie A383 esibisce le sue capacità di lente gravitazionale, sulla destra, distorcendo pesantemente le galassie poste dietro al centro dell’ammasso. Ma guardate adesso i pannelli di sinistra: si vede una galassia lontana in due momenti diversi, prima e dopo la recente rilevazione di una supernova. Capirete bene che il trovare un oggetto familiare agli astronomi, a così grande distanza, dice tutto: è un aiuto insostituibile per comprendere cosa davvero succede alla luce attraverso la lente di A383. Come dire, non sappiamo che lente sia, ma siccome sappiamo di che tipo è la lampadina posta dietro la lente, possiamo facilmente arrivare a determinarne le caratteristiche proprio osservando come ci arriva questa luce.
Questo, abbozzato molto rozzamente (lo avrete riconosciuto) è il concetto di candela standard, mai troppo enfatizzato in astronomia. Ebbene, una particolare classi di supernove, le supernove “di tipo Ia” si dimostrano eccellenti, per questo ruolo. Per la cronaca, non è il solo caso di questo tipo: sono state trovare supernovae così “affidabili” anche dietro ad altri due ammassi di galassie, all’interno del progetto CLASH.
Dunque per guardare lontano non è necessario chissà quale sforzo; è ben più importante sfruttare quello che abbiamo a disposizione. L’universo stesso ha cura di fornirci i mezzi per conoscerlo – a noi l’approfittarne!
Utilizzando il “potere di amplificazione” di una lente gravitazionale cosmica, gli astronomi hanno scoperto una galassia distante, le cui stelle risultano esser nate “inaspettatamente presto” nella storia del cosmo. Il risultato è importante perché getta nuova luce sia sui meccanismi di formazione delle galassie, sia sulle prime fasi dell’evoluzione dell’universo stesso.
Johan Richard, a capo della ricerca appena pubblicata su Montly Notices of Royal Astronomical Society, ha affermato “Abbiamo appena scoperto una galassia lontana che ha iniziato a formare stelle appena 200 milioni di anni dopo il Big Bang. Questo mette alla prova le teorie su quanto rapidamente si siano formate ed evolute le galassie, nei primi anni dell’universo. Ciò potrebbe anche aiutare a risolvere il mistero di come sia stata dissolta la ‘nebbia di idrogeno’ che riempiva l’universo primordiale.”
La ricerca è stata condotta tramite osservazioni a diversi telescopi, incluso il Telescopio Spaziale Hubble, lo Spitzer (entrambi nello spazio) e il W.M.Keck Observatory alle Hawai.
La galassia distanta è visibile attraverso un ammasso di galassie noto con il nome di Abell 383, la cui gravità influenza il percorso dei raggi di luce che lo attraversano, un pò come fa una comune lente ottica nel caso della luce solare (anche se ovviamente il principio è diverso). Di fatto, l’allineamento “fortunato” tra la galassia, l’ammasso di galassie e la Terra si traduce in una amplificazione della luce che proviene dalla galassia lontana, il che permette agli astronomi di condurre osservazioni dettagliate. Va detto che senza l’ausilio di questa lente gravitazionale, infatti, la galassia sarebbe sicuramente risultata troppo debole per poter essere osservata, nemmeno utilizzando i migliori telescopi oggi a nostra disposizione. Potremmo dire dunque che, in questo caso, è la natura stessa che ci viene in aiuto!
Tramite analisi ottiche e spettroscopiche, è stato determinato lo “spostamento verso il rosso” (redshift cosmologico) della galassia, pari a 6,027. Questo vuol dire che stiamo vedendo la galassia come era quando l’universo era vecchio appena 950 milioni di anni (l’età oggi stimata dell’universo, come sappiamo, è di 13,7 miliardi di anni, dunque era davvero molto piccolo…).
Un redshift così rilevante, comunque, non fa di questa galassia quella più lontana mai osservata: ne sono state trovare diverse con valori di redshift circa 8, e una addirittura con reshift intorno a 10! La peculiarità di questa galassia infatti non risiede nella sua distanza, ma nel fatto di presentare caratteristiche drammaticamente diverse da altre galassie distanti che si siano già osservate, le quali generalmente brillano gagliarde della luce di stelle esclusivamente giovani.
Benché le indicazioni di redshift, come abbiamo menzionato, piazzino la galassia molto presto nell’evoluzione cosmica, tuttavia i dati di Spitzer indicano come la galassia sia fatta di stelle sorprendentemente vecchie e relativamente poco luminose (come spiega Elichi Egami, che ha preso parte alla ricerca). Vi sono segnali di stelle vecchie addirittura 750 milioni di anni, il che porta l’epoca della prima formazione stellare indietro fino a circa 200 milioni di anni dopo il Big Bang, molto prima di quanto pensavamo!
L’ammasso di galassie Abell 383… più “potente” del miglior telescopio a nostra disposizione! (Crediti: NASA, ESA, J. Richard (CRAL) and J.-P. Kneib (LAM). Acknowledgement: Marc Postman (STScI))
La scoperta presenta implicazioni che vanno molto al di là del periodo di prima formazione delle galassie, e può aiutare a capire come ha fatto l’universo a diventare trasparente alla radiazione ultravioletta nei primi miliardi di vita dopo il Big Bang. All’epoca, una nebbia diffusa di idrogeno neutro bloccava la diffusione della luce ultravioletta. Deve essere allora intervenuta una qualche sorgente di ionizzazione per il gas neutro, che “spazzasse” la nebbia e lo rendesse trasparente ai raggi ultravioletti, come lo è ora. Il processo è noto con il nome di “reionizzazione”
In effetti gli astronomi erano persuasi che la radiazione che ha fatto da “motore” alla rionizzazione dovesse aver avuto origine dalle galassie. Però fino ad ora, nessun candidato era stato trovato per confermare questa tesi. La presente scoperta potrebbe aiutare a sciogliere questo perdurante enigma.
Se infatti le galassie lontane, con stelle già “mature”, fossero molte più di quanto prima ipotizzato (come la recente scoperta porta a credere), ecco che la “radiazione mancante” per la reionizzazione potrebbe finalmente trovare una sua origine, del tutto plausibile.
Una ultima osservazione: fino ad ora dobbiamo affidarci alle (potenti) “lenti cosmiche” per effettuare simili scoperte. Questo vuol dire che possiamo sfruttare solo alcune configurazioni geometriche particolari (come in questo caso, l’allinemaneto Terra – ammasso di galassie – galassia lontana). Con il previsto avvento del James Webb Telescope, nella prossima decade (speriamo), potremmo essere nella posizione ideale per risolvere questo mistero, una volta per tutte (e aprirne, come è sempre per la scienza, mille e mille altri….)
Un articolo apparso in rete in data odierna, in forma di preprint, esamina in dettaglio la popolazione di ammassi globulari nel cuore del ricco ammasso di galassie chiamato Abell 1185. Immagini profonde ottenute con Hubble confermano la presenza di diverse migliaia di ammassi, in un campo – ecco la cosa interessante! – in cui in pratica non appaiono galassie.
Sappiamo che gli ammassi globulari sono onnipresenti nelle galassie, poiché si trovano praticamente in tutte, fatta eccezione soltanto per le galassie nane più piccole. Proprio per tale motivo questi giocano un ruolo fondamentale nell’aiutare gli astronomi a comprendere l’origine e l’evoluzione delle galassie stesse.
Accanto a questo, però, sono anche cresciute le evidenze del fatto che esista in molti casi una popolazione di ammassi che invece si trova al di fuori delle galassie. Già negli anni ’50 van den Bergh ipotizzava che un terzo di tutti gli ammassi fosse di “tipo intergalattico”. Da allora numerosi studi non hanno fatto altro che portare nuove conferme a questa idea: vi possono essere diversi ammassi non gravitazionalmente legati ad alcuna galassia!
L’ammasso di galassie Abell 1185 (Credits CFHT / Coelum)
Al momento non si sa molto riguardo la possibile natura od origine di questi ammassi intergalattici. Una ipotesi è che siano “normali” ammassi globulari strappati alla galassia di appartenenza da interazione gravitazionali. Rimasti dunque “a zonzo” per lo spazio proprio come detriti dell’evoluzione cosmica. D’altra parte, gli ammassi globulari sono strutture molto dense, e dunque è facile che possano resistere anche alla disgregazione – parziale o addirittura completa – della galassia nella quale si sono originati…